Alle radici della gnosi spuria. Il problema della corporeità nella Teologia contemporanea (di Luigi Copertino)

In un articolo apparso sulla “Rivista bimestrale della Custodia Francescana di Terra Santa” il teologo don Nicola Bux – già collaboratore del cardinale Joseph Ratzinger – ha toccato una questione aperta e dolente della teologia contemporanea prendendo in esame il caso di mons. Bruno Forte teologo di fama internazionale e arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (1).

Il problema toccato da Nicola Bux è quello, di ascendenze bultmanniane, della storicità della Resurrezione di Cristo che molta teologia contemporanea tende se non a negare quanto meno a minimizzare come si trattasse di un simbolo oppure dell’esperienza soggettivistica di fede – dunque senza alcune certezza di oggettività – della prima comunità cristiana che, quasi per addolcire il dolore della tragica fine di Gesù, avrebbe “sperimentato” ovvero avrebbe creduto di vivere l’esperienza della resurrezione, la quale pertanto non potrebbe rivendicare alcuna dimensione oggettiva e storica, riducendosi al vissuto immaginario degli apostoli.

Nicola Bux fa notare come tale approccio sia diventato un ostacolo anche nel dialogo ecumenico cattolico-ortodosso citando l’occasione di un incontro svoltosi a Gerusalemme anni fa allorché il sostenere da parte del teologo cattolico presente della tesi della “leggenda eziologica” comportò lo sdegnato abbandono delle assise da parte del teologo ortodosso e la contestazione da parte ortodossa della deriva teologica della Chiesa cattolica contemporanea troppo protestantizzata.

La tesi della “leggenda eziologica”, infatti, attribuisce al lavoro redazionale degli evangelisti i racconti evangelici del sepolcro vuoto togliendo pertanto ad essi quasi ogni valore di oggettività storica, contro – si badi bene! – le stesse dichiarazioni degli evangelisti preoccupati di attestare l’oggettività del fatto della Resurrezione, come quando, ad esempio, san Giovanni evangelista nella sua Prima Lettera, 1-4, dichiara con fermezza «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».

Il comune fedele non si accorge di queste insinuazioni teologiche eppure gli vengono fatte passare sotto il naso ad ogni Messa, e quindi fatte assorbire inconsciamente con tecnica psicologica manipolatoria, laddove viene costantemente abituato all’uso liturgico dell’espressione “evento pasquale” che presuppone una distanza incolmabile tra il Cristo pre-pasquale – quasi fosse un errante ed oscuro predicatore ebreo del I secolo che poi per qualche circostanza storica particolare che ha favorito la predicazione, rielaborata a modo loro, dei discepoli avrebbe avuto successo a sua insaputa e senza che lui lo avesse previsto – e il Cristo post-pasquale che sarebbe appunto quello mediato dal lavoro redazionale degli evangelisti e come tale da essi filtrato e, pertanto, incapace di restituirci il Cristo precedente supposto, a differenza dell’altro, autentico.

Siamo, con tutta evidenza, ad una sincope della fede, che fa un uso distorto dello stesso metodo storico utilizzo con le chiavi di letture di un pregiudizio filosofico di matrice chiaramente idealista, in quanto ripone la realtà non in una distanza oggettiva ma la riconduce al perimetro esperienziale e sensoriale del soggetto che dunque diventa l’inventore dell’unica realtà ad esso accessibile, quello esteriorizzata dal suo io, ma anche di conseguenza non facilmente comunicabile, se non per via intimistica ed esistenziale, agli altri.

Nel suo contributo Nicola Bux chiama incausa alcuni tra i più noti teologi propagandisti della tesi della leggenda eziologica, Raymond E.Brown, Pierre Benoit e Marie-Emile Boismard, G.Schille, L.Schenke, E.Schillebeeckx. Tra gli italiani fa il nome, per l’appunto, di Bruno Forte.

Nicola Bux cita pg. 103 dell’opera “Gesù di Nazareth storia di Dio, Dio della storia” (Cinisello B. 1994, 7ed), mettendo in rilievo come Bruno Forte in questo libro, sulla scia della teologia contemporanea suddetta, ritiene il dato della tomba vuota ambiguo, perché suscettibile di svariate interpretazioni e perciò incapace di fondare la fede nella risurrezione. Ne deriva, secondo Bruno Forte, che, al contrario, sarebbe la fede ad interpretare il sepolcro vuoto, il quale non aggiungerebbe né toglierebbe nulla all’esperienza degli apostoli che confessarono la risurrezione e la glorificazione di Cristo, cioè la sua signoria sulla morte. Come dire che il fatto storico della Resurrezione è secondario rispetto all’esperienza di fede soggettiva – la luterana “fede fiduciale” – l’unica che conta, sicché anche se quel fatto non ci fosse la sua costruzione di fede sarebbe egualmente fondante e primaria rispetto alla realtà storica.

