TERREMOTI CASTIGO DI DIO? IL PENSIERO DI PALMARO

(MB —L’indimenticabile amico, grande scrittore e pensatore Mario Palmaro scrisse queste riflessioni dopo il terremoto dell’Aquila, il 19 agosto  20009. E’ da rileggere nel pieno della polemica intra-cattolica su “i castighi di Dio”).

 

 

 

Giobbe insegna: ogni sciagura mette alla prova l’essere umano. Lo costringe a una verifica trasparente di sé, lo obbliga a guardarsi allo specchio, senza trucco e senza inganno. Una tragedia collettiva come il terremoto che ha colpito l’Abruzzo, o la psicosi mondiale per il virus influenzale – non sfugge a questa regola, immutabile nel tempo e nello spazio. Non a caso, la grande letteratura e la grande poesia spesso nascono dentro i drammi degli individui e dei popoli.

Le virtù e i vizi vengono esaltati proprio nell’ora della prova. Di fronte alle case distrutte e alle molte vittime, gli abruzzesi hanno mostrato una compostezza non comune. Una testimonianza simile non si improvvisa, e affonda le sue radici in una millenaria tradizione rurale e in una visione cristiana della vita. Anche l’impegno di molti per assicurare soccorsi e aiuti alle zone colpite è una “buona notizia” che conferma la presenza di virtù sotterranee, che emergono nel momento del bisogno.

Ma il terremoto d’Abruzzo suggerisce anche qualche considerazione meno confortante.

Soprattutto se si prova a riflettere su certi giudizi espressi dai mezzi di comunicazione e –

di riflesso – dall’opinione pubblica.

 

  1. Una visione secolarizzata

Il primo passo falso nasce da un imbarazzo non dichiarato, ma evidentissimo. Le sciagure di origine naturale hanno una potentissima carica antimoderna e antitecnologica. Esse infatti rompono l’incantesimo scientista, squarciano il velo dell’ottimismo intessuto dal positivismo moderno, e rimettono l’uomo davanti alla verità della sua natura: quella di un essere debole e indifeso che sta di fronte all’universo come un puntino insignificante. Lo ha sorprendentemente riconosciuto perfino un intellettuale come il sociologo Franco Ferrarotti, che in un programma radiofonico all’indomani del terremoto dell’Aquila ha commentato: «Anche se siamo andati sulla Luna e abbiamo scoperto i misteri della genetica, noi uomini non siamo nulla di fronte alla volontà di Dio o della natura». La ragione umana capisce benissimo tutto questo: l’uomo del terzo millennio sopravvissuto al sisma micidiale si ritrova davanti alle macerie della sua casa proprio come Giobbe di fronte allo svanire dei suoi beni e alla fine dei suoi affetti. Ed è costretto a scegliere: o imboccare la strada della disperazione – che è stata comune a tanti pensatori pagani, da Lucrezio a Sartre – riconoscendo nella debolezza dell’uomo il sigillo della sua totale insignificanza; o imboccare la strada del senso religioso, che scaturisce proprio dalla scoperta che la nostra vita è appesa a un filo invisibile.

  1. Un mondo sotto controllo

La società in cui viviamo è il prodotto di un titanico tentativo plurisecolare di scacciare Dio dall’orizzonte della nostra vita. “Mettere in prigione Dio” è la formidabile sintesi usata da Benedetto XVI per descrivere questa stagione della storia. Ecco che allora, riconosciuta la sconfitta ineluttabile dell’uomo moderno di fronte allo scatenarsi degli elementi, non rimane che dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica e riempire il vuoto e il senso d’angoscia con argomenti marginali. Nei mass media, di fronte a queste tragedie prevale così l’enfasi della “prevenzione” e del “controllo”: ci sono state tante vittime, ma l’uomo avrebbe potuto evitarle. In questa maniera l’orizzonte della nostra vita viene ridotto. Ridotto a far coincidere ciò che ci può capitare con ciò che noi vogliamo che ci capiti. Dio è espulso, e restiamo solo noi, padroni della nostra vita. Le macerie sono ancora fumanti, e i corpi non sono ancora estratti, e già si scatena la polemica furiosa: il terremoto si poteva o non si poteva prevedere? Le case erano fatte o non erano fatte a norma di legge? Si noti che questi interrogativi sono non solo legittimi ma doverosi. Ma è patologico che questi argomenti si “mangino” – nascondendola – la verità più importante: e cioè che, anche prese tutte le precauzioni che è giusto prendere, agli uomini prima o poi capita di morire. O di perdere tutto ciò che hanno. O di ammalarsi. O di aver paura che una di queste cose possa accadere.

