IN PRINCIPIO ERA L’AZIONE”. FERMATI, FAUST !

di Roberto Pecchioli

Parte I – LA SCONFITTA DI GOETHE.

Molti anni fa chi scrive aiutò per dovere professionale una mite, anziana signora svizzera calvinista nel disbrigo delle pratiche di importazione in Italia di libri destinati alle comunità protestanti . La  signora fece dono di una copia dell’Evangelo ( la prima E è essenziale), in un’edizione ad uso dei pastori protestanti. Dopo un’ occhiata distratta all’introduzione, tesa all’esaltazione delle figure di Lutero e Calvino, lessi con un certo turbamento l’incipit del Vangelo di Giovanni: “In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”. Troppo giovane per cogliere il significato della differenza tra il Verbo della tradizione cattolica e la Parola protestante, sconcertato lasciai l’ Evangelo della buona signora in un cassetto, donde sarà probabilmente finito al macero.

Qualche anno dopo, leggendo il Faust di Goethe e con maggiore conoscenza della figura storica, religiosa e personale di Martin Lutero, traduttore in tedesco della Scrittura, mi tornò in mente quel piccolo episodio personale. Dopo i due prologhi, in teatro ed in cielo, il capolavoro della letteratura germanica presenta il monologo di Heinrich Faust, tornato a casa turbato dalla presenza dietro di lui di un cane barbone (Mefistofele sotto mentite spoglie). Si tratta della celeberrima meditazione sul testo di Giovanni. “In principio era la Parola”, Faust è insoddisfatto, medita profondamente, non può accettare un concetto così banale, frutto della traduzione letterale del greco “logos” da parte di Lutero ed ha l’ispirazione : in principio era l’Azione, die Tat in tedesco.

L’arte, come sempre, sintetizza in un attimo ciò che all’uomo comune, ed anche al filosofo, richiede anni di meditazione: il principio dell’uomo europeo non può che essere l’azione, il movimento continuo, croce ed ossessione di una creatura febbrile, votata all’attivismo, alla corsa inesausta, alla scoperta continua, all’ansia di andare oltre, superare ogni limite, indagatore e predatore della natura, del mondo ed anche di se stesso. Il Faust di Goethe, figura archetipica di mago, scienziato, alchimista disposto a cedere l’anima per oltrepassare la linea, diventa il simbolo dell’europeo che, come l’Ulisse dantesco fa dei remi le ali al folle volo superando con Diomede le colonne d’Ercole, ed esalta come fine, un secolo prima di Marinetti, ” il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa”.

Eppure, in principio era il Verbo, e non la semplice Parola, ovvero la pienezza trascendente , l’atto puro che chiamiamo Dio. Solo un monaco di incompleta cultura come Lutero poté tradurre Logos con parola. Goethe, evidentemente, ne era conscio, ed il suo eroe non poteva accontentarsi di un significante ed un significato tanto poveri. Scartata la forza ( kraft), niente di meno che l’azione riuscì a convincere l’inquietudine di Faust. Sapere e capire tutto, tutto provare e dominare, solo un’azione inesausta poteva essere all’altezza di un tale uomo, insoddisfatto delle deboli conoscenze della medicina, della teologia, della scienza e dell’alchimia. Oswald Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente, chiama faustiano l’uomo europeo assetato di potere, conoscenza, novità, individuo “assoluto”, nel senso di sciolto da ogni limite, dimentico di qualunque misura.

Di azione in azione, Faust prova, con l’aiuto di Mefistofele, i piaceri della carne, quelli dell’amore e della conoscenza. Goethe immagina per lui la redenzione e la salvezza finale, prima attraverso la figura di Margherita, l’amore puro, che morirà per lui, e, nella seconda parte dell’opera, di Elena, rappresentante dello splendore ideale della classicità. Questo nella finzione artistica. Ma il Faust autentico e vivente, quello che dopo la grande stagione del Medioevo, e con maggiore forza negli ultimi due secoli è il simbolo dell’uomo europeo, non vende più l’anima al Diavolo, semplicemente la ignora, non sa di averla, non si prende più neppure la briga di negarne l’esistenza, e va avanti, corre, agisce, o meglio ormai è agito da quelle medesime forze che ha suscitato ( la Scienza, la Ragione, la Tecnica, il Progresso, il Piacere).  Come il treno senza macchinista che corre su binari di cui ignora la fine, immagine della modernità disegnata da Massimo Fini, la sua velocità aumenta costantemente ed è ormai certo che andrà a sbattere contro un muro, oppure precipiterà in una scarpata . L’evento sta per accadere, magari è già in atto, motus in fine velocior .

