Ritorno alla naja? Riflessioni politicamente scorrette.

di Roberto PECCHIOLI

Le presenti note sul servizio militare e l’eventualità di un suo ripristino hanno bisogno di due premesse. La prima riguarda il riconoscimento preventivo della loro scarsa utilità in una nazione che ha smarrito se stessa e non è più in grado di recepire idee o considerazioni che riguardino la difesa nazionale, oltreché l’educazione civica dei suoi figli. La seconda è il rischio che al tempo in cui il ministro degli Interni viene indagato come sequestratore di persona per aver cercato di difendere l’integrità dei confini e il diritto degli italiani di scegliere chi ha il diritto di varcarli, ogni riflessione sul tema scelto possa costituire titolo di reato. Del resto, è stato proprio il diabolico Matteo Salvini (Famiglia cristiana dixit) a sollevare l’argomento alcune settimane fa con una dichiarazione favorevole al servizio di leva obbligatorio.

Al riguardo, si è immediatamente levata l’unica voce che aveva il dovere d’ufficio del silenzio, quella di alcuni esponenti militari che hanno bollato l’idea del satanasso milanese, futuro ospite della patrie galere, come “romantica”. Un aggettivo elegante per destituirla di fondamento, ridicolizzarla e gettarla nella spazzatura delle dichiarazioni da solleone. Eppure, tanto stupida l’idea dell’ergastolano prossimo venturo non deve essere, se Emmanuel Macron la tradurrà in atti, per la Francia, già dal prossimo anno. Il servizio militare, ad esempio, è tuttora obbligatorio in Germania e in Polonia, tra le nazioni più grandi dell’Unione, per non parlare del modello di difesa territoriale svizzero.

Lo scrivente, in materia ha cambiato opinione, favorevole al ritorno della naja, dopo una giovinezza su posizioni opposte. Due righe di spiegazione del passato. Negli ultimi decenni del Novecento, il discredito nei confronti del mondo militare, il disprezzo nei confronti dell’esercito come istituzione e come universo di riferimento, con i suoi principi di disciplina, gerarchia, ordine, difesa della Patria era talmente forte che l’unica soluzione sembrava introdurne la volontarietà e la trasformazione in senso esclusivamente professionale, imitando anche in questo il modello americano. Era un modo per restituire dignità ad una funzione come la difesa nazionale, diventata indifferente al ceto politico, attaccata o ridicolizzata dal mondo culturale e da quello giovanile. Oggi la pensiamo come Matteo Salvini e come uno dei più importanti intellettuali italiani, lo psichiatra, filosofo e scrittore Claudio Risé, invocando qualche forma di ritorno al servizio di leva nella forma militare, distinta e distante dal servizio civile.

La realtà italiana, europea e occidentale è quella del degrado, della decadenza generalizzata, della vergogna imposta per la storia comune, per i sentimenti di appartenenza, per qualsiasi forma di compimento di doveri, impegno comune, ordine etico, civile, morale. Con tutti i suoi difetti, il servizio militare può aiutare a restituire carattere e educazione a generazioni che si stanno perdendo nell’indifferenza, nel disimpegno, nella ricerca del piacere e del successo individuale, flaccide o, al contrario, irragionevolmente aggressive, convinte di possedere solo diritti e nessun dovere.

Alcune sere fa ci siamo imbattuti su una rete televisiva locale in un concerto di un coro militare. Ci hanno colpito alcuni elementi; il primo era che nessun canto era recente, segno che il senso di appartenenza, di comunità e di orgoglio è agli sgoccioli. Per converso, l’entusiasmo e gli applausi del pubblico erano scroscianti, commossi, partecipi, come per un desiderio di identità che si trasmetteva anche ai telespettatori. Uno dei coristi spiegava natura, origine e significato dei vari brani. La canzone finale del concerto era la Canzone del Piave. Il portavoce, prima dell’esecuzione, ha sentito il bisogno di pronunciare una sorta di giustificazione, una scusa agli spettatori non richiesta, evocando il clima della prima guerra mondiale, l’eccezionalità di quelle vicende di un secolo fa, fino a un pacifismo di maniera, ipocrita, non sentito, rituale. Il pubblico, però, ha accompagnato la Canzone del Piave con applausi fortissimi unendosi nel canto.

