Ritroviamo la nostra identità. Sapendo cos’è.

L’aborto libero e legale –  grande “conquista delle donne” –  in Gran Bretagna ha trovato un particolare favore tra le comunità di origine indiana e pachistana:  che l’ha usato come  mezzo gratuito e  pulito  per eliminare le nasciture femmine,  che in quella culture  sono un peso  morto e un costo economico  in pura perdita, perché vanno fornite dalla loro famiglia di una dote esosa che godrà, poi, la famiglia del marito.

Ecco un caso spaventoso in cui ciò che nella nostra società progressista  è passata come “conquista”  del femminismo,  un diritto civile  per “la liberazione della donna”, viene  strumentalizzato da altre colture etniche venute in Occidente, per perpetuare il più tribale oscurantismo  che decreta l’ inferiorità femminile, anzi perfezionandolo: quello che là è infanticidio, qui è aborto selettivo fornito dal servizio sanitario nazionale nell’asettico ambiente ospedaliero. Una strage delle innocenti   (altro che femminicidi!) nell’Occidente ‘avanzato’.

Di simili contaminazioni aberranti del multiculturalismo esaltato dal politicamente corretto, se ne trovano molte nel  saggio di Gian Marco Concas, Ri-generazione Identitaria (Mgc Edizioni, 195  pagine, 12  euro);  molti sono così diffusi che non ne cogliamo più la natura rivoltante per i nostri principi di civiltà. Così  la reintroduzione della schiavitù in Italia, quando immigrati clandestini cinesi devono lavorare gratis in qualche sotterraneo per la Triade con cui sono in debito  perché gli ha anticipato i soldi del viaggio  (migliaia di euro) e gli ha sottratto il passaporto; o  la tratta di carne  umana, che è  il vero nome che merita quella che  noi chiamiamo “accoglienza umanitaria”,  dove miriadi di Ong nostre traggono le loro ragioni di esistenza come  ‘organizzazioni di diritto  internazionale’ ,  strappano fondi pubblici senza coonrollo – e alimentano, dall’altra parte del Mediterraneo, nell’altra “cultura  etnica”  (in cui non sono nati né il diritto né il concetto di ‘umanità’),  lo stimolo ad intensificare la tratta, l’arrivo di gommoni di dimensioni inverosimili (costruiti apposta: non se ne vedono di simili in commercio)  e inverosimilmente stracarichi di gente che ha pagato fortune e s’è indebitata perché sa che sarà “accolta”  –  con relativo aumento di morti affogati. A migliaia. “Crudele paradosso”, commenta Concas : “più si cerca di spezzare il circolo vizioso della disperazione, più lo si radicalizza, inasprisce e rafforza”.  E i sopravvissuti  alimentano, s’intende, il più squallido sfruttamento del lavoro nero –  altra violazione delle norme  teoricamente vigenti sul diritto del lavoro nella nostra civiltà.

Tutto ciò non era inevitabile.  “L’antidoto era in noi, nel nostro retaggio europeo”.  E’ che nell’accogliere masse di etnie e culture ‘altre’, abbiamo rinunciato ad applicare a loro  la nostra, a pretendere con rigore  che si adeguassero ai nostri principi e valori. Da cui si vede che la “identità”  di cui l’autore propugna  la rigenerazione non è quella vernacolare, dei sapori dii casa e delle care usanze del tempo che fu;  non è l’ethnos, ma il logos – perché questa è l’identità europea a cui abbiamo rinunciato  a forza di globalizzazione dei mercati e di consumo: è la civiltà, né più né meno.

eurabia

Cercare l’identità europea  tratta di ben altro che rimpiangere le usanze etniche e  i legami di sangue. “Il mondo europeo è figlio dell’ordine, dell’applicazione della scienza e della speculazione razionale. E’ anche figlio dell’individualità, della diversificazione, del desiderio di partecipazione” –  la partecipazione al  potere decisionale che, per esempio, i cinesi non hanno, abituati da millenni a soggiacere ai messi imperiali, e  musulmani nemmeno,  conoscendo come sola forma di governo il dispotismo.

Non si pensa mai che  la filosofia greca è fin dall’inizio   filosofia politica; Socrate   sta nella piazza a interrogare su ciò che è giusto e ingiusto nella città, come formare il cittadino migliore e  smascherare i marpioni politici (i sofisti);  Platone e Aristotile  s’interrogheranno sulla  forma ideale di governo. Altre culture, magari altissime come l’indiana o la taoista,   hanno elaborato dottrine di liberazione metafisica (estinzione, nel Buddhismo) ma mai hanno  mirato a formare il cives,  il cittadino come partecipante   alla polis.  E’ una mancanza  culturale, questa loro,   che avevamo non il diritto, ma il dovere di trasmettere ai nuovi venuti,  proprio perché non pretende alla religione e non viola l’intimità delle coscienze e delle credenze ultime, ma punta a formare cittadinanza – cosa che serve a loro come a noi  (Gesù lo capì, per cui disse: Date a Cesare quel che è di Cesare”).  Era nostro dovere, perché non si chiudessero nel loro comunitarismo che è , forzatamente, regressivo,  quando non aberrante, poligamico, schiavista, senza carità né bontà.  Adottare la nostra cultura-identità non chiude, ma apre: qui “non c’è nulla che non sia stato sperimentato o teorizzato: dai canoni di bellezza alla scienza politica, dagli equilibri sociali all’arte (e) istituzioni che traggono forza ed efficacia da una applicazione logico-speculativa sul modello greco, che ha trovato innesto nella dottrina cristiana (non, ad esempio, nell’Islam)”.  Qui c’è una concezione della storia che le altre ‘culture’ ed etnie ignorano; la storia come “indirizzata ad una conclusione”, destino o disegno,  che “ancora un volta implica un ordine e una finalità”.