La triste fine di Faust uomo d’Europa non è solo la disfatta di una superba cultura degradata in civilizzazione, ma è anche la sconfitta di Johann Wolfgang Goethe, il gigante delle lettere tedesche, ma anche filosofo della storia, scienziato ed epistemologo. Goethe cercò invano di reagire agli esiti dell’illuminismo; egli considerava la natura ed il mondo un organo, un grande tutto da armonizzare. Polemizzò con il principio etico geometrico di Spinoza in voga nella Germania del tempo, e gli fu estranea la concezione tassonomica e meccanica della scienza derivata dal pensiero di Newton e dalla sistematica della biologia di Linneo , con il suo metodo di classificazione degli esseri viventi. Fu scienziato e filosofo, e nella Teoria dei Colori tentò di spiegare le differenze cromatiche in base alla mescolanza della luce con l’oscurità, in polemica con Newton. La sua originale morfologia della natura lo portò a convincersi che la vita intera del creato è un processo di metamorfosi per cui, attraverso graduali variazioni di una forma, si giunge alla diversità di organi e individui.

Non poteva accettare che l’intera natura fosse vista, studiata e trattata come un meccanismo, e la sua concezione estetica lo portò a trattare  arte e natura come elementi connessi. L’arte rivela la verità della natura non imitandola, ma producendo qualcosa di più alto, che diventa il simbolo attraverso cui si coglie per intuizione l’universale nel particolare. Una concezione organicistica, legata tra l’altro all’interesse di Goethe per il mondo orientale, che rammenta un po’ l’idea del Tao, lo ying e lo yang che si fondono armoniosamente per formare l’intero, il totale, caratterizzato da un ordine ed un principio di flusso costante.

Faust, al contrario, è figlio ed erede di Bacone e Cartesio. Vuole tutto, pretende tutto , ha fame e sete non solo di sapienza, ma più ancora di sperimentare, provare su di sé gli esiti della conoscenza. In termini biblici, è Adamo che consuma voracemente i frutti dell’albero del bene e del male. Nel linguaggio dei greci, è l’uomo privato della phrònesis, della prudenza, convinto che la sua specifica areté, l’attitudine di ogni essere a esplicare la sua particolare virtù, si compia nell’oltrepassare, nello strappare ogni velo della conoscenza, e mordere, godere, consumare immediatamente i frutti di quella consapevolezza sempre nuova.

Tuttavia, se l’universo non è che un meccanismo, una macchina che si può smontare fare a pezzi, decostruire e rimontare a piacimento, il principio ed il fine è l’azione, unici criteri veritativi restano l’esattezza  e la funzionalità . Buono, allora, è “ciò che serve” e lo scopo non può che essere lo sfruttamento. Nell’ultimo secolo e mezzo, poi, la storica vittoria del pensiero scientifico ha condotto alla supremazia incontrastata della Tecnica, ossia di una concezione basata del “come” che ha destituito di senso e direzione l’agire, ed abolito la domanda sui perché e sul significato morale di ciò che si fa. Azione, dunque, altro non è che scoprire sempre nuovi meccanismi per utilizzarli, servirsene, ed abbandonarli sul ciglio della strada dopo l’uso o quando nuovi modelli di macchina li rendono vecchi, obsoleti, inutili.

