VA IN SCENA IL “PROTEZIONISMO”

“Trump mette i dazi! E’ la fine del libero commercio mondiale!”. Cominciamo col dire che le misure “protezioniste” di The Donald sono: estremamente limitate  perché ha subito escluso Canada e Messico;  non sono una novità (già Bush  mise i dazi sull’acciaio);  e  dopo 16 mesi da una campagna elettorale che  ha vinto con la promessa di   salvare milioni di posti di lavoro coi dazi, non poteva non fare qualcosa. Ha fatto il minimo che non ri-orienta certo la politica economica americana.

Gli strilli ed urli di Europa e Cina,  improbabili  demi-vierges del  liberismo globale, sembrano seguire lo stesso copione gesticolatorio.  Gli economisti-guru della  globalizzazione ripetono su Corriere, Repubblica e   talk shows, che ciò “penalizzerà il consumatore”(sic), “favorirà le rendite di posizione”; ridurrà “la produttività”, innescherà il “circolo vizioso” dei dazi, scatenando la “guerra commerciale” che inevitabilmente porta alla guerra pura e semplice,”come negli Anni Trenta”.  Juncker ha toccato i vertici della comicità pulcinellesca, tuonando che “gli americani impareranno a conoscerci”, e minacciando dazi sui jeans Levi’s, sulle Harley Davidson e  sul Bourbon.

Tutto ciò  comincia a parere una sceneggiata pensata la platea del pubblico,  gli elettorati occidentali che hanno votato “protezionista”, a cui si deve mostrare che la globalizzazione – da cui dipende la loro felicità come consumatori – è in via  di  riduzione e messa in pericolo dal loro voto scervellato.

Perché se è vero che la globalizzazione ci è costata milioni di posti  di lavoro (di questo più avanti), è ancor più vero che nel “libero commercio mondiale” tutti gli attori giocano con le carte truccate; tutti fanno un po’ di protezionismo : da Macron che ha voluto impedire l’acquisto dei suoi cantieri navali “strategici”  a Fincantieri, e con la legge Montebourg estende l’acquisto di altre industrie da  parte di investitori stranieri, alla Germania che fa dumping sulle auto che vende in USA con una moneta per lei svalutata, fino all’India che il mese scorso ha  alzato tariffe su 50 prodotti importati. Fino alla Cina,  che è la più protezionista di tutte.

Troppo poco e troppo tardi

Il vero rimprovero da fare a The Donald sarebbe: troppo poco e troppo tardi. Perché  sono stati storicamente gli Stati Uniti a voler ammettere la Cina nell’OMC (Organizzazione mondiale del Commercio) nel 2001 –  per la gola che i loro capitalisti finanziari avevano dei bassi salari del paese  sottosviluppato –   nonostante la  valuta cinese  non fosse negoziabile sui mercati mondiali, per cui non si rafforza con il rafforzarsi delle esportazioni cinesi: violazione patente delle regole dell’OMC, che sarebbero valse l’espulsione, non l’ammissione, per ogni altro paese. Da allora   Pechino non ha fatto che svilupparsi un’economia avanzata   – ed ora avanzatissima –   prima obbligando i produttori stranieri a produrre (per esempio) Golf in Cina – impose dazi del 100%  sulle VW importate  – , o   cellulari e computer insieme a un socio cinese,  se volevano venderle sul mercato interno, quindi apprendendo il know how  e poi fabbricando auto cinesi per l’export concorrenziali.   Poi introducendo tasse sull’importazione di prodotti nazionali come, nel 2013, di materiale ferroviario, gasdotti e installazioni solari: per cui adesso la Cina ha coperto l’Asia di treni da 300 all’ora, mentre la California  sta ancora costruendo la prima ferrovia veloce tra  San Francisco e Los Angeles che ha finanziato nel 2008,  e concluderà le prime 119 miglia nel 2022 –   restando a metà strada, visto che la  distanza fra le due metropoli è 381 miglia.

Come ha scritto il saggista economico Benjamin Masse-Stamberger , “il libero scambio globale avvantaggia quelli che non lo fanno”. Gli Stati Uniti, che l’hanno fortemente voluto e imposto  a noi satelliti, hanno  visto  in 10 anni la produzione dell’acciaio nazionale da 100 a 82 milioni di tonnellate con centinaia di migliaia  posti operai perduti,   mente le importazioni  di acciaio estero sono aumentate del 50%.