Ancora Bux, poi, esamina le argomentazioni addotte da Forte, tra le quali l’inverosimiglianza del racconto delle donne che si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù “dopo tanto tempo”, per smontarle una ad una sulla base di ciò che conosciamo degli usi e costumi ebraici del tempo. E così Bux si perita di confutare Bruno Forte sul racconto delle donne al sepolcro ed osserva: «Che dire? Nelle Vite dei Profeti, un documento del I secolo, è attestato che i capi religiosi giudei usavano recarsi a pregare presso i sepolcri intorno a Gerusalemme, molti dei quali sono stati messi in luce dagli archeologi. Chi conosce il giudaismo sa che la mishna e il talmud prescrivevano che i sepolcri rimanessero aperti per tre giorni dal momento della sepoltura di un defunto, onde permettere i riti di pietà come l’unzione, che, infatti, veniva ripetuta sui cadaveri già avvolti nei teli; però, in prossimità delle grandi festività giudaiche come la Pasqua, i sepolcri venivano chiusi temporaneamente. Quindi, anche i discepoli di Gesù si apprestavano ad osservare tali prescrizioni (cfr Mc 16,6), se non fosse intervenuta la risurrezione. Infatti la sepoltura del suo corpo era stata fatta in tutta fretta a motivo della parasceve pasquale, pertanto bisognava ritornare a completare l’operazione. Tutto questo avvalora ulteriormente l’importanza del sepolcro vuoto. Ma Bruno Forte lo ignora»

Mentre rinviamo alla lettura integrale del contributo di Nicola Bux, per altri importanti dettagli e considerazioni, qui ci prema piuttosto aprire uno squarcio sulle più recondite radici della teologia di Bruno Forte e, più in generale, di certe correnti della teologia contemporanea.

L’estensore di queste righe è un fedele della diocesi di Bruno Forte e per questo, avendo avuto modo di ascoltarne spesso le omelie, gli è stato possibile comprendere qual è il suo ambiente teologico. Un ambiente gnostico. In merito, va detto subito – onde non cadere nelle strettoie di un certo tradizionalismo arroccato su una maldigerita neoscolastica alquanto poco “tomista” e dimentica del debito dell’Aquinate verso lo Pseudo-Areopagita – che parlando di gnosi bisogna sempre fare le opportune distinzioni. Bisogna sempre tener presente che essa non è univoca. Abbiamo, infatti, una gnosi pura, del tutto in sintonia con la Rivelazione ebraico-cristiana, ma anche una gnosi spuria. Quest’ultima biblicamente ha origine nell’evento narrato in Genesi 3,5, quello della suadente tentazione della “conoscenza del bene e del male” che evidentemente fa riferimento ad una conoscenza diversa da quella promessa da Dio ai Progenitori. Una conoscenza, una gnosi, falsa e opposta a quella vera e santa di Dio. Tanto è vero che l’ingannevolezza di questa conoscenza ofidica si rivela, immediatamente, nei suoi tragici effetti: non il conseguimento ingannevolmente promesso dell’auto-deificazione, dell’auto-immortalità, ma la morte, la malattia, la sofferenza, la dura necessità di doversi procacciare da vivere con il sudore della fronte.

Bruno Forte, come traspare da diversi suoi scritti, è un cultore della mistica cabalista con il suo carico neoplatonico ma a-christianus. Abbiamo davanti il suo saggio “Inquietudini della Trascendenza” (Morcellania, Brescia, 2005) in particolare le pp. 57-66 laddove egli tenta una rilettura cristiana della dottrina cabalista dello “zim-zum” molto acuta ed effettuata alla luce di Francesco d’Assisi e dello stesso Tommaso D’Aquino (2). Il tentativo di per sé non va compatito anzi deve essere apprezzato ma il punto sta nel significato non colto della dottrina dello “zim-zum” che non è, come ritiene Bruno Forte, quello dell’“umiltà di Dio” che “contraendosi” fa “spazio” in Sé alla creatura affinché essa possa esistere, altrimenti l’“estensione” infinita della sostanza divina impedirebbe l’essere e l’esistenza della creatura. Perché questo aspetto della dottrina in questione, per essere colto e riformulato nel suo lato veritativo, deve essere confrontato con il Paolo di Atti 17,28 “In Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” che postula la partecipazione dell’essere creaturale all’Essere divino senza necessità di “contrazione” di quest’ultimo ma nella Sua coesistenza per partecipazione, pur nella differenza e nella distanza, con la creatura. In realtà, il significato proprio della dottrina cabalista dello “zim-zum”, che Bruno Forte non sembra cogliere, sta invece, piuttosto, nell’affermazione, tipicamente gnostica, dell’essere come caduta e, non a caso, quella dottrina spiega l’origine del mondo, luogo del male e dell’esilio, evidenziando la “caduta” delle scintille spirituali, distaccatesi dal Pleroma, nell’oscurità della materia a seguito della frammentazione dell’unità cosmica uniforme e “quietistica” dell’origine. Ciò che, poi, postula una opposizione dualistica tra mondo spirituale e mondo materiale che è un tipico tratto della gnosi spuria.

