TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI – di Luigi Copertino – seconda parte

TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI

seconda ed ultima parte

Se, quindi, quella del sovranismo può essere solo una cauta e pragmatica scelta provvisoria, nelle date circostanze del momento, verso quel modello ideale deve lavorare il cattolico impegnato nella cultura e nella politica?

Questa sarà la questione più importante per il futuro, quando caduto rovinosamente il falso impero della globalizzazione e svelati come improponibili i populismi nella misura in cui si mostreranno neopagani, si porrà il problema di un assetto politico internazionale dei rapporti fra i popoli del mondo che non cada nella negazione delle specificità culturali immanenti, di natura.

In particolare il problema si porrà per l’Europa dato che qualcosa ci dice che la catastrofe della globalizzazione inizierà, forse è già iniziata, proprio dal nostro continente.

L’Europa, intesa come civiltà, è già esistita nei secoli della Cristianità mentre quella che oggi affannosamente cercano di tenere in piedi altro non è che una sua contraffazione con radici massoniche. La storia della Cristianità ha, quindi, già conosciuto il modello di riferimento che stiamo cercando di individuare. Si tratta dell’Imperium cristiano tradizionale. Sia esso quello medioevale o quello ispanico-asburgico, già moderno rispetto a quello medioevale ma alternativo ai nascenti Stati nazionali, oppure ancora quello dell’Austria felix della seconda metà del XIX secolo.

Sia chiaro: nessun romanticismo, perché conosciamo bene tutti i limiti ed i problemi che quei modelli soffrirono e che non riuscirono a superare. Ma, del resto, lo abbiamo detto, sul piano immanente non c’è alcun assoluto.

Tuttavia quei modelli avevano questo di fondamentale: la tensione, tutta verticale e verticalizzante, all’unità universale nella salvaguardia orizzontale delle particolarità sussidiarie locali, senza dimenticare il livello intermedio della nazione benché almeno fino al XVI secolo non sono esistiti Stati nazionali veri e propri. Erano modelli costruiti sull’archetipo ecclesiale del Corpo Mistico di Cristo. Un archetipo che veicola la Trascendenza.

Nei termini della moderna tipologia giuridico-politica, questo modello può definirsi confederalista. La confederazione di Stati si distingue, infatti, dallo Stato federale perché, diversamente da questo, non è essa stessa uno Stato. Gli organismi costituzionali di una confederazione non posseggono una sovranità diretta sui cittadini degli Stati che la compongono. Nella Federazione, inoltre, i singoli Stati federati non hanno soggettività giuridica internazionale, spettante solamente allo Stato federale, mentre gli Stati confederati mantengono la loro soggettività internazionale, cui può aggiungersi quella della confederazione. Quel che, però, manca alla concezione moderna della Confederazione tra Stati è un’Autorità di tipo “imperiale”, quindi indipendente dagli Stati medesimi, che senza trasformare la Confederazione in uno Stato Federale le conferisca una unità al vertice capace di imporsi alla base senza violare i legittimi ambiti di autonomia nazionale e locale.

L’attuale Unione Europea può essere considerata una confederazione abortita perché condizionata dall’egemonia degli Stati più forti a causa della mancanza di una riconosciuta e universalmente garante Autorità Sovrana super partes capace di coordinare pariteticamente le varie componenti. Questo è appunto l’esiziale difetto dell’Unione Europea: l’assenza di un’Autorità “imperiale”. Una assenza che ha lasciato troppo spazio agli Stati più forti che hanno finito per occupare il vuoto politico che ne è conseguito.

Attualmente, infatti, l’organo decisionale che nell’Unione esercita l’effettivo potere è il Consiglio europeo, noto alle cronache come “Eurogruppo”, ossia l’assemblea dei ministri, di volta in volta competenti per le materie all’ordine del giorno, che è un organo intergovernativo con poteri “legislativi”, ossia decisionali, mentre la Commissione ha solo poteri esecutivi. Ma il Consiglio non è presieduto né coordinato da nessuna Autorità Confederale di tipo “imperiale” superiore ad esso, né tale tipo di Autorità potrebbe essere incarnata dalla Commissione sia perché, appunto come dice il nome, si tratta di organo esecutivo sia perché essa è a sua volta espressione degli Stati e non rappresenta una Autorità super partes ed indipendente dalle nazionalità confederate.

A differenza degli Stati Uniti d’America che, dopo un acceso dibattito tra confederalisti capeggiati da Jefferson e federalisti capeggiati da Hamilton, scelsero di diventare uno Stato Federale, quindi uno Stato con propria soggettività internazionale non riconosciuta anche agli Stati federati, l’Europa per la sua storia pluralista non può che essere tutt’al più una Confederazione di Stati sovrani.

La “Monarchia” ispanico-asburgica di Carlo V, ad esempio, erede di una Spagna nata dalla confederazione paritetica tra le due Corone di Castiglia ed Aragona, si configurò come l’unione, nella persona dello stesso sovrano, di tutte le corone dell’Impero, comprese quelle indie delle colonie latino-americane. Ed anche se non sempre era assicurata l’eguaglianza giuridica, nel senso moderno, comunque tale assetto garantiva la conservazione ad ogni componente delle proprie prerogative e dei propri privilegi nazionali, sicché nessuna legge era automaticamente applicata in modo uniforme ed astratto ma ogni territorio godeva di una certa autonomia, anche per le modalità di ricezione delle norme imperiali.

L’Impero austro-ungarico della seconda parte del XIX secolo, d’altro canto, fu un tentativo di confederalizzazione del vecchio Impero austrocentrico. Un tentativo rimasto incompiuto a causa delle resistenze magiare – la componente ungherese, ottenuta la parificazione giuridica a quella tedesca con l’atto di nascita della Duplice Monarchia, si chiuse a riccio di fronte alle analoghe istanze di parificazione delle altre componenti, da quella slava a quella italiana, ben viste invece dall’erede al trono Francesco Ferdinando, assassinato a Sarajevo, e dall’ultimo imperatore, il beato Carlo d’Asburgo – nonché a causa della prima guerra mondiale, senza della quale l’Impero si sarebbe trasformato prima in una Triarchia, con il riconoscimento della parità giuridica agli slavi, e poi, con la parificazione di tutte le altre componenti, in una vera e propria Confederazione. Già, del resto, prefigurata dalla Dieta imperiale, il parlamento, composta più che da partiti da rappresentanze nazionali dei partiti.