Da qui il noto dilemma: conviene al consumatore avere auto  o anche smartphone a basso costo, se le “paga” con la disoccupazione sua e dei propri figli? Che importa lo sconto sul telefonino, se non lo puoi comprare nemmeno scontato  perché hai perso il reddito?

Economisti dell’Università di Yale e della Federal Reserve,  in uno studio del 2013,  hanno scoperto che dal 2000, il libero scambio con la Cina è costato agli Usa quasi il 30% dei posti di lavoro industriali.  E che, proteggendo la propria produzione, i lavori sarebbero cresciuti del 10%.

(i posti di lavoro persi in USA per la globalizzazione)

https://www.washingtonpost.com/news/wonk/wp/2013/01/06/study-freer-trade-with-china-cut-manufacturing-employment-by-almost-a-third/?utm_term=.e9f33d1563b1

Oh meraviglia: il protezionismo creerebbe  posti di lavoro?

E’ la conclusione cui giunse Maurice Allais, l’unico Nobel francese per l’economia, in uno studio capitale del 1995. Non era una sensazione: lo dimostrò con mezzi matematici  ed econometrici.

Egli constatò che, dopo una crescita continua dal 1950  al 1974, l’economia della Francia declina bruscamente. La disoccupazione, che nel periodo della prosperità precedente non superava i 600 mila, salì a tre milioni, con una forte riduzione della crescita  economica. E il fenomeno riguardava sostanzialmente l’intera Europa.

E’  lo shock petrolifero, predicarono i guru dell’economia mainstream – menzogna gabellata anche a noi, con le  prime ingiunzioni propagandistiche all’austerità.  Invece, Allais identifica la causa nella “politica di liberalizzazione mondialista” attuata “da Bruxelles,  i cui effetti sono aggravati dalla dislocazione del sistema monetario internazionale e dall’instaurazione generalizzata dei tassi di cambio fluttuanti”, ossia abbandonati ai mercati speculativi.

Maurice Allais (1911-2010)

Allais, ovviamente, protesta che mettere in competizione   coi salariati dei paesi emergenti gli operai europei, che guadagnano  anche 20 volte di più, ”non può che  sboccare in una disoccupazione di  massa, non essendo il calo così drastico dei salari né possibile né auspicabile”.

Per provarlo, Allais escogita un modello matematico per spiegare le variazioni dei tassi di disoccupazione. Egli distingue 4 origini:  disoccupazione strutturale (costo del lavoro troppo elevato rispetto alla produttività), disoccupazione dovuta alle innovazioni tecnologiche, disoccupazione congiunturale, e disoccupazione da “libero scambio

La dimostrazione di  Allais

Il suo modello,  che elaborò nel 1994, è stato in grado di predire la variazione dell’occupazione in Francia nei quattro anni seguenti (1995-1997), dimostrando che il 30% dei posti di lavoro perduti era sì “strutturale”,  ma il 61% era dovuto al libero scambio.

Soprattutto i non qualificati ne soffrono. Allais nota anche che i poteri americani hanno scelto la regressione salariale,  mentre invece quelli europei, hanno preferito – scelto  con le loro politiche – la disoccupazione di massa. Naturalmente, conclude che “la libertà degli scambi non vale se non all’interno di associazioni regionali con mercati comuni e quadri di economia politica comuni”: era una raccomandazione all’Europa  di Bruxelles, la quale ha risposto come sappiamo: ampliando la UE ad altri stati dell’Est, ossia mettendo in concorrenza i nostri salari coi bulgari, romeni, polacchi, slovacchi….

E’ interesse delle associazioni  regionali – consigliava ancora Allais  –  proteggersi di fronte ad altre per mantenere delle attività industriali la cui scomparsa, in base a circostanze temporanee, si rivelerebbe in avvenire fondamentalmente nociva”.

Come reagirono i guru economisti e i tecnocrati e i media? Da quel momento, Allais non viene più invitato in tv. Il Nobel vivente, deve pubblicare i suoi saggi a  proprie spese. Lo studio che abbiamo citato, “Maurice Allais, « La mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance », elaborato nel ’94, è stato pubblicato dall’editore  Clément Juglar, nel  2009.  Il Nobel morirà un anno dopo, quasi centenario.