Lo gnosticismo occidentale, compreso quello ebraico, sotto il profilo storico, ha probabili origini in età alessandrina e, nelle sue varie forme tardoantiche, si nutriva di molti elementi provenienti dalla filosofia platonica e neoplatonica. I Padri della Chiesa – che con esso ebbero un secolare e chiarificatore confronto – proprio per questo uso gnostico della filosofia ellenistico-platonica furono indotti a distinguere tra il Plato christianus e il Plato a-christianus, allo scopo di sottolineare che nella filosofia ellenistica non tutto era accoglibile quale materia di lavoro per lo sviluppo di una teologia, ossia di un commento filosofico, alla Rivelazione. Se non tutto, però, certamente molto dell’ellenismo appariva ai loro occhi chiaramente come una evidente propaideia Crhistou. Si trattava, quindi, di andare alla ricerca della perla nascosta nel letame.

Anche per la mistica cabalista è riscontrabile la duplicità sopra accennata per la gnosi in generale. Come per qualsiasi gnosi, anche il cabalismo non è univoco dato che è possibile riscontrarne una versione pura, espressione originaria della Rivelazione, ed una versione spuria, derivante da inquinamenti di varia provenienza. Nel XIX secolo, il rabbino David-Paul Drach, convertitosi in seguito a tale scoperta alla fede cattolica, nella sua opera “Dell’armonia tra la Chiesa e la Sinagoga” ha messo in evidenza l’esistenza dei due diverse tradizioni cabaliste, sottolineando le concordanze con la fede cristiana di quella tra esse che sulla base dei suoi studi egli concludeva avere una più sicura matrice mosaitica. Secondo il Drach, tuttavia, a causa del rifiuto da parte della Sinagoga di riconoscere in Cristo il Messia annunziato dai profeti, lungo i secoli il giudaismo post-bilico, nella sua quasi totalità, ha finito per accreditare l’altra tradizione cabalista, quella inquinata, ritenendola dettata per via orale e segreta direttamente da Mosé. Stando alla tesi di Drach, dobbiamo dunque ritenre che è in questa seconda versione che, nel XX secolo, la mistica cabalista ha trovato in Gershom Scholem un attento indagatore, con l’obiettivo di preservare questo patrimonio spirituale del giudaismo post-templare (3). Alla luce della distinzione tra le due diverse tradizioni, che non vale soltanto per la gnosi ebraica, diventa comprensibile perché la mistica cabalista oggi comunemente, ma erroneamente, accreditata come tradizionale o primordiale risale, invece, alla tradizione che per Drach è, nel suo impianto cosmogonico-emanazionista, intrisa di temi tipici di chiara matrice spuria di derivazione ellenistica.

Orbene, per tornare al problema della corporeità nella teologia contemporanea, il segno distintivo della gnosi spuria è l’orrore della carne, della materia (4). Questo orrore della materia caratterizzò, ad esempio, nelle rispettive epoche, pur alla distanza di molti secoli, i valentiniani come i catari. Lo stesso orrore caratterizza oggi tanto il neo-spiritualismo di massa, sul tipo del new age, quanto una certa dotta teologia e dotta filosofia di matrice generalmente idealista. L’estensore di queste considerazioni, in diverse occasioni – ricorda in particolare un amichevole colloquio pubblico in Francavilla al Mare (Chieti) tra l’arcivescovo e Vito Mancuso –, ha avuto modo di ascoltare Bruno Forte accreditare l’idea, per l’appunto mutuata dal cabalismo spurio, che Adamo non avesse un corpo reale ma etereo, fatto di “luce” privo di materialità carnale. Corollario di tale tesi è che il corpo umano sarebbe la punizione conseguita al peccato originale, quindi una prigione per l’anima che pertanto sarebbe la sola a poter aspirare alla redenzione.