L’Austro-Ungheria costituiva un grande mercato comune nonostante la sussistenza della politica daziaria interna che, in assenza a quei tempi di un meccanismo di regolazione normativo dei deficit e dei surplus tra le economie delle varie componenti nazionali dell’Impero, aveva la funzione di parziale compensazione alle asimmetrie degli scambi (3). Nulla però avrebbe impedito lo svilupparsi di maggiori competenze regolatrici ed interventiste in capo all’Autorità confederale ossia al Governo Imperiale man mano che il processo di confederalizzazione fosse andato avanti.

Infatti, il maggior problema cui il Governo Imperiale era costretto a far fronte consisteva, come accennato, nel formarsi di asimmetrie economiche tra le varie regione dell’Impero. Il libero mercato, infatti, porta inevitabilmente a differenziazioni che – nonostante il mito della mano invisibile autoregolatrice – esso non è in grado di riavvicinare o ridurre. Anzi il mercato, per sua natura, divarica ed allontana le posizioni degli attori economici perché, nel libero gioco concorrenziale e nonostante le regole per arbitrare la concorrenza, alla fine ci saranno sempre vinti e vincitori e la partita non si chiuderà mai in pareggio.

Per dirla in termini più attuali, il maggior problema della Duplice Monarchia era l’asimmetria tra le “bilance dei pagamenti” delle economie delle sue componenti nazionali perché, nel libero scambio, si formavano situazioni di deficit per alcune e di surplus per altre, senza che il mercato fosse in grado di riequilibrare automaticamente queste asimmetrie, la quali, in tal modo, alimentavano le spinte nazionaliste e disgregatrici della compagine imperiale.

Si tratta dello stesso problema attuale dell’Unione Europea, alle prese con un vastissimo surplus finanziario e commerciale della Germania e satelliti (Olanda, Austria, Finlandia) ed un altrettanto grande deficit nella bilancia dei pagamenti dei Paesi euro-mediterranei, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, con l’aggiunta dell’Irlanda e della situazione in bilico della Francia.

In una Unione male impostata come l’attuale, pensata in termini tedesco-centrici, Paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Francia, nell’impossibilità di svalutare la propria moneta, sono costretti a correggere i loro bilanci statali tagliando la spesa pubblica, anche quella buona, ed a praticare politiche salariali deflattive comprimendo i redditi nel tentativo di competere con la Germania la quale – è nota la disciplina nazionale dei tedeschi, compresi i sindacati che hanno accettato nel 2004 le riforme Hartz a danno dei lavoratori – pratica politiche di contrazione della domanda interna in favore della produttività delle esportazioni.

A tali aggressive politiche neo-mercantili la Germania ha piegato, innaturalmente, anche il modello, organicista, cogestionario e partecipativo che caratterizza, non da ora, i rapporti capitale-lavoro in quel Paese (4). Infatti, attualmente, in Germania il contenimento salariale, accettato dal sindacato, viene parzialmente compensato con l’aumento della retribuzione di produttività: aumento consentito dal buon andamento delle esportazioni ottenuto grazie alla moneta unica, ossia al cambio fisso per eccellenza, che impedisce ai concorrenti europei di svalutare la moneta per combattere il dumping salariale tedesco.

In altri termini il “successo” della politica mercantilista tedesca è fondato sull’egemonia germanica a danno degli altri partner europei in uno scenario asimmetrico che è stupido – e stupidi sono i liberisti anche di casa nostra che propongono cose del genere – pensare di correggere costringendo, come si sta facendo, anche i Paesi euro-mediterranei a politiche di precarizzazione del lavoro. Questo perché così facendo, alla lunga, la stessa Germania non avrà più mercati di sbocco a causa della contrazione della domanda nei Paesi del sud Europa, che sono per l’appunto il mercato di destinazione delle merci tedesche. A meno di non continuare a drogare le economie dei Paesi euro-mediterranei mediante il credito facile onde consentire, dal lato della domanda, la liquidità necessaria all’acquisto dei prodotti tedeschi. Esattamente quel che hanno fatto per quindici anni le banche tedesche, salvo poi, sopraggiunta la crisi e rivelatosi inesigibile il debito privato contratto con i cittadini del sud Europa, farsi salvare con i soldi pubblici di tutti gli europei dal fondo appositamente istituito dall’Unione e fintamente denominato “salva Stati”. Insomma, la politica neo-mercantilista tedesca può funzionare solo in una situazione di asimmetria, come quella consentita da una moneta unica senza compensazioni nei flussi finanziari e commerciali secondo la logica liberista del mercato libero.

Mediante l’introduzione della moneta unica in assenza di meccanismi di compensazione tra le bilance dei pagamenti, la Germania ed i suoi satelliti hanno accumulato un surplus finanziario e commerciale, delle partite correnti, a tutto discapito dei partner europei, innescando per reazione le insorgenze populiste e nazionaliste che, quindi, nascono, come detto, da esigenze difensive, e non aggressive. La vera ed effettiva aggressione è, casomai, quella dei Paesi nord-europei ai danni di quelli sud-europei. Nello scenario vigente i populismi hanno ampie ragioni, nazionali e sociali.

Lo squilibrio tra export e domanda interna della Germania non è mai stato così ampio come in questi ultimi anni quando, pur nel contesto di una drammatica recessione continentale, il surplus tedesco della bilancia delle partite correnti (ossia l’avanzo negli scambi di beni e servizi, più partite finanziarie) è addirittura cresciuto, caso unico in Europa, da 189 a 214 miliardi di dollari. Questo significa che la Germania consuma e compra dall’estero molto meno di quanto potrebbe in base al suo accumulo di risparmio e molto meno di quanto dovrebbe in un sistema finanziario intra-europeo equilibrato. E non si tratta di una evidenza della sola Germania, perché il surplus delle partite correnti dei paesi di lingua tedesca, più gli scandinavi e l’Olanda, ha oggi raggiunto la colossale cifra di 500 miliardi di dollari l’anno.

In una Unione degna di tal nome, dove la Confederazione di Stati godesse di una forte Autorità Politica “imperiale” ossia sovranazionale (ma non trans-nazionale o accentratrice come nello Stato federale) capace di imporre anche ai Paesi forti regole eque del gioco, gli Stati con un notevole surplus commerciale e finanziario come la Germania – cioè quelli che esportano molto più di quanto importano – sarebbero costretti a praticare politiche finalizzate alla riduzione di questo squilibrio. L’Autorità politica confederale costringerebbe detti Paesi, facendo anche leva sul fatto che essi hanno i conti in ordine e il debito pubblico sotto controllo, ad aumentare la domanda interna onde aiutare così i “periferici” a esportare di più. Anche l’attuale politica monetaria espansiva della Bce ne sarebbe avvantaggiata nell’intento di mantenere un buon e salutare tasso di inflazione (5).