I mezzi si trasformano in fini, e dominano sull’uomo che, pure, è l’unico essere che abbia portato alla luce le leggi della natura. Il padrone della Tecnica è dominus dell’azione, ed il suo esito, come capì per primo Martin Heidegger, è la sconfitta del pensiero: pensiero che non pensa, ma fa, agisce ed in ultima analisi, è agito in una corsa il cui esito è il nulla. In questa inesausta corsa agonale ed ansiogena, azione faustiana per eccellenza, l’obiettivo è come l’orizzonte: una linea immaginaria, che si sposta continuamente in avanti  come l’osservatore .

Di qui la svalutazione di ogni valore, l’indifferenza verso tutto ciò che non è calcolabile, misurabile e dunque, non serve. La prima vittima dell’uomo faustiano si è rivelata l’arte e sua sorella l’estetica. La guerra di Goethe si conclude con una bruciante sconfitta. L’affanno per il sempre nuovo hanno condotto ad ogni sperimentalismo, alle più audaci bizzarrie, ad un soggettivismo spesso malato, sorretto dalle interessate menzogne del mercato, ad una progressiva squalifica della bellezza, sino al divieto brutale. Osserviamo l’arte prodotta dai cascami dell’uomo faustiano. La musica atonale, ad esempio, da Schoenberg in avanti, prescritta dal più colto, forse, tra i pessimi maestri, Thomas W. Adorno. In pittura, tutto si potrà dire del dipinto di Picasso Les demoiselles d’Avignon, tranne che sia “bello”. La secessione viennese , dopo Klimt, produsse l’angosciante ritratto scarnificato , scavato e pressoché senza arti di Egon Schiele, che pure era un genio dalle grandi doti tecniche. Le varie avanguardie hanno ordinato la fine della raffigurazione delle sembianze umane e naturali, dal Nudo che scende le scale di Duchamp sino a Sidney Pollock, alle linee di Rathko o di Ljubov Popova.

Nell’ architettura, arte che vive nella quotidianità di ciascuno, abbiamo assistito alla proibizione di Adolf Loos per l’ornamento, che arrivò a considerare un delitto. Sul solco della secessione viennese, Gropius e mille altri hanno costruito edifici funzionali ma semplicemente brutti; la proibizione della bellezza  si è propagata come parola d’ordine irrinunciabile di un mondo avanzante a passo di corsa .

L’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso, affermò Loos. Il suo argomento fondamentale fu che la decorazione era una forma di schiavitù della pratica, esercitata dal disegnatore sull’artigiano per mettere in scena la nostalgia del passato che occulta le “vere forme della modernità”. Nota fu anche la sua avversione per la musica di Beethoven , in particolare per il Tristano e la Nona Sinfonia.  Per la gioia di molti committenti, felici del risparmio, decorazioni, ornamenti e linee armoniche sono sparite a favore della geometria euclidea, o, come nel grattacielo a vite di Santiago Calatrava a Malmoe o nelle case danzanti di Gehry di Praga, di quella frattale. Le spese, peraltro, non sono diminuite, per arricchire le moderne “archistar”.

Dove sia approdata l’architettura è sotto gli occhi di tutti. Un grattacielo di Frank Gehry può essere indifferentemente a New York, Dubai o Pechino, ed il ponte veneziano di Calatrava, paradossalmente, non serve, giacché il passante vi scivola. Le Corbusier, perfetto aedo della modernità, chiamava la casa “macchina per abitare” e progettò una nuova Parigi con la distruzione del lavoro di Haussmann e l’ abbattimento degli Champs Elysées, sostituiti da una autostrada urbana fiancheggiata da grattacieli alti duecento metri ciascuno. Sulla desolata bruttezza delle periferie popolari non è il caso di insistere, Corviale a Roma, Scampia a Napoli, lo Zen di Palermo sono incubatrici di degrado morale, criminalità e sradicamento sociale. L’italiano Massimiliano Fuksas ha realizzato di peggio, con l’angosciante cubo grigiastro “ a vista”,   che il vescovo di Foligno ha improvvidamente consacrato a chiesa, nell’Umbria che fu bellezza, armonia, spiritualità. Azione inesausta quanto funesta, sperimentazione tragica nel corpo vivo della natura, degli uomini e delle loro città.