Che il corpo originario dell’Adam edenico fosse dotato di caratteri, perduti con il peccato, oggi riscontrabili solo nei santi e nei mistici, che per grazia sono stati reintegrati nella pienezza originaria – ad esempio la “luminosità taboritica” (nell’arte raffigurata con l’aureola), la capacità della “scrutazione dei cuori”, il “digiuno mistico”, l’“insonnia mistica”, la “levitazione”, la capacità di spostarsi in “bilocazione” o di attraversare corpi solidi (“sottigliezza”), l’armonia con le creature animali del creato anche feroci (come poi si rinviene nella vita di molti santi che con lupi, uccelli, pesci, orsi intessono un rapporto di confidenza ed amicizia), l’esenzione dal lavoro per procurarsi il cibo donato gratuitamente (come sarebbe riaccaduto nell’episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci), la morte intesa come passaggio in Cielo della persona nella sua corporeità trasfigurata –, è del tutto vero ed è attestato sia dalla Rivelazione sia dalla fenomenologia mistica. Ed anche dalla patristica: si pensi, ad esempio, solo per citare qualche nome, ad Origene, Clemente Alessandrino e Gregorio di Nissa (5).

Ciò non toglie che, tuttavia, Adamo avesse un corpo di carne come il nostro. Le “pelli” di cui, in Genesi, Dio riveste i progenitori dopo la cacciata dall’Eden, che nell’interpretazione della gnosi spuria sono identificati con il corpo inteso quale decadenza dello spirito nella materia oscura, non erano invece, come, ancora, hanno sostenuto i Padri della Chiesa, il corpo materiale, di per sé, ma soltanto lo stesso corpo materiale di prima, in precedenza esente dai limiti e dalle sofferenze naturali, ora però privato della Luce avvolgente di Dio e quindi esposto alla caducità del mondo creato in stato di via. Il rivestimento con una pelle richiama infatti l’idea della necessità del rivestire una primordiale, ma del tutto fisica, nudità innocente ora perduta, ossia non sentita più come innocente, come anche l’idea della necessità del difendersi dal freddo prima non sofferto perché il corpo, in stato di grazia, era avvolto nel Fuoco spirituale dello Spirito Santo.

Bruno Forte, a detta di Nicola Bux, sulla scorta di certa teologia contemporanea, sostiene che la resurrezione di Cristo sia una “leggenda eziologica” ovvero una convinzione nutrita per esperienza soggettivistica dagli apostoli e come tale senza consistenza di storicità. Anzi, la storicità ed oggettività dell’evento non avrebbero di per sé alcun valore salvifico perché ciò che, secondo tale teologia non esclusiva di Bruno Forte, ha effetto soteriologico sarebbe l’esperienza di fede nella resurrezione, dove il termine fede, in sintonia con il protestantesimo, va colto nel senso di fideismo. Il noto teologo ed arcivescovo potrebbe, dunque, essere annoverato tra gli idealisti platonizzanti come erano, presumibilmente, i filosofi dell’Areopago che ascoltarono Paolo con interesse fino a quando egli parlò loro della resurrezione della carne, allorché lo derisero. Nelle teologie di derivazione protestante negatrici della storicità della Resurrezione corporea di Cristo ritorna, con tutta evidenza, l’antica avversione gnostica alla carne già a suo tempo combattuta e condannata dai Padri della Chiesa e dai primi Concilii, quando, ad esempio, affrontarono l’eresia monofisita.

Ecco dove sta il problema di Bruno Forte e di tutta una certa teologia contemporanea che, da Henry De Lubac in poi (“L’alba incompiuta del Rinascimento”), crede di tornare alla patristica – che in sé sarebbe ed è cosa ottima e necessaria – ma in realtà torna, sovente attraverso il neoplatonismo non più cristiano degli umanisti (Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, etc.), alle correnti gnostiche con le quali, sia in Oriente sia in Occidente, si confrontarono i Padri della Chiesa discernendo tra ciò che confaceva con la Rivelazione e ciò che aveva altra matrice. Deve infatti, come accennato, essere fermamente ribadito che i Padri non ebbero un atteggiamento di rifiuto e chiusura aprioristica, verso l’ellenismo e le sue varie correnti, ma di esame e confronto e quindi di selezione e purificazione.