Soluzioni di tal genere, doverose in una autentica Confederazione, necessitano di una Autorità politica attiva non solo nella regolazione ma anche nell’intervento sul e nel mercato.

Questo modello economico di tipo confederale fu, a suo tempo, proposto da John Maynard Keynes durante la conferenza di Bretton Woods, nel 1944, dalla quale uscì l’ordine politico e monetario che regolò l’economia occidentale per i vent’anni successivi al secondo conflitto mondiale, benché realizzato nella forma imposta dagli Stati Uniti ossia con il dollaro quale moneta internazionale di riserva. Keynes aveva proposto, invece, una moneta internazionale di conto, il “bancor”, cui ancorare le monete nazionali secondo un cambio semi-flessibile, ossia all’interno di una fascia di oscillazione, in modo da consentire le necessarie compensazioni, commerciali e finanziarie, tra le bilance dei pagamenti degli Stati aderenti e quindi rettificare non solo le situazioni di deficit ma anche quelle di surplus, senza perciò “punizioni” unilaterali verso i soli Stati deficitari praticate mediante assurde austerità come quelle attualmente imposte nell’eurozona dalla Germania ai Paesi euro-mediterranei.

La soluzione keynesiana applicata all’Unione europea di oggi significherebbe, come proposto tra gli altri da Jean Paul Fitoussi, trasformare l’euro in una moneta di conto, per le compensazioni tra bilance dei pagamenti, alla quale legare, secondo un cambio semi-flessibile non troppo rigido e che quindi lasci ampi margini di manovra ai bilanci nazionali, le monete nazionali (euro-lira, euro-peseta, euro-marco, euro-franco, etc.) e conferire ad un’Autorità confederale il potere di attivare meccanismi di riequilibrio mediante sanzioni anche verso i Paesi in surplus, costringendoli a politiche di aumento della domanda interna attraverso l’innalzamento del livello salariale e l’uso della spesa pubblica di investimento.

Una soluzione del genere, viste le passate esperienze come quella del 1992, dovrebbe essere attuata, onde  bloccare tentativi speculativi, mediante il conferimento all’Autorità confederale, mediante la Bce, di abbia ampi poteri di coordinamento delle Banche centrali nazionali in modo che, a fronte di eventuali operazioni di speculazioni a danno di una delle monete della Confederazione, siano immediatamente attivate politiche monetarie atte a sostenere la moneta nazionale sotto attacco.

Così si impedirebbe la ripetizione di quanto accadde, vigente lo Sme (Sistema Monetario Europeo), nel 1992 quando il fondo speculativo di George Soros pose sotto attacco lira e sterlina, costringendolo entrambe ad uscire dagli accordi.

Nell’estate del 1992, infatti, Soros iniziò una massiccia operazione di vendita di lire sul mercato monetario allo scopo di svalutarne il cambio per renderlo insostenibile all’interno della fascia di flessibilità prevista dallo Sme. Lo speculatore anglo-ungherese offriva in abbondanza lire contro marchi tedeschi. La Banca d’Italia, nel tentativo di sostenere il valore della lira e quindi di impedirne l’uscita dallo Sme, mise fondo a tutte le riserve di marchi in suo possesso ma, dal momento che non era essa ad emettere marchi ma la Bundesbank, arrivò quasi immediatamente il momento nel quale Bankitalia esaurì le proprie riserve in marchi perdendo la battaglia contro la speculazione. Quella di Soros, l’allievo principale di Karl Popper e fautore della “open society” più anticristica immaginabile, fu – bisogna riconoscerlo – una operazione magistrale ma, viste le sue radici culturali, senza dubbio alcuno malignamente luciferina.

La Bundesbank, nonostante i legami che univano le monete europee nello Sme, si guardò bene dall’emettere marchi a sostegno della lira sotto attacco. Del resto, nessuna norma la obbliga in tal senso. Inoltre la cultura finanziaria egemone nella Bundesbank ha quale ossessione, per via dell’esperienza tedesca del 1920, esclusivamente il pericolo dell’inflazione, direttamente attribuito, secondo una concezione basata sulla erronea ed arcaica teoria quantitativa della moneta, all’eccesso di emissione di moneta legale. Se ci fosse stata un’Autorità confederale con ampi poteri di coordinazione delle Banche centrali nazionali, la Bundesbank sarebbe stata costretta ad emettere marchi per sostenere la lira in modo da sconfiggere la speculazione. Per quanto i fondi speculativi, come quello di Soros, dispongano di ingenti masse di liquidità non potranno mai avere la potenza di fuoco di una Banca centrale che può stampare tutta la moneta occorrente e, quindi, non potrebbero mai vincere la partita se il gioco speculativo sui differenziali di cambio fosse bloccato da politiche di reciproco aiuto coordinate tra le Banche centrali.

Flavio Felice, docente di storia delle dottrine economiche, di indirizzo ordoliberale, ritiene che soluzioni come quella di Bretton Woods abbiano la pretesa autoritaria di imporre il bene attraverso l’azione politica svelando, così, di essere espressione della tentazione atavica del serpente biblico (6).

Affascinato dall’esoterica “mano invisibile” – il nostro dovrebbe approfondire un po’ di più le connessioni esistenti tra l’esoterismo panteista di matrice massonica e la filosofia umanitaria di Adam Smith – Flavio Felice dimentica proprio un punto forte della sua cultura ordoliberale ossia il ruolo che, a differenza del liberalismo tout court, essa assegna allo Stato. Un ruolo variamente disegnato dai rappresentanti della scuola di Friburgo, con accenti più o meno marcati, da quelli molto tenui di un Walter Eucken a quelli molto più “interventisti” di un Alfred Müller-Armack. Non a caso gli ordoliberali presentano se stessi come “interventisti liberali”. Dimentica, inoltre, il Felice che lo stesso Keynes era un liberale, il cui fine dichiarato era quello di conservare il sistema di mercato a fronte dell’ipotesi totalitaria che lo contestava. Solo che a differenza degli ordoliberali, i quali, sbilanciati, troppo guardano le cose solo o prevalentemente dal lato dell’offerta, ossia del capitale, l’economista inglese pone al centro l’inevitabile prioritario ruolo che in una economia di mercato assume la domanda, ossia il lavoro.