Il colonnato del Bernini che si apre su San Pietro a Roma è bellezza allo stato puro, ma è anche narrazione, spiegazione. Ciascuno capisce che la grande basilica accoglie, abbraccia, stringe insieme. La cosiddetta arte moderna ha bisogno continuo di chiarimento, di sedicenti periti che ne indichino intenti, motivazioni, significati. L’arte vera spiega, illumina, non ha bisogno di improbabili esegeti, di sapienti a fattura che rimediano alla nostra ignoranza. Dispersa l’arte, proibito perseguire la bellezza in nome dell’azione e della funzione, restano i detriti. Si fa solo quel che serve, come il design seriale dalle poche linee essenziali, riproducibile a milioni, secondo le prescrizioni dell’economia di scala. Johann Wolfgang Goethe scrisse saggi sull’arte che restano modelli insuperati di interpretazione estetica contrapposti a quelli dell’idealismo e del positivismo suoi contemporanei.

La rivoluzione industriale e scientista ha sconfitto sul campo il grande di Weimar nel suo generoso tentativo di rigenerazione. L’Occidente ha cancellato tutto in nome del progresso e dell’autonomia dell’uomo, declinati nella forma della corsa forsennata e del soggettivismo più insensato. Restano le macerie, insieme con una debole fiammella, la speranza prospettata da Hoelderlin, secondo cui dove cresce il pericolo, può crescere anche ciò che salva . Siamo al punto in cui l’artista non ha più una qualifica ed un oggetto preciso: Joseph Beuys è definito dai manuali scultore, illustratore e “performer”. Che cosa significhi il termine per i sapienti della critica è difficile saperlo, ma l’aggettivo, in sé, fa rifermento alla capacità  di produrre “prestazioni”. Anche in neo-italiano, performante è ciò che realizza pienamente una specifica prestazione, un’automobile o un elettrodomestico. L’azione fine a se stessa è “performante”….

Il Faust letterario, infine, salva la sua anima, al termine di esperienze intense e drammatiche. Nell’affresco goethiano, chi lo salva è la Cura. Egli ha conservato la sua umanità grazie alle donne che ha amato, Margherita ed Elena, ed il suo proponimento finale è “Potessi, o Natura, starti innanzi come uomo e null’altro, allora varrebbe la pena di essere uomo.”  Ed ancora, dialogando con la Cura, deplora quel passato in cui non ha fatto che correre per il mondo, “desiderato e raggiunto il desiderato, ed ho nuovamente desiderato e sono passato attraverso la vita come un turbine”.  Quel turbine che è l’azione, die Tat, ha reso tutti noi uomini faustiani, degni del tramonto per stanchezza, esaurimento, indifferenza al Bene, al Vero, al Bello.  Perché la corsa, la “Vita activa” non ammette ripensamenti, soste, cambi di marcia. Come in autostrada, non si torna indietro, e ci si può fermare solo in luoghi dedicati, rigorosamente per riempire nuovamente il serbatoio dell’automobile, la “macchina” per antonomasia, e consumare pessime cose a caro prezzo.  Avanti!, ma non è la testata e la parola d’ordine di un socialismo umanitario, è un percorso, quello dell’azione, che finisce per riportare al punto di partenza.

Aristotele, fondatore del pensiero occidentale, sulle piste di Socrate e Platone decretò la superiorità della contemplazione sul puro agire, inserendola in un circuito le cui linee di vetta richiamavano al bene ed alla virtù. Non è per caso che un pensatore come Alasdair Mc Intyre abbia provato a ritessere una tela comunitaria oltre l’individualismo moderno, intitolando la sua opera maggiore Dopo la virtù, questa grande espulsa dall’orizzonte occidentale dei due secoli trascorsi. Pressoché coevo di Aristotele, Confucio, dall’altra parte del mondo, considerava se stesso nient’altro che il continuatore della tradizione  cinese, formulava analoghe diagnosi, elevando il pensiero , la riflessione ben al di sopra dell’agitazione. All’imperatore che gli chiese quale dovesse essere il primo atto di un saggio governante, rispose dare il giusto nome alle cose, dunque osservare, valutare, per scoprire l’essenziale che permane.