Se, però, si parte – contro il dato rivelato (il Genesi afferma che la Creazione tutta, spirituale, animica e materiale, è buona perché Opera di Dio) – dal presupposto che il corpo è conseguenza del peccato, diventa inevitabilmente inaccettabile, o almeno non essenziale, che Dio si sia incarnato nella materia “cattiva” e che possa essere risorto in un corpo materiale, benché trasfigurato. Il corpo è, per lo gnostico, una oscura prigione dell’anima che non può ambire alla Luce. Questo perché, nella concezione dualista della gnosi spuria (6), il corpo appartiene al mondo materiale, privo di Luce, prodotto, in contrapposizione al mondo spirituale e luminoso, dal demiurgo nel maldestro tentativo di provocare turbamento nella silenziosa e indifferenziata quiete cosmica primordiale. Il demiurgo, nella gnosi spuria, è una sorta di deità minore – nello gnosticismo dei primi secoli cristiani identificata con il Dio biblico creatore – invidiosa del Dio Abissale che riposa nella quiete cosmica senza creare alcunché, dato che creare è gettare le creature nella sofferenza dell’esistenza. A questa contrapposizione tra il Dio Abissale, che sarebbe il Padre di Gesù dal corpo solo apparente, e il Dio creatore del Genesi, responsabile della creazione della materia e dell’imprigionamento delle scintille spirituali nei corpi materiali, si richiamava Marcione quando opponeva il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio creatore e “terribile” dell’Antico Testamento, buono il primo e malvagio il secondo.

Il problema di Bruno Forte è, dunque, il problema della misura dell’influsso della gnosi cabalista spuria nella sua teologia, sulla scorta di una tendenza ormai prevalente nella maggior parte della teologia contemporanea. Oltretutto, questo tipo di teologia, sminuendo la storicità della Resurrezione di Cristo, porta dritto alla negazione di qualsiasi distinzione tra il Cristianesimo – che è l’autentico Ebraismo nel quale si è riaffermata, con l’adempimento della promessa di Genesi 3,15 e poi di quella del profetismo biblico, la Rivelazione edenica tramandata dalla Tradizione principiale – e il giudaismo postbiblico.

Se togli la storicità di Cristo e riduci il Cristianesimo ad un idealismo di matrice cabalistica, cosa può distinguere il Cristianesimo dal giudaismo? Il Cristianesimo viene così “riassorbito”, quale una mera corrente più o meno ereticale, nel giudaismo postbiblico. Quest’ultimo, privo dell’unica sicura chiave di lettura delle Scritture ossia la “prospettiva cristologica”, è invece altra ed ambigua cosa non esente dal rischio – oggi riscontrabile nelle sue possibili derive politiche nelle cronache quotidiane dalla Palestina – di sostituire al Messia Re, del profetismo veterotestamentario, il “Popolo-Messia”. Ossia il rischio di identificare il popolo ebreo, nella sua collettività, con il Messia promesso. In tale prospettiva “a-cristologica” il popolo ebreo con le sue sofferenze sarebbe esso, non Cristo, il Salvatore del mondo. È da qui che ha preso le mosse la “sacralizzazione” in termini di “olocausto” del genocidio subito dagli ebrei e la sostituzione di Auschwitz al Calvario. Un evento, quello del genocidio ebraico, di per sé drammatico e tragico – che non si può certo negare, come fanno stupidamente certuni, benché, come ogni fatto, deve rimanere nelle disponibilità dell’indagine storica senza tabù – ma non unico nella storia perché essa, purtroppo, ha conosciuto molti genocidi. Un evento che così “messianizzato” è diventato – con tutte le conseguenze politiche che vediamo ogni giorno – la religione civile dell’Occidente post(anti)cristiano. In sostituzione della ripudiata fede nel Salvatore Gesù Cristo.

Ed anche in questo emergere di una religione alternativa per l’Occidente, nel vuoto lasciato dalla scristianizzazione avviatasi tra il XVI e il XVIII secolo e compiutasi definitivamente tra il XIX e il XX secolo, non è difficile vedere una radice gnostica nel senso della mistica cabalistica secondo la tradizione che il rabbino Drach riteneva inquinata.

Dobbiamo ancora al professor Gershom Scholem uno squarcio su un aspetto del dualismo metafisico della mistica ebraica, solitamente sottaciuto, che è alla base della deriva suprematista e razziale di certo ebraismo, perlomeno stando a talune interpretazioni del cabalismo. Interpretazioni che, poi, sono quelle del sionismo nazional-religioso di estrema destra, proprio dell’ultrafondamentalismo ebraico, ben diverse da quelle “universalistiche” e potenzialmente “cristiane”, ossia caritativamente aperte ai gentili, delle correnti tradizionaliste ed antisioniste dell’ebraismo come quella del gruppo rabbinico dei Neturei Karta.