Forse Keynes potrà essersi sbilanciato, a sua volta, troppo dal lato della domanda, perché è giusto tener conto anche del punto di vista dell’offerta, ma la priorità della domanda sull’offerta è un dato ineludibile, sperimentalmente comprovato dalla storia, non avendo, al contrario, trovato alcun riscontro scientifico la Legge del Say. L’offerta non è autonomamente capace di creare la domanda per il semplice fatto che il profitto tende inevitabilmente a comprimere i costi, ad iniziare da quello del lavoro, e quindi a ridurre il reddito, il potere d’acquisto, dei consumatori che sono gli stessi lavoratori. Alla lunga il risultato è la deflazione, a meno che non intervengano opportuni correttivi della “mano visibile”, pubblica e sindacale, a colmare le inefficienze naturali della “mano invisibile”.

La Dottrina Sociale Cattolica auspica l’equilibrio della prospettiva sociale alla luce dell’equilibrio antropologico della natura umana, creata nell’Amore di Dio, né buona né cattiva, o meglio ferita, ma non corrotta, dal peccato originale. Non si può, quindi, prescindere, anche nelle scienze sociali ed economiche, dalla quella ferita, che ha parzialmente offuscato l’ontologica originaria bontà della natura umana, ora redenta dal Sacrificio della Croce. Questo significa che, essendo la Comunità politica non frutto del peccato, come pensano i protestanti, ma di natura, come pensano i cattolici, anche l’Autorità politica, in origine buona, è ora, a causa della ferita del peccato, imperfetta e tuttavia ad essa deve essere riconosciuto, proprio all’interno dell’Ordine di natura riflesso di quello Trascendente, un suo ruolo, in confini delimitati, ma cogente ed irrinunciabile. In questo ruolo c’è innanzitutto il dovere di comporre nell’equità distanze e conflitti tra le membra del corpo politico, secondo quanto da sempre sostenuto dal pensiero politico tradizionale, ebraico, ellenista e  cristiano.

Adam Smith, lungi dal ritenere centrale il problema delle conseguenze anintenzionali delle azioni umane, ha invece elaborato l’idea della “mano invisibile” influenzato dalla concezione non cristiana, non cattolica, della circolarità immanentista, olista, panteista, “magica”, che le Logge, proprio in Inghilterra a partire dal 1717, coltivavano, per eredità rosacruciana, nell’avversione all’Autorità Teologica della Chiesa Cattolica ed a quella Politica. L’a-statualismo smithiano fa il paio con l’anti-statualismo marxista, nell’immaginare una società auto-gestita, poco importa se dalla mano invisibile del mercato o dalla spontanea contribuzione-redistribuzione del socialismo compiuto che, nell’utopia marxiana, non abbisogna, se non provvisoriamente, dello Stato.

Pensare, come fa il Felice, che, per riequilibrare posizioni di anacronistico dominio (prendiamo atto con soddisfazione che, perlomeno, il nostro riconosce implicitamente che quello della Germania ordoliberale è attualmente un dominio), sia sufficiente istituzionalizzare la poliarchia, senza una efficace anche se ben ponderata presenza della mano visibile dell’Autorità politica, è quanto meno ingenuo.

Infatti se è vero che il problema sociale ed economico, in quanto problema antropologico, è indubbiamente in primo luogo problema etico, ossia di dis-eticità, è altrettanto vero che, senza alcun cedimento alla tentazione dello Stato etico fagocitatore dei corpi intermedi nel tentativo di  imporre forzatamente il bene, compito dello Stato, anche di quello liberale, è realizzare, mediante mirati interventi della mano pubblica e non solo mediante la moral suasion, le condizioni affinché il bene comune sia operativo ossia concretamente reso possibile dall’azione dei gruppi sociali concertata e coordinata, autoritativamente, dall’Autorità politica. Ruolo principale dello Stato è coordinare verso scenari di equità, e quindi di eticità secondo natura, le membra del corpo sociale.

Deplorando, quale effetto dello spirito individualistico nella vita sociale, l’abbassamento della dignità dell’Autorità politica a strumento di passioni ed ambizioni impolitiche, ossia economiche, Pio XI, nella già citata “Quadragesimo Anno” (paragrafo n. 109), ricorda che, in un retto ordine politico e giuridico, lo Stato deve «… assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia».

Pensare, quindi, che tutto possa essere lasciato alla sola buona volontà dei singoli operatori o dei gruppi sociali, che non sempre sussiste prevalendo piuttosto frequentemente l’egoismo individuale o di gruppo, oppure che tutto sia risolto dal laissez faire, è non solo ingenuo ma irrealistico e perfino deficitario rispetto agli insegnamenti di quel ramo della teologia morale che è la Dottrina Sociale Cattolica. Certamente, promuovere il bene comune, non significa che lo Stato deve assorbire i corpi intermedi o sostituirsi ad essi, laddove non necessario o opportuno, ma è indubbio che senza l’Autorità politica non esiste neanche la possibilità del bene comune mancando chi porta a tendenzialmente pacifico incontro aspettative, diritti, interessi e doveri delle diverse membra della Comunità politica.

Un assetto organicista nel quale all’Autorità politica sia riconosciuto il suo giusto ruolo, e la cui presenza, dunque, non sia né deficitaria né eccessiva, non è del tutto ignoto neanche all’ordoliberalismo.

Secondo la lettura dominante della “economia sociale di mercato” oggi prevalente, quella che ispira la politica tedesca e che è stata imposta all’Unione Europea dalla Germania, soluzioni tipo Bretton Woods, per un riequilibrio tra le partite correnti delle bilance dei pagamenti dei Paesi dell’eurozona, sono assolutamente da evitare perché troppo politiche, troppo “stataliste”. Eppure quel tipo di soluzioni non erano, un tempo, affatto escluse proprio dalla migliore intelligenza ordoliberale tedesca.

La Germania della Merkel si oppone all’attuazione di misure intra-europee “compensative” perché esse, facendo leva su politiche espansive, nonché sul ricalibramento dell’equilibrio tra export e import, andrebbero contro i princìpi di stabilità fiscale e monetaria, che sono i soli attualmente accettati della “Soziale Marktwirtschaft”. Qualsiasi misura compensativa di riequilibrio del mercato – secondo la Bundesbank – sarebbe, da parte della Germania, un segnale sbagliato ai Paesi sulla via del risanamento. Come si vede, la Germania si erge, all’interno dell’Unione Europea, a prima della classe, anzi a maestrina con la bacchetta in mano, incentivando con questa politica miope populismi e nazionalismi. E’ essa, con il suo nazionalismo mercantilista, la miglior alleata dei populisti.

