Storia del parroco che bruciò la foto del papa (e lo fece per amore)

 

Chi conosce Duc in altum sa che qui non c’è molto spazio per conformisti e allineati. Anzi, non ce n’è per niente. Qui trovate piuttosto non conformisti, non allineati, irregolari e spregiudicati d’ogni genere. Gente che ama pensare con la propria testa, anche a costo di ritrovarsi emarginata e respinta dagli «uomini giusti ai posti giusti».

Mi chiederete: dov’è che vuoi arrivare? Ve lo dico subito: voglio arrivare a don Andrea Maggi.

E chi è don Andrea Maggi?

Forse qualcuno se lo ricorderà. Corre l’anno 2013. L’11 febbraio Benedetto XVI pronuncia la storica declaratio con la quale comunica ai signori cardinali la decisione di rinunciare al pontificato («Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino») e meno di un mese dopo, il 3 marzo, durante la messa domenicale nella chiesa di Santo Stefano a Castelvittorio (Imperia) il parroco che cosa fa? Davanti a una trentina di fedeli sbigottiti, prende una foto del papa, ormai emerito, e la  brucia. Proprio così: le dà fuoco. Motivo? «Benedetto XVI si è comportato come Schettino [il comandante della Costa Concordia che scese dalla nave dopo l’impatto con gli scogli che provocò il naufragio e la morte di trentadue persone, ndr]. Non si abbandona la nave!  Ho fatto un gesto eclatante per attirare l’attenzione, ma lo rifarei mille volte».

La rinuncia di Ratzinger? «Una zampata satanica sul vertice della Chiesa».

Il parroco in questione è, appunto, don Andrea Maggi, nei cui confronti la procura di Sanremo apre un fascicolo per vilipendio della religione. Ma la conseguenza più pesante, per don Andrea, non arriva dalla Repubblica italiana (in seguito il pm chiederà l’archiviazione). La conseguenza più pesante, com’era facile prevedere, arriva da Santa Romana Chiesa, la quale, sotto forma della diocesi di Ventimiglia e Sanremo, se la lega al dito, tanto che don Andrea decide a un certo punto di andarsene dalla parrocchia del piccolo borgo medievale dell’alta Val Nervia, nell’entroterra di Ventimiglia, e si ritira. Dopo di che sipario. Don Andrea scompare dalle cronache.

Ma qualche giorno fa un laico, che dice di conoscere bene don Andrea e di essere in contatto con lui, mi scrive, chiedendomi di interessarmi alla vicenda dell’ex parroco dall’accendino facile.

Chiedo: come potrei occuparmene? E in risposta ricevo una letterina e una scheda, scritta dallo stesso don Andrea, che oltre a ripercorrere la vicenda la aggiorna. È un documento che, pur sintetizzato da me, vorrei proporvi, perché mostra che don Andrea, quando ha bruciato la foto, non ha agito da esaltato, come qualche cronaca ha lasciato intendere, ma l’ha fatto a partire da alcune considerazioni che meritano di essere prese in considerazione.

In sintesi  il contenuto della scheda è il seguente.

Circa l’episodio della foto bruciata, don Andrea dice: «Quando ho saputo delle dimissioni di Benedetto XVI mi sono chiesto: ma come? Proprio nell’anno  della fede? Può essere questo un esempio che viene  dal vertice  della Chiesa?  Siccome  tutti saremo giudicati non in base ai codici, ma al Vangelo, ritengo, al di  fuori di ogni giudizio personale che spetta sempre e solo a Dio, che oggettivamente, dal punto di vista teologico,  il fatto sia grave. Affermare che il papato, come se fosse una qualsiasi istituzione umana, è scioglibile e rinunciabile, per me è una mostruosità eretica inaccettabile: sarebbe come affermare che Cristo è legato a piacere o a tempo alla sua Chiesa! No. Come Cristo ama  la Chiesa (come lo Sposo ama la Sposa), altrettanto il Papa  ama la Chiesa per sempre. Non può rinnegarla, non può ritirarsi!».