Due millenni e mezzo dopo , in un celeberrimo libro oggi letto soprattutto dai bambini, anche Antoine Saint Exupéry concluse che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Raggiungerlo, attingerne l’intuizione, è quindi compito del pensiero, non dell’azione e del frastuono che l’accompagna. L’essenziale, poi, è per definizione non misurabile con i criteri della scienza pratica, talché ricercarlo diventa esercizio, inutile, ozioso, privo dello scopo concreto del trionfante pragmatismo nostro. René Guénon intitolò il suo libro più importante Il regno della quantità ed i segni dei tempi.

Parte II    L’ERA DEL SOGNO DEL PICCOLO HANS.

 

Se ci fosse chiesto di raffigurare l’uomo faustiano, campione dell’azione, ricorreremmo all’immagine di qualcuno affannato attorno ad un globo con in mano un metro, un compasso ed un computer . Il punto è che dopo aver misurato ogni cosa, descritto , definito e classificato qualunque creatura presente sulla terra, a partire da se stesso, aver intrapreso viaggi, organizzato imprese, realizzato innumerevoli scoperte a scopo di dominio, sviscerato i meccanismi di funzionamento delle forze naturali, aver preteso di fare esperienza di qualunque possibilità materiale, Faust è insoddisfatto, inappagato quanto all’inizio della sua avventura. Anzi, è preda dell’angoscia di chi sa che, di fatto, non padroneggia davvero alcuna forza, e il filo di cui brandisce orgoglioso un capo si spezza e si divide in troppe parti.

Nell’invenzione poetica, Heinrich Faust promise di cedere l’anima a Mefistofele, daemon ex machina, allorché, finalmente felice, avesse pronunciato la fatidica frase rivolta all’attimo: “Fermati, dunque, tu sei così bello !” Comprese tuttavia che l’attimo, nell’azione, non si può fermare e neppure idealizzare. Dopo quell’attimo, mille altri se ne pretendono più belli, tanto che perfino Mefistofele sembra avere pietà della sua disfatta: “nessun piacere lo sazia, e non gli basta felicità alcuna e così continua ad inseguire forme mutevoli.” Nella realtà, siamo arrivati a scavare nel profondo di noi stessi, negli angoli più bui dell’umanità, convincendoci che lì c’è la verità e la motivazione dei nostri guai di creatura che rifiuta di essere tale.

Sigmund Freud, nella Vienna ribollente della finis Austriae, lavorava alla nuova scienza della psicologia e, insoddisfatto, studiando un bimbo di cinque anni, il piccolo Hans che aveva terrore dei cavalli dai quali veniva morso nei sogni, pervenne ad una conclusione che ha segnato l’ultimo secolo della vicenda dell’uomo occidentale. Secondo il medico ebreo viennese, il bimbo, che dopo la nascita della sorellina aveva notato in lei l’assenza del pene, era entrato in competizione sessuale con il padre per il “possesso” e l’amore della madre. Di qui il sogno di Hans, in cui i cavalli simboleggiano il padre deciso a colpire e punire il figlioletto rivale. In un mondo privato dei simboli, ma ansioso di segni, ridotto ai calibri del geometra ed alla rigorosa determinazione delle quantità, l’unico simbolo ammesso divenne quello freudiano dei sogni interpretati secondo la nuova teoria, chiamata psicanalisi.

L’uomo fu ridotto al suo inconscio in lotta con i principi del mondo esterno ( Super Io), l’etica stessa ed i sentimenti morali definiti sublimazione di istinti erotici sotterranei, il principio non fu più l’azione, ma, giù in basso, la libido, il principio di piacere. Nacque un Faust nuovo, sotterraneo, abitatore delle fognature dell’animo, privo di una vera coscienza, posto in grado di sfuggire al principio di responsabilità, giacché ogni sua azione era diventata, coattivamente ed inevitabilmente, la risposta a spinte o pulsioni incontrollabili in quanto inconsce. L’arma finale, la bomba definitiva che rendeva superflua l’azione stessa di Mefistofele, il delitto perfetto contro il Bene ed il Male. La stessa Azione diventava ciò che è ancora: inerzia, riflesso condizionato, istinto da sublimare attraverso la potenza della Tecnica.