In realtà, come si è accennato, una diversa interpretazione dell’economia sociale di mercato, meno succube dei dogmi liberisti rispetto ad altre sue esegesi, consente di contestare la Germania proprio sullo stesso suo terreno dottrinario.

Stiamo parlando della “Soziale Marktwirtschaft” secondo le linee ideali, più interventiste, tracciate da Alfred Müller-Armack, al quale si deve l’uso stesso dell’espressione “economia sociale di mercato”. Müller-Armack fu braccio destro di Erhard ai tempi del “miracolo economico” tedesco del secondo dopoguerra e tra gli ordoliberali è il più “statualista”, quello che più degli altri ha marcato la necessaria presenza dello Stato benché, in ossequio agli indirizzi della sua scuola, indicava questa presenza secondo una linea di “intervento conforme al mercato”. Rispetto agli altri ordoliberali, nel pensiero di Alfred Müller-Armack il “sociale” conserva una certa, benché relativa, trascendenza e non si identifica del tutto con il “mercato”.

Sebbene questo si possa dire per Müller-Armack solo in modo molto tenue, perché egli rimane pur sempre un ordoliberale, tuttavia nel suo pensiero, che subì evidenti modifiche proprio a seguito delle concrete esperienze di governo attraverso le quali i nodi della realtà vennero al pettine della teoria costringendola ad un chiaro adattamento pratico e quindi storico, la relativa trascendenza del “sociale” sul “mercato” invoca necessariamente una maggior presenza dello Stato che, pur non esulando del tutto dal ruolo principale che l’indirizzo teoretico ordoliberale ad esso assegna ossia di essere “cornice istituzionale della concorrenza”, è chiamato ad intervenire benché – sempre in ossequio agli astratti principi dottrinari di riferimento – in modo “conforme al mercato”.

Per questo, in pratica, le politiche messe in atto sotto la gestione di Müller-Armack si dimostrarono più statualmente incisive – si pensi solo alla rete di protezione sociale dalla disoccupazione che fu impiantata sotto sua indicazione e che tuttora è efficacemente operativa in Germania – di quanto la dottrina ordoliberale originaria auspicasse. Sicché si ha l’impressione che la specificazione “conforme al mercato” sia, in Müller-Armack, una sorta di tributo ideologico a nascondimento dell’implicito riconoscimento – certo sempre molto pudico anche nella sua visione – che lo Stato non è solo il “garante della concorrenza e della stabilità del bilancio pubblico”.

Inviso a Friedrich von Hayek, proprio a causa di questo suo “statualismo” ritenuto, dal dottrinario viennese, eccessivo, Müller-Armack ha per l’appunto: «… crea(to) – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – un sistema di sicurezza sociale che affianc(a) … la competizione di mercato. L’effetto controintuitivo dell’ordoliberismo fu quindi, nel secondo dopoguerra di una Germania che si ricostruiva trionfalmente con il denaro americano e la disciplina eroica del suo popolo, l’enfatizzazione del principio di sussidiarietà, desunto dalla Dottrina Sociale Cattolica. Un’etica più che un ordine, quindi, che doveva coordinare le iniziative non solo degli individui e dello Stato, ma anche dei gruppi comunitari. Non è un caso che i fanatici alla Hayek levarono alte grida contro il corrompimento dell’ordoliberismo, sconfessandone la versione economica e sociologica (ossia quella di Müller-Armack, nda)» (7).

A conforto dei rilievi del Sapelli, va ricordato che è stato proprio Müller-Armack a porre, tra i primi, il problema delle politiche compensative all’interno di una auspicata Unione Europea.

«Già nel 1960 – egli scriveva nel 1978, nel saggio “I cinque grandi temi della futura politica economica”, riedito recentemente proprio da Flavio Felice – ho proposto per l’Ocse, e negli anni successivi anche per la Comunità europea, un coordinamento delle politiche congiunturali attraverso la creazione di un sistema di regole secondo cui costruire la politica congiunturale dei vari paesi, nonché attraverso la costituzione di un Consiglio per la congiuntura dotato anche di mezzi finanziari».

L’economista tedesco riconosceva, dunque, quale misura politica coerente con la sua interpretazione interventista della “Soziale Marktwirtschaft”, che in una situazione di mercato comune, ed a maggior ragione in una Unione tendente alla Confederazione di Stati, è assolutamente necessario un meccanismo di compensazione, un coordinamento, delle bilance dei pagamenti, onde regolare ed equilibrare la posizione di deficit e di surplus verso un bilanciamento equitativo.

Müller-Armack, come è evidente, si limitava a parlare di coordinamento delle politiche congiunturali, senza accennare al ruolo di una ipotetica Autorità confederale non limitato alla sola costituzione di un sistema di regole. Ma è altrettanto evidente che qualsiasi sistema di regole ha necessità anche di sanzioni e quindi di un’Autorità politica interventista che induca – preferibilmente con le buone, altrimenti con le cattive – sia gli Stati in deficit sia gli Stati in surplus (e non solo, come attualmente, quelli in deficit, con il risultato di massacri nazionali e sociali quali il caso greco, con l’effetto di creare odi tra nazioni!) alle necessarie politiche di correzione dei  rispettivi squilibri.

Non ci si può, infatti, aspettare dal libero gioco di mercato – nonostante la sua istituzionalizzazione in una eventuale “Costituzione europea” – il riequilibrio spontaneo di deficit e di surplus, che al contrario lasciati a sé tendono a cristallizzarsi e ad aumentare. Nessuno, in altri termini, potrebbe aspettarsi oggi che, mentre essa usa le leve del potere eurocratico essendo l’economia più forte e quindi potendo, per mancanza di un’Autorità Politica Confederale, imporsi sugli altri, la Germania si decida autonomamente e spontaneamente, in “spirito di solidarietà”, a cambiare politica economica per favorire i suoi partner/concorrenti europei.

Müller-Armack, infatti, si limitò a proporre un mero coordinamento volontario all’interno di un’unione monetaria. Come egli stesso ricorda: «Io ho allora proposto, per le singole situazioni tipiche delle politiche congiunturali, in riferimento alla politica monetaria, alla situazione del momento della bilancia dei pagamenti e al diverso grado di occupazione, un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi (…) (sicché gli Stati in surplus) Amplino il loro import, se in posizione di eccedenza, e all’interno perseguano una politica espansiva per offrire così agli altri paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato».