Siamo al punto di scusarci dell’amore per la Patria, della memoria di un evento terribile, ma comunque epico. La canzone del Piave è quanto di più politicamente scorretto si possa ascoltare. Immaginiamo i brividi di raccapriccio delle signore Boldrini e dei preti arcobaleno, ascoltando frasi come “far contro il nemico una barriera”. I fanti, muti, marciavano per raggiungere la frontiera, sino al grido finale, liberatorio e potente “il Piave mormorò: non passa lo straniero!”.  Per i latini, “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra, ed è una verità assoluta. Il mondo non si basa sulla retorica del volemose bene, ma sui rapporti di forza, chiunque non sia in grado di difendersi è preda della violenza e dell’aggressione altrui. Ma non si può, non si deve dire, bisogna vergognarci di noi stessi, applaudendo falsi profeti.

Nessuna retorica sui 600 mila italiani morti, sui milioni di ogni nazionalità, nessuna stupida mistica delle trincee, che furono un orrore, o giustificazione di un massacro in cui è morta l’Europa, fisicamente e moralmente. Ma il nemico, vivaddio, esiste, anche se non si chiama più Austria; esistono le frontiere, con buona pace delle anime belle che non vedono ciò che è chiaro a tutti, ossia le differenze tra i popoli e le civiltà. Esiste lo straniero, cioè l’estraneo, che non va odiato né schiacciato, ma conosciuto, riconosciuto e rispettato nella distinzione.

Ed esistiamo (ancora) “noi”, con i problemi di un popolo in discesa, i cui unici valori sono un individualismo astratto, l’edonismo sfacciato, la smania di consumo, la confusione in cui sono saltati tutti i punti di riferimento e nulla ha senso. Chi ne fa le spese sono le ultime generazioni, i troppi che non lavorano e non studiano, immobili, vittime del mercato padrone, di una vita da consumare giorno dopo giorno senza un obiettivo, prigionieri di stili di vita confusi, disorientati, anticamera dell’ansia, della depressione, del ricorso a farmaci o a paradisi artificiali. Contemporaneamente fragili e deboli, subiscono una spinta potentissima alla colpevolizzazione di ogni forma di orgoglio, forza, temperata aggressività, eccetto quella da spendere nel cinismo della competizione per un equivoco “successo” amorale senza esclusione di colpi.

Il servizio militare dell’Italia repubblicana, metà democristiana metà comunista, era circondato da disprezzo e discredito. I professionisti delle armi persero ogni prestigio sociale, bollati come guerrafondai o direttamente come stupidi (i meno giovani ricorderanno la macchietta del colonnello Buttiglione). Il tempo della naja, come gli italiani hanno sempre chiamato il servizio militare, veniva visto da quasi tutti come un periodo inutile, un’interruzione del percorso della vita e della maturazione. Spesso era vero, tra raccomandazioni, scarsa attenzione all’addestramento fisico e morale, la noia di lunghe giornate vuote in attesa della libera uscita, la “stecca” su cui segnare alla sera un giorno in meno al congedo.

Ciononostante, in modi diversi, noi crediamo che oggi non sarebbe inutile il servizio militare per la formazione dei giovani italiani, una bildung rinnovata all’altezza dei tempi. Contemporaneamente, è possibile che la leva possa giovare allo spirito, una volta si sarebbe detto al morale dell’esercito e della nazione intera. Abbiamo respinto la possibilità di un servizio “civile”. Al di là dell’acquolina in bocca di tante associazioni, vere e false cooperative interessate a sfruttare l’impegno generoso dei giovani, la motivazione è netta: c’è necessità di recuperare virtù, attitudini, comportamenti “militari”.  Nessuna nazione-caserma, ma per rimettere entusiasmo nella vita di tutti, giovani e adulti, occorre partire da un ordine nei comportamenti fatto di addestramento fisico e mentale, a partire dal rispetto degli orari, della cura di sé e di ciò che ci è affidato, dalla partecipazione a riti e momenti collettivi, alla condivisione della fatica, l’accettazione serena delle difficoltà e dei ruoli, fino a scoprire il proprio posto nei ranghi.