Lo Scholem, in un suo libro famoso, intitolato, appunto, “La Cabala” (7), spiega che secondo quella dottrina vi è una netta distinzione fra anime non ebree ed ebree sicché «Le prime hanno origine nella “altra parte” o sìtra ahra, le seconde nella “parte santa” o sìtra kedusha». Ora la sìtra ahra, come sempre insegna lo stesso Scholem, è “il regno delle forze del male”, il mondo materiale creato dal malvagio demiurgo in opposizione al mondo di luce del primordiale Abisso divino. Su questo “regno del male” domina la regina Lilith, sposa di Samael (Satana), «madre della gente empia, che costituisce la “moltitudine mista” (erev-rav) e governa su tutto ciò che è impuro». Per l’antica tradizione ebraica la prima moglie di Adamo non fu Eva ma Lilith. Accoppiandosi con essa Adamo generò, nel mondo materiale ed impuro, una umanità mostruosa. Successivamente Adamo, scoperta che la sua vera origine era nel mondo spirituale di luce, ripudiò e scacciò via Lilith, preferendogli Eva.

Dunque, secondo la Cabala, nella versione spuria ma accreditata come autentica, i “non ebrei” sarebbero il frutto dell’accoppiamento degenerato di Adamo e di Lilith mentre il “popolo eletto”, l’ebreo, composto dagli unici uomini che possiedono una scintilla spirituale decaduta dal mondo luminoso “contrattosi”, sarebbe il frutto di quella nata da Adamo e dalla sua seconda moglie Eva. Orbene, provate a porre questa mistica sul piano politico e nazionale: chiunque può facilmente intuire a quali abissi di discriminazione razziale essa inevitabilmente porta.