Tra gli estensori materiali del Trattato di Roma del 1957, che è alla base dell’UE, Alfred Müller-Armack, contrariamente a quel che oggi fa la sua Patria, guardava al necessario “coordinamento delle politiche congiunturali” che passa attraverso il riconoscimento di “un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi”, perché non tutti in Europa siamo nella stessa identica situazione e non tutti possiamo applicare le stesse identiche politiche economiche.

Sembra che ora, dopo anni di assurda politica di austerità perseguita dalla Germania mediante la Troika e dopo la distruzione dell’economia dei Paesi euro-mediterranei, in primis quella della povera Grecia, madre storica dell’Europa, si sia iniziato a comprendere questa lapalissiana verità. L’Europa a più velocità della quale si sta iniziando a parlare – ma di cui finora non si è vista alcuna concretizzazione nonostante i rituali e le dichiarazioni di principio come quelle romane durante le recenti, fastidiose e retoriche celebrazioni del 60° anniversario dei Trattati del 1957, mentre invece continuano ad essere inesorabilmente applicate le ricette teutoniche di austerità, favorendo i populismi – potrà essere, forse, l’inizio del riassetto economico “confederale” dell’Unione Europea, anche se ciò non basterà senza una indipendente Autorità “imperiale” sovranazionale che si ponga a garanzia di tutti e di ciascuno all’interno dell’Unione.

Pur scrivendo nel 1978, ossia quando il Trattato di Maastricht e l’effettiva unione monetaria neanche erano in elaborazione e quando il Muro di Berlino non era ancora caduto, Müller-Armack aveva già capito, all’epoca, che una eventuale futura Unione non avrebbe impedito a priori la formazione di livelli differenti nei ritmi di crescita e raccomandava, nel caso di una futura unione monetaria che avrebbe reso impossibile la svalutare competitiva della moneta, quale unica strada possibile quella di una maggiore, ma reciprocamente leale, cooperazione. Tuttavia questo richiede, che piaccia o meno agli ordoliberali in genere ed alla Merkel o a Schaūble, la forte presenza di un’Autorità Politica “imperiale”, ossia indipendente dagli Stati confederati, con ampi poteri di intervento economico con il compito di coordinare le politiche nazionali al fine di riequilibrare le asimmetrie che il mercato, per sua natura, non è capace di superare.

La lettura nazionalista, che ha imposto la Germania, dell’economia sociale di mercato è la causa prima del disfacimento in atto dell’Unione Europea. I populismi sono solo una legittima, ed anche giusta nelle date condizioni attuali, reazione al nazionalismo mercantilista tedesco e in genere nord-europeo.

La soluzione all’attuale impasse europeo non è uno Stato Federale ma una Unione Europea, sul modello della Confederazione di Stati – un po’, se si vuole, la gollista “Europa delle Patrie” –, che rispetti le differenze nazionali ma che abbia ampi poteri di effettivo coordinamento riequilibratore delle politiche economiche degli Stati, costringendo agli aggiustamenti anche e soprattutto le posizioni di surplus, nella debita considerazione degli inevitabili differenziali fra le economie dei Paesi confederati e con il compito di riavvicinare solidaristicamente le posizioni forti alle deboli, anche a costo di imporre rinunce all’egemonia, in primo luogo, ai forti e non solo sacrifici ai deboli.

La Germania deve decidere se vuole restare la sola “economia sociale di mercato” tra le macerie del resto d’Europa, assistendo allo sfaldamento progressivo dell’Unione Europea, oppure se accettare, subordinandosi, in posizione paritetica con gli altri Paesi, ad un’Autorità Confederale, il riequilibrio delle asimmetrie europee attuali. Una terza via non c’è.

Luigi Copertino

FINE

NOTE

3. L’Austro-Ungheria, proprio per questo essere anche un grande mercato internazionale, è stata l’alveo di nascita della scuola economica marginalista, il cui maggior rappresentante fu Carl Menger. Quella del marginalismo è una scuola economica liberista che, in opposizione al concetto materialista, smithiano-marxiano, del valore quale attributo oggettivo delle merci – dunque della forza lavoro, intesa materialisticamente come merce, necessaria per produrre i beni (da qui l’idea marxiana del “plus-valore” ossia di una parte del valore complessivo defraudato dall’imprenditore al lavoratore compensato in misura minore all’effettiva quantità di lavoro esplicata) – elaborò un concetto soggettivo di valore espresso dall’utilità che, appunto, il soggetto assegna ai beni in vista dei suoi scopi egoistici. Non vi è chi non vede che dietro la visione marginalista agisca la filosofia soggettivista sviluppata da Cartesio fino a Hegel e consistente nella riduzione della realtà oggettiva all’attività psicologica dell’io. Del resto, non bisogna dimenticare che anche l’Impero Asburgico, a partire dal regno dell’imperatore Rodolfo nel XVII secolo e poi con la fase giuseppinista nel XVIII secolo, fu influenzato da una forte presenza della Massoneria, tanto gnostico-esoterica quanto umanistico-operativa, la quale nel XIX secolo rivelò la propria capacità di mobilitazione con la Rivoluzione europea del 1848. Sarebbe, tuttavia, improprio annettere agli eventi di quell’anno, che fu lo stesso dell’ascesa al trono imperiale di Francesco Giuseppe, poi chiamato a gestire la trasformazione dell’Impero in Duplice Monarchia, o a esclusivi presunti meriti della Massoneria, l’inizio del processo di confederalizzazione della compagine imperiale. Quel processo invece, non a caso, si svolse sempre all’insegna del primato confessionale del Cattolicesimo, pur nella tolleranza – anche ben garantita, come ad esempio nei confronti delle comunità ebraiche – ma non nel riconoscimento dell’eguaglianza giuridica alle minoritarie confessioni religiose diverse dalla fede cattolica che era la fede degli Imperatori e degli stessi popoli dell’impero. Si può con certezza affermare che la concezione del valore di Adam Smith e Karl Marx è la versione materialista della filosofia immanentista moderna mentre il marginalismo mengeriano rappresenta la versione idealista del medesimo immanentismo filosofico. Cosa che pone non pochi e molto seri problemi alle pretese cattoliche dell’ordoliberalismo, di matrice tedesca, che nasce sulla scia del marginalismo. L’ordoliberalismo è, infatti, costretto ad accettare il soggettivismo filosofico che è alla base del marginalismo, sicché, lungi dall’essere naturale, l’“ordine economico”, che esso intende difendere mediante la “cornice istituzionale” della “Costituzione economica” garante della concorrenza e del libero mercato, si svela quale auto-costruzione filosofica umana.