Nel frattempo, l’ideologia della crisi pervadeva tutti i domini della cultura e dell’arte. Solo la Scienza sembrava trionfare. Un paio di eventi hanno cambiato la prospettiva, ma non ancora mutato in profondità il paradigma. Se nella scienza Paul Feyerabend ha celebrato l’assenza di metodo e la fisica ha in parte superato Newton attraverso la teoria dei quanti e lo studio dell’infinitamente piccolo, il positivismo è ancora padrone del campo nella biologia di Darwin, posta a fondamento dell’ideologia liberalcapitalistica nella sua pretesa del mercato libero, a prevalenza del più forte ed adattivo. L’arte continua a ritrarre sogni malati, talora autentiche follie ed a negare all’uomo lo statuto di creatura: o è il Dio di se stesso o è l’incarnazione del male e delle forze infere.

Ci sono ormai due Faust, uno che prosegue superbo il suo cammino di dominatore sino a teorizzare non l’Olteruomo, ma il Transumano, e il suo gemello che si parla addosso, e osserva con disperazione non più il suo ombelico, ma la propria oscurità disperante dal lettino dello psicoanalista. Al primo, occorre ricordare almeno i teoremi di Goedel, il grande logico amico di Einstein. Con il primo dimostrò per via matematica, dunque perfettamente galileiana, interna al paradigma vigente, l’incompletezza delle grandi teorie formali, che sono sì vere, ma dimostrabili solo attraverso formule o linguaggi non dimostrabili che all’interno del  sistema stesso. Esse non sono dunque in grado di fornire una descrizione esaustiva di ciò che è vero. L’altra grande scoperta del matematico moravo fu che nessuna teoria può autofondarsi, ma ognuna deve ricorrere ai fondamenti di una teoria più potente.

Al secondo Faust, erede del piccolo Hans, prigioniero del fango di una stranita umanità notturna totalmente priva di ordine, speranza e responsabilità , dobbiamo far presente che la ragione umana è in grado di riconoscere il bene ed il male, ed ha il potere di scegliere. L’albero del bene e del male esiste e, comunque la si pensi in materia spirituale o religiosa, è il luogo in cui vive la scintilla di grandezza e di nobiltà dell’uomo . Basta dunque con la corsa forsennata verso gli istinti, a quel misero carpe diem che non ha più alcunché della dignità di Orazio, ma è quell’attimo che non si può fermare e che, con buona pace di Faust, non è poi tanto bello. A ben guardare, non vi è nulla di più pessimistico del cogliere l’attimo, niente che esprima maggiore sfiducia nell’essere umano, minore speranza nelle virtù che possiede, da scoprire nella riflessione ed esercitare nell’azione, ma solo se si convince che in principio non era la semplice parola, o l’equivoca azione, ma il Verbo, ossia che esiste qualcosa di superiore, di Altro, per alcuni immanente, per molti altri trascendente, che orienta, dà senso e direzione.

A questo richiamava Johann Wolfgang Goethe, ed è incredibile che un artista di tale spessore e dagli interessi tanto vasti sia così poco letto da noi, se non per I dolori del giovane Werther e per gli echi del suo Viaggio in Italia.

FERMATI, FAUST !

Nessun pensatore meglio di Friedrich Nietzsche ha riassunto la corsa dell’Azione. La volontà di potenza – wille zur macht–  è l’immagine di Faust. Ciò che il solitario di Sils Maria capì nell’ultimo scorcio del XIX secolo è che l’uomo europeo moderno è realmente una corda tesa tra la bestia e l’Oltreuomo. Per motivi opposti, a mo’ di polarità che si respingono ed attraggono nel medesimo attimo, è wille zur macht tanto il delirio di onnipotenza che spinge “avanti” , che il “cupio dissolvi” verso il basso dell’uomo psicanalitico.  Sempre lo stesso titanico correre a perdifiato; da un lato per conseguire sempre nuovi obiettivi di dominio e conoscenza, il compulsivo porre nuove bandierine sulle vette di potenza dell’Uomo-Dio, dall’altro per togliere da sé le responsabilità e le conseguenze dell’Azione. E’ colpa delle pulsioni, sono gli istinti, non è riuscita la proiezione, non è avvenuta la sublimazione, l’Es ha vinto ancora.