  1. Un colpevole a tutti i costi

Va in questa direzione anche la ricerca morbosa del colpevole. L’uomo viene visto sempre – nel bene e nel male – come unico artefice di sé, protagonista esclusivo del suo destino. Prometeo prende il posto di Cristo. Ogni sciagura deve avere la sua adeguata gogna mediatica. Di questo passo, anche le eruzioni vulcaniche saranno attribuite alla responsabilità di qualche assessore o di qualche manager. ” meccanismo genera due effetti: da un lato, un certo appagamento psicologico dell’opinione pubblica, che si consola pensando che qualcuno pagherà. In secondo luogo, si consolida l’illusione che sia possibile costruire un mondo senza sciagure e senza contrarietà: basta sapersi organizzare bene, basta – ad esempio – avere una Protezione Civile che funziona, e il paradiso si materializza hic et nunc, su questa terra. E mai illusione utopica fu, insieme, più folle e ridicola.

  1. Autolesionismo italico e mitologia anticattolica

Nel nostro Paese, questa caccia alle streghe ha sotto sotto anche qualche venatura anticattolica e un gusto tutto nostro per l’autocommiserazione, così ben descritto a suo tempo da Rino Cammilleri. Negli articoli-denuncia c’è sempre una nazione – preferibilmente secolarizzata o di tradizione protestante – più brava di noi, organizzatissima, nella quale le case sono indistruttibili, i terremoti sotto controllo, i soccorsi già sul posto prima della sciagura. Nazioni all’avanguardia, in cui i single e le coppie gay abitano in città modello sicure e pulite. A differenza dell’ltalietta cattolica, fatta (ancora) di famiglie con prole e casette costruite nel Medioevo, e cattedrali che vengono ricostruite ostinatamente dopo ogni terremoto, invece che usare tutti quei soldi per la gente rimasta senza un tetto.

  1. La domanda sul male e sulla colpa

Da sempre le sciagure della natura sollevano nell’uomo domande tremende: perché mi è capitato tutto questo? Perché questo male se Dio c’è? Che colpa avevano le vittime? Perché loro e non io? È evidente – lo spiegò Gesù a proposito di coloro che morirono mentre costruivano una torre – che le vittime di un terremoto non sono “punite” o più “colpevoli” dei superstiti. Ma è un grave errore fare finta che queste domande non esistano, o liquidarle dicendo che “Dio non manda castighi”. Affermazione, per altro, difficilmente conciliabile con la Tradizione bimillenaria della Chiesa. La verità è che l’uomo conserva in sé un (benedetto) senso di colpa ancestrale, e che di fronte alle sciagure egli attende una parola forte proprio dalla Chiesa.

  1. Il mistero della morte: «estote parati»

La notte del 6 aprile circa 300 persone sono andate a dormire, e non si sono più svegliate. Di tutte le parole che si possono dire su questo terremoto, queste sono le più forti e le più vere. La morte talvolta si abbatte sull’uomo improvvisamente, senza preavviso. Noi sappiamo che il momento finale della nostra vita è il più importante, perché può decidere del nostro destino eterno. Abbiamo il dovere di prepararci ogni giorno a questo ultimo combattimento, e di chiedere quotidianamente la grazia della “buona morte”. Questa è la lezione più importante delle povere vittime dell’Abruzzo: ricordare ai vivi di essere pronti.

Sempre.

 IL TIMONE – GIUGNO 2009 

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