Quella che  accoglie e li  sfama è una cultura, della cui superiorità  non hanno la minima idea (anche se mica sbarcano in Arabia Saudita, perché sanno bene che lì la cultura locale non prevede l’obbligo morale  di sfamarli); il negro  appena giunto gridacchia di avere “dei diritti”  e li pretende  (come gli hanno detto i nostri militanti sociali  dell’integrazione) ma naturalmente non sa affatto che cosa sia il Diritto (romano), che gli rende qui facile la vita; anzi lo disprezza,  perché provenendo da culture   dispotiche e arbitrarie, gli sembra mollezza. Così per esempio “il cavaliere crociato”, per secoli simbolo “di nobiltà e fedeltà a una causa” (e modello di tutto l’aspetto cavalleresco, magnanimo e cortese rispettoso della donna che c’è  – o c’era – nella nostra civiltà); oggi la cultura postmoderna reinterpreta le crociate in modo negativo, offrendo questa revisione ai musulmani con cui dovremmo “mescolare la nostra cultura”;  musulmani che la cui ‘cultura’ non ha subito alcuna revisione, che ignora il  lungo percorso che qui ha portato al  pensiero critico e al revisionismo storico,  e trova le conferme delle sue convinzioni più settarie sui “crociati”  proprio nella critica sofisticata che la nostra cultura – non la sua – è in grado di produrre.

Nella pratica,  stiamo cedendo –  e diventando noi stessi più barbari. Per esempio, “l’elevata istruzione  dei popoli occidentali, grande traguardo sociale conseguito al termine di un percorso di civiltà lungo secoli”, subisce oggi “una regressione nelle istituzioni pubbliche” che vogliono adattarsi a “scolaresche fortemente multietniche”. Già “basta entrare in una chiesa per avvertire l’ignoranza che noi portiamo nei confronti dell’arte”, perché avendo abbandonato la religione cristiana, laicisticamente, non abbiamo più “gli strumenti d’interpretazione dell’80% della storia dell’arte europea”.

Uno dei paesi più ideologicamente integrazionisti è la Svezia;   quello dove è  accuratamene censurata, fin dalle classi elementari, persino ogni idea di nordicità e biondezza, per non porre una “identità”   propria,  vagamente razzista, ai nuovi arrivati multiculturali.  Concas cita una frase – francamente agghiacciante – di una esponente socialdemocratica svedese, Mona Salin: “Non  riesco a pensare cosa possa essere la cultura svedese. Credo che sia ciò che rende noi svedesi così  invidiosi degli immigrati:  voi avete una cultura, una identità, qualcosa che vi unisce. Che cosa abbiamo  noi invece? Noi abbiamo la festa di mezza estate ed altre sciocchezze del genere. Gli svedesi devono integrarsi con i nuovi svedesi”.

Quale è l’effetto di questa volontaria tabula rasa  della propria identità  per meglio “integrare”?  Nel maggio 2013,  avvennero disordini ad Husby quartiere periferico di Stoccolma abitato da immigrati di colore; si scoprì così che a Husbuy il 38% dei giovani non studia  né lavora, e che completa la scuola d’obbligo solo il 50% degli studenti, contro il 90 per cento del  comune di Stoccolma. Una  Scampìa  scandinava, un buco nero di  segregazione e  disuguaglianza sociale nel paese-modello dell’eguaglianza.

Un segreto accuratamente censurato  dal sistema, del resto. Lo ha scoperto a sue spese una giornalista svedese evidentemente oriunda, Amun Abdullahi Mohamed, ma integrata (ossia aderente alla nostra identità e a quelli che credeva i suoi principi):  facendo un’inchiesta giornalistica sulla  condizione degli immigrati, “si imbatte nel fenomeno jihadista”, che “ha costituito un efficiente sistema di reclutamento nei sobborghi”.  Uno scoop sensazionale? No:  la Radio svedese la licenzia; una celebre giornalista la  attacca personalmente, e le ricorda che “il compito della stampa è anzitutto stabilire quale informazione sia socialmente corretta e quale no”.

“Mai  il retaggio europeo è stato tanto umiliato – da se stesso”, esclama Concas.

Urge recupero identità europea.