Per fortuna negli ultimi vent’anni la psicanalisi ( e soprattutto l’idea di uomo che esprime) ha subito sconfitte ed altolà da parte di una scienza più rigorosa, ma il danno è fatto, specie negli Stati Uniti , dove il regno freudiano si è imposto sin dalla fine degli anni Trenta del Novecento per poi propagarsi e dilagare nell’Europa occidentale. Persino il diritto penale è stato attraversato da un ciclone: come si possono perseguire i delitti se gli autori si sono convertiti in semplici agenti esecutori dell’ inconscio, privo, ovviamente, di personalità giuridica ? Con una torsione parareligiosa, anche il peccato cristiano, per essere tale, necessita di “piena vertenza e deliberato consenso”. Ma il giudice è un altro, l’Altro per eccellenza.

Il relativismo etico qui sconfina nel nichilismo, ed ancora una volta il primo a comprenderlo fu il figlio del pastore protestante Nietzsche, che sperimentò su di sé la drammatica solitudine dell’uomo lasciato solo di fronte ad un Dio lontano e sostanzialmente inutile. E’ l’Azione come scopo a sfociare inevitabilmente nel nulla. Ezra Pound scrisse di amare le idee che diventano azioni, e non saremo noi a screditare la volontà che cambia il mondo in nome della responsabilità e della speranza. Se tuttavia l’azione non è preceduta  dalle idee, non è altro che frastuono, vagabondaggio, gara di velocità.

L’altro Faust cerca di sfuggirvi esiliandosi dalla realtà. Fautore più o meno consapevole di una isterica volontà d’impotenza, agisce nel senso di distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino. Di qui la negazione di ogni principio ricevuto, l’orrore per l’autorità, la corsa forsennata a negare le identità. Quella del popolo cui appartiene e dei valori in cui esso si è riconosciuto, all’inizio, ma poi, sempre più in basso, fino al disconoscimento dell’identità sessuale . Dio li fece maschio e femmina, ma si sbagliava, adesso siamo arrivati noi a mettere le cose a posto, e comunque Dio non esiste . Anzi, poiché Dio esiste e sono io, deciderò da me chi sono, e la mia scelta vale solo per oggi. Domani si vedrà. Non ho voluto padri, li detesto perché mi hanno generato a loro immagine, mi hanno imposto un nome e attribuito un sesso, o forse un   genere, mi hanno cresciuto in una certa cultura senza chiedere il mio permesso . Ergo, non voglio figli, o, se proprio l’istinto, o l’orologio biologico premono su di me ( ma quale “me”, l’Ego, l’Es, il Super Io o che altro ?) me li posso procurare sul mercato, pagando, scegliendo, agendo .

Una corsa verso il basso che non sembra conoscere, in Occidente, alcuno stop. La stessa eugenetica è una vergogna se viene dai nazisti, ma una moderna opportunità se rivestita dall’aura del progresso scientifico e dell’apertura al nuovo che avanza a passo di corsa. Due nichilismi si incontrano nell’Azione e, prosaicamente, nella Tecnica dominata dal Mercato. Sullo sfondo, l’ io minimo del narcisismo di massa, della sazietà di chi, come il Trimalcione del Satyricon, terminate le gozzoviglie, si provoca il vomito per poter ricominciare. Lasciateci in pace, invocano i narcisisti “agiti”, vogliamo, dobbiamo, ricominciare ogni giorno. Del resto, che faremmo, se accettassimo l’angoscia , il timore e tremore di chi si guarda attorno, si sofferma, riflette, e, orrore massimo, contempla e si ferisce gli occhi con il Nulla?