Più urgente ancora è reagire al processo di domesticazione, come avrebbe detto Konrad Lorenz, tanto avanzato nell’uomo occidentale, che si è spinto sino alla rimozione per stigmatizzazione di ogni pulsione aggressiva. Il ciclo discendente della civilizzazione fu acutamente individuato da Giambattista Vico nella Scienza Nuova “Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. “La fase presente è descritta da Claudio Risé con parole dure come pietre: “bollando come male ogni forma di aggressività, il manierismo politicamente corretto ha impedito di riconoscere e educare aspetti del tutto naturali della vita, con il risultato di moltiplicare esplosioni di violenza incontrollata”. Negare il conflitto genera confusione, sconcerto e diseduca alla realtà. Non è patologia, ma accettazione della vita, equilibrio.

La disciplina è anche autocontrollo e riconoscimento di una corretta gerarchia di principi e valori, in cui si ristabilisce l’esistenza di doveri verso se stessi e la comunità come premessa per l’esercizio di diritti. L’ordine crea chiarezza, rispetto della forza vitale e allontana comportamenti sregolati, eccessivi, autodistruttivi. E’ altresì un’abitudine a mantenere il senso del limite, del decoro e della dignità personale da insegnare a tutti come stile di vita.

Un esercito formato esclusivamente da professionisti non serve a questi fini. Vi prevarranno rapidamente, insieme agli strati più bassi della società, personalità incolte, violente o borderline, come sta accadendo nell’esercito americano, ovvero si dovrà fare ricorso a stranieri del tutto disinteressati allo spirito della nazione. Così accadde a Roma al tempo di Caracalla, come all’epoca di Nicolò Machiavelli che vide l’Italia percorsa da eserciti stranieri in lotta, formati da mercenari dediti al saccheggio e alla violenza, e scrisse pagine importanti sulla superiorità degli eserciti di popolo.

Oggi viviamo in una società che Lorenz definì di allevamento, di consumatori compulsivi e indisciplinati. L’esercito può costituire un argine alla prevalenza del tipo umano chiamato da Julius Evola quinto stato, la suburra urbana volgare, brutale, priva di sentimenti, dedita al puro istinto.  La caratteristica che tale umanoide condivide con i rampolli della famiglie post borghesi è il narcisismo, un male che la vita militare cura efficacemente con l’attività, la gerarchia, la disciplina, il senso comunitario, la potente struttura simbolica.

C’è ancora di più, ed è il ritorno indispensabile di concetti come l’onore, il senso di sé di fronte agli altri ma innanzitutto in riferimento al personale universo di valori, la forza messa a disposizione degli altri, l’ardimento, ossia il coraggio fisico unito alla tempra morale. Inoltre, l’esercito insegna che purtroppo non tutti i conflitti possono essere risolti con il dialogo, questo insopportabile mantra dietro il quale si nascondono imbrogli, viltà, opportunismo, tradimenti. L’esercito prepara ad affrontare le evenienze più difficili, e costituisce un’efficace palestra di fortezza comportamentale. Incidentalmente, obbliga anche a curare l’igiene personale, tenere in ordine i propri spazi e le proprie cose, con benefici per quel minimo di decoro civile di cui avvertiamo la perdita. La stessa possibilità della guerra, messa realisticamente in conto, è un antidoto potente contro la violenza aggressiva, la tracotanza, l’errato giudizio sugli altri, la sopravvalutazione di sé.

Purtroppo, ogni considerazione svolta vale solo se il nostro popolo vuole continuare a essere tale, mantenere un posto nel mondo, ambire al futuro. Le speranze sono poche, le prospettive buie. Non sarà la naja a salvare la nazione, ma potrà forse ridarle un briciolo di vitalità attraverso i valori permanenti, le “idee senza parole”. Forse. Nella speranza che avesse ragione un italiano strano e discutibile, Curzio Malaparte, ad affermare che non tutto è perduto finché tutto non è perduto.

ROBERTO PECCHIOLI