4. Il modello cogestionario e partecipativo – ossia partecipazione del lavoro alla gestione delle imprese e partecipazione dei lavoratori alla proprietà del capitale nonché, soprattutto, agli utili aziendali in aggiunta al salario, in termini di quota salariale o di aumenti salariali legati alla produttività – è un buon modello, raccomandato anche dal magistero sociale cattolico al fine di diminuire il conflitto sociale avvicinando capitale e lavoro, ma deve essere ben implementato onde evitare che funzioni solo dal lato dell’offerta, ossia in favore del capitale. La partecipazione agli utili aziendali mediante il salario di produttività è certamente uno strumento anti-inflattivo perché consente aumenti salariali legati all’aumento della produttività, ossia degli utili netti aziendali, impedendo in tal modo che gli aumenti salariali sic et simpliciter finiscano per tradursi in aumenti di costo dei prodotti e quindi in inflazione. Tuttavia non può essere del tutto dimenticata la base salariale perché essa svolge un ruolo importante soprattutto a fronte di sempre possibili recessioni o di inflazione da domanda o da costi diversi da quelli del lavoro. In altri termini, quando il mercato flette, sicché anche la quota di salario legata alla produttività tende a diminuire, è necessario agire sulla leva del salario di base, aumentandolo anche a scapito momentaneo dei profitti, onde sostenere i livelli di reddito ossia di domanda e spingere nuovamente il mercato verso l’alto. Infatti comprimere i salari – e la spesa pubblica – in situazioni di recessione significa andare dritti verso la depressione. Analogamente nei contratti collettivi, nazionali o aziendali, è necessario che, laddove si adotti un modello partecipativo, prevedendo il salario di produttività, siano sempre previste clausole di salvaguardia dei salari di base a fronte di una eventuale inflazione da costi non salariali o da domanda, in modo da consentire aumenti automatici del salario di base, in forme di scala mobile, al fine di mantenere il potere d’acquisto dei lavoratori contro l’inflazione, anche se questo potrebbe comportare un aumento dell’inflazione medesima. In questo caso come quello dell’eventuale aumento del salario di base per far fronte ad una recessione, si può contenere l’inflazione, o sostenere il livello dei profitti datoriali, mediante una politica fiscale dello Stato che contempli una riduzione delle tasse a carico delle imprese ed il sostegno central-bancario alla spesa pubblica produttiva.

5. E’ bene ricordare che se la deflazione è la morte dell’economia, l’inflazione, la quale non dipende affatto in modo diretto ed automatico dalla quantità di moneta legale o bancaria in circolazione, se tenuta sotto controllo, in modo che non diventi iper-inflazione, è un corroborante per il mercato perché significa che la domanda è forte in quanto i lavoratori-consumatori dispongono di un reddito sufficiente.

6. Cfr. Flavio Felice “70 anni di Bretton Woods e la tentazione del serpente” in “Il Sussidiario.net” del 25.07.2015. In realtà, però, gli accordi di Bretton Woods non sono durati settant’anni anni ma dal 1944 al 1971, quando con la fine del gold exchange standard essi furono abrogati. L’autore si preoccupa della potenziale tentazione “leviatanica” insita nella politica della “mano pubblica” senza però minimamente avvedersi delle attuali concentrazioni mondiali di capitale finanziario rese possibili dal potere globale della finanza trans-nazionale che, esso sì, costituisce quel “marchio” senza del quale “nessuno potrà vendere o comprare” e che sarà, globalmente, impresso dal potere anticristico a tutti, “piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi” (Ap. 13, 16-17).