Il Faust letterario è salvato dalla Cura. La scena relativa, potentissima ed evocatrice fu scritta forse nel 1825, da un Goethe ormai vecchio ( nacque nel 1749 a Francoforte sul Meno, oggi patria dei banchieri centrali europei, ed aveva dunque superato i 75 anni) rammenta il Macbeth scespiriano che incontra le tre streghe nella brughiera scozzese ( “Bello è il brutto, e brutto il bello”, il rovesciamento dei valori per brama di potere ) e l’ Eneide virgiliana, allorché Enea scende all’inferno e vi incontra le figure del dolore, della cura, della vecchiaia ed altre.

Solo la Cura può entrare nella casa di Faust. Egli sta infatti rinunciando alla Magia ( oggi diremmo alla Tecnica ed alla Ragione scientifica) e rientra in ciò che è semplicemente umano. La sua ansia lancinante di libertà si rivolge ora contro ciò che ha evocato e preteso da Mefistofele; d’ora in poi crederà solo nella sua qualità di uomo , e nella corrispondente volontà , natura e Cura. E’ curioso che il vocabolo tedesco “sorge”, cura, contenga una potenza descrittiva ed un significato che si perdono nella nostra lingua. Ci aiuta, al di là delle acrobazie verbali di cui fu criptico maestro, Martin Heidegger. Anche per lui la Cura ha un profondo significato: essa è, addirittura, ciò che determina “l’essere dell’esserci”. Lontano dalle oscurità tanto amate dal pensatore di Messkirch, la cura è la chiave del nostro concreto stare al mondo . Potremmo, con semplicità, chiamarla l’apertura agli altri, l’umiltà dinanzi al nostro limite ed insieme la speranza e la volontà.  Principio speranza e principio responsabilità, con un salto che ci fa incontrare i mondi diversi e contrapposti di Ernst Bloch e Hans Jonas.

Nel 1937, il materialismo nazionalsocialista fu affrontato da Papa Pio XI con l’unica enciclica scritta in tedesco, “Mit Brennenden Sorge”, con bruciante preoccupazione, cura.  Oltre le distinte posizioni esistenziali o religiose, davvero la cura descrive un’attitudine che contrasta e sconfigge sia i diversi materialismi sia l’orgoglio, la protervia, la superbia dell’uomo –Dio, quello che definiamo faustiano sulle tracce della cultura del tramonto.

Il problema del nostro tempo è che, a differenza dell’epoca di Goethe, la strada è divenuta deserto, e non c’è più bisogno della scommessa di Mefistofele con Dio per acquisire le anime.  Sono anime morte gli uomini di questa triste stagione della storia, non come i poveri contadini servi delle gleba del romanzo di Gogol, ma atomi rinchiusi nella volontà di potenza condannati ad un moto perpetuo, impauriti dalla sosta per prendere fiato, prigionieri di desideri che diventano pulsioni che non sanno o vogliono davvero padroneggiare dopo l’abolizione del bene, del male, del limite e l’esaltazione dell’Es. Il ruolo di chi vuol prendersi cura diventa allora quello di conservare ciò che è permanente, in ossequio ad un’intuizione di Nikolaj Berdjaev, per il quale il conservatore non è colui che guarda all’indietro, ma chi preserva dallo scendere in basso.

Persino Heidegger , tutt’altro che religioso, concluse che “solo un Dio ci può salvare” . Forse può essere sufficiente , almeno sul piano individuale e personale, fermarsi, e finalmente avere Cura: innanzitutto di se stessi, per ricostruire dalle macerie . Ma per ricostruire, occorre un progetto, una mappa, una nuova cartografia.  Anche su questo piano, il Goethe sconfitto può offrire molto, a volerlo ascoltare. Del resto, solo la bellezza, quindi l’arte, l’armonia, la sinfonia organica, la ragione aperta al trascendente potrà, forse, salvare il mondo. Era la convinzione dell’Idiota, quel principe Myshkin attraverso il quale, nel dialogo con il nichilista e materialista Ippolit , parlava a chi sapesse ascoltare un altro grandissimo dell’Ottocento , Fedor Dostoevskij .