Luigi Copertino

NOTE

  1.  Nicola Bux “Il sepolcro vuoto; per Bruno Forte è una leggenda” inLa Terra Santa”, Rivista bimestrale della Custodia Francescana di Terra Santa, Anno LXXX Luglio-Agosto 2004, p 9-11. Reperibile anche su https://blog.messainlatino.it/2011/05/il-sepolcro-vuoto-per-bruno-forte-e-una.html?m=1
  2. «In modo peculiare, nell’evento pasquale è la kénosi del Verbo, il supremo abbandono del Figlio sulla Croce, a illuminare la Sua presenza nell’atto creatore di un riflesso a prima vista paradossale: l’amore in forza del quale il Figlio eterno ha spogliato se stesso, umiliandosi fino alla morte di Croce (cfr. Fil 2,6ss.), lascia intravedere il suo presupposto eterno nel mistero insondabile dell’umiltà divina, condizione trascendente di possibilità della chiamata all’esistenza del mondo. Il Dio trinitario “fa spazio” in se stesso alla Sua creatura: l’assoluta gratuità dell’amore, che motiva il Padre a porre l’atto creatore, lo spinge ad auto-limitarsi perché la creatura esista nella libertà. Questa auto-limitazione dice il rispetto che il Creatore ha per l’alterità della creatura, per il suo esistere nella libertà davanti all’offerta della vita, e si congiunge al rischio del possibile rifiuto che l’essere finito può opporre all’infinito Amore. L’auto-limitazione del Padre è così al tempo stesso l’umiltà del Figlio: il prezzo dell’amore divino sarà la consegna dolorosa della Croce. In obbedienza a Dio, il Verbo entrerà nell’esilio dei senza Dio, in un mistero di kénosi, il cui presupposto eterno è la disponibilità del Figlio a lasciarsi “consegnare” alla morte per amore della creatura chiamata alla vita. All’umiltà donante del padre corrisponde l’umiltà accogliente del Figlio: Dio si limita donando la vita e accettando la morte. L’unità di questa vita donata e di questa morte accettata è l’evento dello Spirito: l’auto-limitazione del Padre e la dolorosa consegna del Figlio si compiono nel vincolo del Loro infinito amore, come separazione che nasce dall’infinita comunione e la rivela nel segno del contrario. La relazione in cui si compie la “contrazione” divina non è allora semplicemente quella fra Dio e il mondo, ma più in profondità quella fra il Padre e il Figlio, e lo “spazio” ceduto dall’Eterno non è occupato da una creatura a Lui inferiore e ipoteticamente capace di “limitarLo”, ma è pervaso da un’altra Presenza divina. L’auto-limitazione divina si svolge nel seno stesso delle relazioni trinitarie, e proprio in quanto immanente in Dio è la condizione di possibilità dell’esistenza del mondo creato come altro da Dio, pur se non separato da Lui e “fuori” di Lui. L’umiltà divina non è che l’altro nome della libertà da sé con cui ciascuna Persona divina ama l’altra e con cui il Dio trinitario crea il mondo per amore e per amore lo conserva in vita. In questo senso, ricco della profondità abissale del mistero trinitario, va interpretata l’invocazione che Francesco rivolge al Dio vivente: “Tu sei trino e uno, Signore Iddio (…) Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene (…) Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà (…) (Francesco d’Assisi, “Lodi di Dio Altissimo”, in “Fonti francescane”, Edizioni Messaggero, Padova 1980, p. 177). La categoria dell’“ad extra”, di ciò che sta “fuori” rispetto a Dio, va dunque ripensata nel suo significato più proprio: essa dice la trascendenza e la sovranità di Dio, ma non esclude in alcun modo che il mondo esista in Lui, nello “spazio” trascendente delle relazioni intra-divine e nel dinamismo di umiltà e auto-limitazione che le caratterizza. L’esteriorità del mondo rispetto a Dio non si contrappone all’interiorità di Dio al mondo, ma la esige: la consistenza della creatura sta nel suo esistere creato (“ex-sistere”), nel suo venire da Dio, per Lui ed in Lui, dal Padre, per il Verbo, nello Spirito. L’essere creaturale è costantemente rapportato al Creatore, presente al Padre nel Figlio, recettivo in Lui del dono di Dio, congiunto nello Spirito all’Eterno ed insieme in Lui chiamato a libertà. La suprema trascendenza viene così ad identificarsi con l’immanenza suprema: “Quanto una cosa possiede l’essere, tanto occorre che Dio le sia vicino, in base al modo in cui possiede l’essere. L’essere è quanto di più intimo ci sia ad ogni cosa, e quanto di più profondo dimori in tutte (…). Perciò occorre che Dio sia in tutte le cose, ed intimamente (Tommaso d’Aquino “Summa Theologiae” 1 q. 8. 1c)» Bruno Forte “Inquietudini della Trascendenza” op. cit.. pp. 58-60. Come si diceva, il tentativo di Forte di rileggere in chiave cristiana la dottrina cabalista dello “zim-zum” si sforza di cogliere ciò che di veritativo può riscontrarsi in essa – l’umiltà di Dio e la creazione quale atto di amore, dono di vita, dunque conformemente al genesi biblico opera buona di Dio, Somma Bontà e Luce senza ombra alcuna – ma si scontra con il significato proprio di detta dottrina cabalista che è quello, tipico di ogni forma di gnosi spuria, della “caduta ontologica” dello spirito nell’impurità, supposta, della materia configurando di conseguenza un dualismo metafisico, sorgente dalla degradazione, in una dinamica emanativa, di una presunta unità impersonale indifferenziata. In tal senso, quello dell’essere come caduta, la dottrina dello “zim-zum”, come ogni gnosi luciferiana, è assolutamente inconciliabile con la Rivelazione ebraico-cristiana, che invece postula l’essere come partecipazione. L’inconciliabilità sta proprio nel concetto di “contrazione” della sostanza divina, per “far spazio” alla creatura. Questo