«Dentro di me – continua don Andrea ricordando il periodo successivo alla rinuncia di Benedetto XVI  – iniziano giorni di grande turbamento e sofferenza. Nella decisione del Papa vedo un legame con altre questioni, come il testamento biologico, la qualità della vita, la libertà di poter scegliere quando morire, l’eutanasia.  Insomma, il problema è l’autodeterminazione dell’uomo. Dall’11 febbraio del 2013 seguo ogni giorno le notizie sulle dimissioni del Papa, nutrendo la speranza che ci possa essere un ravvedimento da parte del Santo Padre. Ma non c’è. Che tristezza! La partenza del Papa dal Vaticano, il saluto da Castel Gandolfo, la riconsegna dell’anello piscatorio, la deposizione delle insegne papali. In diretta seguo l’auto-destituzione, come nei secoli passati avveniva per la riduzione allo stato laicale dei preti. A tanto sono arrivati  gli uomini di Chiesa! E che dire di quei cardinali che, di fronte all’annuncio, non si sono ribellati? Dovevano subito reagire così: “No, santità, non deve essere lei, con le sue dimissioni, il capro espiatorio. I colpevoli siamo tutti noi! E ora non possiamo procedere con il conclave perché lei, il papa, c’è! Il  suo anello noi lo deponiamo sull’altare della Cappella Clementina, perché è suo, e lei sarà sempre libero di riprenderlo, quando vorrà, fino alla morte”».

Prosegue don Andrea: «Quel silenzio dei cardinali riuniti nel concistoro, quel grazie pronunciato dal  cardinale Sodano, decano del sacro collegio, hanno avuto per me un sapore amaro: mi hanno ricordato il tradimento di Giuda. Nel frattempo, tutti i commenti positivi della stampa, non solo laica ma anche cattolica,  mi infastidivano. Tutti che leggevano la scelta del Papa come un atto storico di immenso valore umano e cristiano, addirittura profetico per l’avvenire, quasi volessero fare a gara nel giustificare e incoraggiare a ripetere lo stesso gesto in futuro! Ma allora significa che il papato, di istituzione divina, può essere lasciato alla volontà umana? Che delusione! Altro che il Tu es Petrus… Questa è una pietra che si sfalda, si polverizza, si ritira e svanisce. La questione soggettiva, sottoposta al giudizio di Dio, non mi riguarda, ma oggettivamente quanto è successo mi riguarda eccome! È un problema di tutti i battezzati. Che cosa viene prima? La volontà divina o la convenienza umana? Forse Dio ha bisogno dell’efficienza, anzi dell’efficientismo umano? Da quando in qua è questo il principio? Nella Bibbia Dio scarta tutti gli abili figli  di Jesse e sceglie un fanciullo, il pastorello Davide, che con la fionda abbatterà il gigante Golia. E quanti altri esempi si potrebbero fare! E se Dio volesse servirsi non dell’efficientismo umano, ma proprio della sofferenza e della malattia, anche prolungata, di un Papa per sostenere con il dolore la sua Chiesa? Per salvare il  mondo Gesù non ha continuato a peregrinare per la Palestina, ma si è lasciato inchiodare sulla croce! Il buon pastore dà la vita per le pecore, non si ritira».