7. Cfr. G. Sapelli “Così Draghi consegna l’Europa alla ‘dittatura’ tedesca”, in “Sussidiario.net” del 14.07.2014. Da notare che a conclusione del suo articolo Sapelli guarda agli esiti dell’ordoliberalismo tedesco nei termini di una strategia politica nazionalista a danno dei altri partner europei e in contraddizione con l’interpretazione, da lui definita, sociologica dell’economia sociale di mercato, ossia l’interpretazione più sociale dell’ordoliberalismo. Sapelli, infatti, a quanto sopra da noi riportato, aggiunge le seguenti considerazioni: «I tedeschi hanno ottenuto per loro la conclusione che faceva arrabbiare Hayek, ossia la comunità e la sussidiarietà, per carità sempre producendo come matti, disciplinatamente. A tutti gli altri surrettiziamente hanno dato in pasto l’ordoliberismo, che si è adattato come teoria costituzionale tecnocratica al liberismo di marca anglosassone …». E’ importante questa distinzione, del Sapelli, tra le diverse interpretazioni dell’economia sociale di mercato perché l’altra versione, quella facente capo a Franz Bohm, Hans Grossmann-Doerth e, soprattutto, Walter Eucken, la cui opera del 1941 “Die Grundlage der nationalokonomie” costituisce la bibbia della Scuola ordoliberale di Friburgo, costituisce la corrente più marcatamente liberista anche se all’interno di una visione che prevede una funzione statuale autoritaria di codificazione della concorrenza e di forte repressione di ogni tentativo di correttivo sociale del mercato. Per questa versione, della “Soziale Marktwirtschaft”, “mercato” e “sociale” sono la stessa cosa, l’uno è immanente all’altro e si identificano a condizione che sia assicurato a tutti, mediante opportune normative antimonopoliste, l’accesso all’agone concorrenziale dell’economia libera. Pertanto, in questa versione dell’economia sociale di mercato, lo Stato, oltre che garante autoritario dell’ordine “naturale” del mercato, non ha alcun ruolo e non è chiamato ad alcun intervento, neanche minimo. Tutto si risolve, con una completa negazione di ogni trascendenza, nell’immanenza del mercato ossia, detto in altri termini, della “società civile”, contrapposta alla Comunità politica. E’ evidente la radice mengeriana, dunque marginalista e soggettivista, di questo approccio. Una radice che, nonostante il dichiarato cristianesimo (non a caso protestante) della maggior parte dei pensatori ordoliberali, pone tale indirizzo, in ultima istanza, in rotta di collisione con il Cattolicesimo. L’organicismo forte e realista della Dottrina Sociale Cattolica – forte e realista perché non finge l’inesistenza, causa ferita ontologica originale, del conflitto sociale, cercando tuttavia di comporlo all’insegna di una solida concezione etica nella quale l’Autorità politica ha un ruolo e poteri molto incisivi, e non di mera “cornice”, nella mediazione equitativa tra offerta e domanda, ossia capitale e lavoro – è ben altra cosa rispetto all’individualismo che si nasconde dietro ai richiami di tipo, molto, vagamente organicisti del pensiero friburghese. L’ordoliberismo rappresenta la corrente più a destra della “Rivoluzione Conservatrice” tedesca, degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, contigua al nazional-conservatorismo di Edgar Julius Jung, il segretario di von Papen che fu assassinato durante la “notte dei lunghi coltelli” nel 1934 – la corrente più a sinistra essendo, invece, rappresentata dal “nazional-bolscevismo” di Ernst Niekisch – e può annoverarsi tra i fiancheggiatori di destra del nazionalsocialismo ossia quegli esponenti politici socialmente conservatori e religiosi, cattolici e protestanti, che nel 1944, in assenza di qualsiasi opposizione popolare al nazismo, ordirono l’attentato di Claus von Stauffenberg ad Hitler. Nella versione euckeniana dell’ordoliberalismo l’economia è legata alle sole sorti del mercato, sempre potenzialmente suscettibile di impoverimento nei periodi di flessione del mercato. In nome di questa assurda e cieca fede nel laissez faire, Eucken si opponeva ad ogni forma di politica anti-ciclica che supponesse l’intervento attivo, e non solo di cornice istituzionale, dello Stato. La critica ordoliberale alla eccessiva presenza dello Stato in economia non ha mai tenuto in debito conto che l’eccesso è colpevole quanto il difetto. La scolastica del laissez faire è stata responsabile, ad esempio, della morte per fame di migliaia di irlandesi durante la carestia che a metà del XIX secolo sconvolse l’economia dell’Isola verde, all’epoca colonia inglese, a causa di una malattia della patata che aveva danneggiato le coltivazioni del tubero. La patata era il cibo dei poveri. Il drastico crollo del raccolto fece innalzare alle stelle i prezzi del tubero ma il governo di Sua Maestà, alle proteste da tutto il mondo per la sorte della popolazione irlandese, rispose che “la natura doveva fare il suo corso” intendendo con ciò che le “naturali” leggi di mercato non potevano essere violate dallo Stato. Come spiega ancora Sapelli a proposito dei principali pensatori ordoliberali tedeschi: «… questi studiosi partecipano al grande dibattito sull’economia politica che vede opposti alla scuola storica tedesca di Schomoller i seguaci della scuola austriaca di Karl Menger, che ricercava appunto un approccio nomotetico nel corso del grande Methodenstreit che caratterizza il mondo tedesco negli anni Venti e Trenta. L’ordoliberismo nasce come reazione al disordine di Weimar. I seguaci di quella scuola hanno la convinzione che nessuna politica economica fondata sul libero mercato potrà avere successo e quindi non provocare inflazione se non si tradurrà in “ordini economici”, ossia in precetti costituzionali che fissino indelebilmente e per sempre la configurazione della politica economica della nazione (si pensi all’inserimento in Costituzione del “pareggio di bilancio” voluto dal governo dell’ordoliberista Mario Monti nel 2012, nda). Lo Stato non deve fissare i prezzi, ma scrivere invece nella sua Costituzione che i prezzi non devono mai essere fissati e che il libero mercato è il dogma assoluto che consente la libertà economica e degli individui. Una sorta di totalitarismo di mercato. Esso ha tra i suoi fondamenti un “ordine economico” che sancisce il divieto di debito pubblico e quindi in tal modo spinge a ricercare la libera concorrenza grazie alla produttività del lavoro, ponendo così le basi che, qualora quest’ultima non si realizzi, si raggiunga l’assenza di debito pubblico attraverso l’abbassamento costante dei salari, creando un mondo di poveri. Eucken accusava i teorici del laissez faire di non aver fissato le regole del gioco trasformandolo appunto in una Ordnungpolitik compatibile con il Reichstaat. Ecco quindi le “forme” della politica economica piuttosto che la politica economica. C’è da aver veramente paura». In altri termini, la versione euckeniana dell’economia sociale di mercato è la costituzionalizzazione del liberismo più duro. Ed è per questo, come si è già accennato, ossia perché annacquata dal primato dell’individuo (da non confondere con la “persona” che, invece, si da sempre e solo in relazione comunitaria), che la versione di Eucken dell’ordoliberalismo non può definirsi “organicista”, come pure impropriamente alcuni sostengono. La versione sociologica di Müller-Armack, invece, con più realismo, benché sempre all’interno di una concezione pro-offerta e non pro-domanda, ossia pro-capitale e non pro-lavoro, perlomeno si pone – qui sì in termini un po’, ma solo appena un po’, più organicisti – il problema della disoccupazione, del non perfetto funzionamento del meccanismo di mercato e del necessario intervento correttore pubblico mediante. Un intervento che però anche in Müller-Armack non appare certo molto espansivo limitandosi, principalmente, a defiscalizzazioni o a trasferimenti di denaro attraverso voucher spendibili a scelta del cittadino per usufruire dei servizi sociali possibilmente privatizzati. Il massimo di intervento concepibile, anche in Müller-Armack, è la necessaria rete di protezione sociale dalla disoccupazione attraverso un ben congegnato sistema di sussidi di disoccupazione legati ad obblighi formativi intesi al recupero del disoccupato al lavoro attivo. La visione di Müller-Armack non esclude programmi di investimento pubblico anti-ciclico in forma di lavori pubblici ma essi sono ritenuti possibili solo se compatibili con le entrate fiscali dello Stato in quanto viene esclusa qualsiasi monetizzazione del bilancio pubblico da parte della Banca Centrale. Insomma Müller-Armack cerca di introdurre all’interno dei rigidi schemi “hayekiani” e “mengeriani” dell’ordoliberalismo tedesco almeno alcuni elementi di interventismo che potremmo latamente avvicinare, anche se con tutte le limitazioni del caso, a politiche di vaga ispirazione keynesiana. Pur limitando al minimo l’interventismo statale, l’ordoliberalismo secondo Müller-Armack, come ricorda Sapelli, fu “scomunicato” come “eretico” da Friedrich von Hayek.