concetto comporta inevitabilmente che nel vuoto conseguente alla contrazione cadono, precipitano, i frammenti dello spirito, originariamente uno ma poi degradatosi, per essere imprigionati nell’oscurità della materia. La quale così appare – insieme alle creature intese quali corpi materiali talvolta racchiudenti solo un’anima mortale e talvolta ancora racchiudenti per l’appunto quei frammenti spirituali decaduti (la distinzione gnostica tra gli uomini li divide in animali, psichici e spirituali, questi ultimi gli unici destinati alla salvezza) – come “contraria specie” a Dio, opposizione dualistica della materia allo spirito. Inconsapevolmente questo carattere oppositivo e dualistico trapela anche dalle parole di Bruno forte laddove egli dice che “il Verbo entrerà nell’esilio dei senza Dio”. Chi sono questi senza Dio esiliati in un mondo oscuro e perduto, se non gli spiriti decaduti dal pleroma originario nello spazio vuoto causato dalla “contrazione” e che sarà riassorbito nella successiva “espansione”? Oppure laddove Bruno Forte, per indicare la relazione d’amore intra-trinitaria del Padre e del Figlio, ne parla come sgorgante da una separazione (una frammentazione? Una degradazione?) che si “rivela nel segno del contrario”, dunque nel segno di una “opposizione” più che di una comunione intra-trinitaria. Neanche l’escamotage di fare del Verbo Colui che occupa lo spazio lasciato vuoto dalla contrazione di Dio Padre salva l’intenzione di rilettura cristiana proposta da Bruno Forte della mistica cabalista dello “zim-zum”. A meno che non si ricorra, come si diceva, al Paolo di Atti 17,28 che, però, svela – tuttavia contro l’idea di una “contrazione” e quindi di una “assenza” di Dio in qualche regione dell’infinito – la necessaria coesistenza tra la trascendenza abissale, incolmabile se non per Sua iniziativa, di Dio e la Sua immanenza al mondo, come appunto postulata anche nel passo citato dell’Aquinate nei termini della necessaria partecipazione ontologica tra Creatore e creatura che impedisce di leggere, al modo erroneo di tanti presunti tomisti, le categorie dell’“ad extra” e dell’“ad intra” come al di fuori e al di dentro del “perimetro” di Dio – la creatura è certamente altra e distante da Lui ma mai fuori di Lui – pena il perdersi dell’infinità, onnipresenza, ubiquità di Dio e pena il postulare una sua impossibile limitatezza.
  3. Gershom Scholem “Le grandi correnti della mistica ebraica”, Einaudi, Torino, 2008. Scholem (1897-1982) è stato la somma autorità in materia di Cabala, ritenuta la dottrina più profonda dell’ebraismo talmudico. Egli è annoverato tra i cofondatori del Centro di Ricerca Cabalistica costituito presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, al fine di restituire alla Cabala il suo ruolo di punto di unità morale e religiosa del disperso popolo ebraico.
  4. Questo orrore/rifiuto della carne, secondo una antica tradizione cristiana che si ritrova anche nella scuola francescana, è stato il motivo della ribellione dell’Arcangelo più vicino a Dio, quel portatore iniziale di Luce a tal punto invaghitosi del proprio primato tra gli angeli e della sua sublime purezza da disprezzare, con il “non serviam”, la rivelazione, per visione, che l’Altissimo fece agli angeli viatori, onde sottoporli alla prova di amore, dello scopo ultimo della creazione e dell’uomo, Sua Icona, in essa ossia l’Incarnazione futura del Verbo – sicché l’Incarnazione vi sarebbe stata comunque, mentre la Passione si è resa necessaria per il peccato umano. Lucifero e i suoi angeli hanno rigettato la prospettiva di Dio Incarnato perché, dall’alto della loro spiritualità senza kenotica carità a causa della superbia autoreferenziale che li ha portati a dimenticare che l’origine stessa della loro esistenza e della loro sublimità era Dio, hanno ritenuto la materia in sé oscura, indegna dello Spirito, ontologicamente disprezzabile. Un Dio che si sporca con la materia era una prospettiva insopportabile per Lucifero che così si manifestò come il primo gnostico, anzi il padre stesso della gnosi spuria. Quella conoscenza ingannevole, che avrebbe dovuto farli “come Dio”, che poi egli propose ai Progenitori edenici. Questa del “peccato degli angeli” – si badi – non è solo una tradizione cristiana perché la ritroviamo anche nell’ebraismo e nell’islam (nel Corano c’è una intera sura dedita al peccato di Iblis, ossia Stana). Soltanto che nell’ebraismo e nell’islam l’oggetto della adorazione proposta da Dio agli angeli, sottoposti a prova, è l’Adam primordiale – l’Adam Kadmon – e questo ci dà la misura della Presenza, benché ancora occultata, anche nell’ebraismo e nell’islam del “Mistero nascosto nei secoli”, ossia del Mistero di Cristo, non ancora compreso da ebrei e islamici, dato che Dio non avrebbe mai potuto proporre agli angeli l’adorazione del primo uomo se non fosse che l’Adam Kadmon, in realtà, è espressione che indica il Logos, il Verbo. Espressione che Cristo, nei Vangeli, infatti attribuisce a Sé stesso nella versione di “Figlio dell’Uomo”.
  5. Per un approfondimento, non senza una peculiare esegesi paolina, si veda Gianluca Marletta “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi – Considerazioni sull’Origine e il Fine dello stato umano”, Irfan edizioni, 2017, pp. 36-39.
  6. Essa, in realtà, pone alle origini un monismo dal quale emana – secondo una dinamica modulata sulla contrapposizione di opposte polarità attraverso un processo di degradazione e decadimento – l’apparente dualità.
  7. G. Scholem “La Cabala”, Mediterranee, 1982.