«Quando Benedetto XVI ha addotto motivi di salute – spiega ancora don Andrea – per prima cosa ho pensato alle parole bibliche: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Un Papa che si auto-depone non è eroico. Io mi sento solo. Non riesco ad annullare certi pensieri, a ragionare come tutti gli altri. Confido a qualche sacerdote, incontrato occasionalmente, quanto sto soffrendo, e le risposte sono sempre le stesse: ”Lascia perdere, tanto è inutile, perché non si può far niente, resta nel tuo quieto vivere”. Ma io, nel mio piccolo, nella mia parrocchia di trecento anime sperduta fra le montagne, voglio professare la mia fedeltà al Vangelo e a Cristo, il buon pastore che ha dato la vita per le pecore, fedele al suo gregge fino alla morte. Che cosa potrei fare per te, Gesù? Mi viene allora questo pensiero: bruciare pubblicamente, in Chiesa, come prescritto nella Bibbia per gli eretici anche già morti, l’immagine del Papa. Come a dire: se tu, Papa, proclami al mondo questa nuova dottrina di fede secondo cui il successore di Pietro si può autodeterminare, beh, allora io, don Andrea Maggi, in questa professione di fede non ti seguo, né te, ne quant’altri papi la pensino come te! E così ho fatto. Dopo quel 28 febbraio 2013, nella prima domenica di  marzo, durante la Messa domenicale, proclamo il Vangelo, alzo la foto del Papa Benedetto XVI e la brucio, essendo per me un sacrosanto dovere ribellarmi a questo nuovo cammino della Chiesa. Tralascio i dettagli. Il sindaco, fuori da ogni mia volontà, fa partire la notizia bomba, da cui l’assalto mediatico. E figurarsi le ire della curia romana. Incomincia per me un calvario, che dura tuttora, attraverso il quale vengo a conoscere il volto di una Chiesa matrigna, composta da molti suoi figli che se ne stanno tranquilli nel quieto vivere. Pensavo che  i talebani fossero di casa altrove, ma lasciamo stare».

Ecco. Anche dal modo in cui don Andrea si esprime capirete che siamo di fronte a un certo caratterino. Ma, questo il punto, non a un pazzo. Direi piuttosto che si scorge in don Andrea un grande amore per la il papa e per la Chiesa. Si capisce che in lui arde (ops, non volevo) una passione sincera.

La memoria che don Andrea mi ha inviato è molto lunga (comprende anche alcune riflessioni sulla Chiesa del post-concilio, sulla battaglia tra Gesù e Satana e alcune belle preghiere che appartengono alla tradizione popolare) e io, ripeto, l’ho dovuta sintetizzare. Spero di averne salvaguardato il senso. E il senso è, se posso dirlo, che un pastore così non andrebbe semplicemente sanzionato per quel che ha fatto, ma prima di tutto ascoltato.

I lettori sanno quale sia la venerazione del sottoscritto per Benedetto XVI e quanto io gli voglia bene. Tuttavia credo che le idee di don Andrea Maggi non siano balzane. Siamo di fronte a questioni vere.

«Al momento – mi scrive don Andrea in conclusione – la mia situazione nella Chiesa è quella di sacerdote a tempo indeterminato sospeso a divinis dal maggio 2013. Il decreto di sospensione mi fu consegnato con raccomandata. Firmato dal Vicario Generale, è stato controfirmato da me. Sono in pensione e percepisco un sussidio dal Sostentamento del clero. Non potendo svolgere alcun incarico sacerdotale (il decreto vieta ogni contatto di gruppo con i fedeli) passo la mia vita in preghiera, lettura e camminate».

Qui termina la testimonianza dell’ex parroco che bruciò la foto di una papa e lo fece per amore. Ora, se posso permettermi, chiederei in tutta umiltà al signor vescovo di non limitarsi alla carta bollata, ma, se già non l’ha fatto, di andare a trovare don Andrea e di fare una passeggiata e una chiacchierata con lui. Certamente don Andrea non ha fatto un bel gesto (io non consiglierei a nessun parroco di bruciare foto, né del papa né di altri, durante la messa), ma penso che non meriti di essere lasciato nell’emarginazione, solo perché non è stato un uomo giusto al posto giusto. Don Andrea appartiene alla compagnia degli irregolari, di quelli che non diventeranno mai funzionari di curia ma, appunto, sono destinati alle parrocchie di poche anime sul cucuzzolo della montagna. Fosse vivo Guareschi, penso che alla storia del parroco che bruciò la foto del papa il buon Giovannino avrebbe dedicato un racconto dei suoi. Perché don Andrea non è della specie dei don Chichì (il prete in carriera e al passo coi tempi del racconto Don Camillo e i giovani d’oggi). No, don Andrea Maggi è della schiera di quelli che davanti al Crocifisso parlano con  Gesù. E, vedendo certe cose che non quadrano, non si stancano di chiedergli: «Gesù, perché?».

Aldo Maria Valli

Storia del parroco che bruciò la foto del papa (e lo fece per amore)