PERCHE’ TRUMP CERCA DI RE-INDUSTRIALIZZARE L’AMERICA

 

 

L’essenza del problema, secondo una rilettura dei fatti di un giornalista della Reuters, Andy Home, che era venuto in possesso di una copia del rapporto, risalente al settembre scorso, del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti riguardante i rifornimenti di materiale essenziali per l’esercito americano.  Intitolato “Valutare e rafforzare la resilienza della catena di approvvigionamento manifatturiera e della difesa degli Stati Uniti”  ( settembre 2018),  rivela che più di 300 (!) forniture -chiave, necessarie al normale funzionamento delle forze armate americane sono in pericolo: i produttori statunitensi o sono sull’orlo della bancarotta o sono già stati rimpiazzati da fornitori cinesi o di altre nazionalità, a causa della deindustrializzazione dell’economia interna e della rilocalizzazione della produzione nelle nazioni del Sud-Est Asiatico.

Un esempio, che Home trae dal citato rapporto:  ci si è accorti  l’ultimo produttore americano di filati sintetici  in poliestere, necessari alla fabbricazione dei teli per  gli attendamenti  militari,   aveva chiuso l’attività  di recente. Questo significa che se gli Stati Uniti dovessero dichiarare un “embargo sui tessuti,” per alcuni soldati americani ci sarebbe la seria prospettiva di dover dormire all’aperto.

Ma sarebbe il meno.  Ben altre difficoltà di fornitura sono elencate nella parte non segretata del rapporto:  dall’alluminio laminato a freddo utilizzato per la blindatura,  alla  manutenzione  degli alberi-motore a tenuta stagna dei sottomarini,  agli interruttori di alimentazione al silicio utilizzati nei sistemi missilistici,  tutto vien comprato all’estero sul mercato globale.  I militari scoprono che non possono più confidare nella potenza industriale   di un  paese che stima di aver perso 66.000 imprese manifatturiere nei primi 16 anni di questo secolo.

Gli Stati Uniti temono  difficoltà  nelle consegne future degli  speciali  interruttori elettrici che fanno funzionare quasi tutti i missili americani. L’azienda produttrice di questi interruttori ha  chiuso, ma gli alti gradi dell’esercito ne erano venuti a conoscenza solo dopo la cessazione delle forniture. E non si possono ordinare da nessun’altra parte, perché il produttore è scomparso nel nulla due anni fa. Un altro esempio:  l’unico produttore nazionale di motori a combustibile solido per i missili aria-aria, come si legge sul documento, “aveva incontrato problemi tecnici relativi alla produzione,” motivazioni che non erano state chiarite neanche dopo l’intervento di esperti governativi e militari. I tentativi di riprendere la produzione sono falliti e il Pentagono è stato costretto a ricorrere ad un’azienda norvegese per garantire la continuità delle consegne. Ovviamente, questo è indice di un sicuro degrado tecnico di tutto il sistema americano, perché la perdita di alcune competenze di base non basta da sola a giustificare una situazione dove non si può ripristinare una produzione e neanche si riesce a capire qual’è il problema.

La Cina ha praticamente il monopolio delle terre rare, e l’ha ottenuto sbattendo fuori la concorrenza col dumping.

Ammettono al Pentagono  di non potersi più fidare dei produttori dei componenti elettronici  che servono anche a far funzionare le armi atomiche –  perché  “la filiera di produzione è globalizzata”, insomma  utilizzano chips fabbricati in Cina o in Corea, e non si sa esattamente cosa i cinesi ci abbiano messo dentro.  Addio segreti militari. Lo stesso vale per il software.

La Cina, vale la pena ricordare è stato il più grande fornitore unico di prodotti in alluminio negli Stati Uniti l’anno scorso. La Russia, un altro paese specificamente identificato come una minaccia nel rapporto, era il secondo maggior fornitore di alluminio primario.

“Tutti gli aspetti  della base industriale di produzione per la difesa sono attualmente minacciati, in un momento in cui i concorrenti strategici e le potenze revisioniste  (sic)  appaiono crescere in forza e capacità”, afferma il rapporto. In cima alla lista dei “concorrenti strategici” c’è la Cina.

“Le distorsioni non di mercato della Cina al campo di gioco economico devono finire o gli Stati Uniti rischiano di perdere la tecnologia e le capacità industriali che hanno permesso e potenziato il nostro dominio militare”.

A farla breve:   il Pentagono scopre che, riducendosi a comprare sul mercato  globale ciò che gli serve, può finire per  dipendere da un nemico  per completare il suo armamento.

E’ il bello del mercato globale, ragazzi. E’ l’ideologia della “interdipendenza”, del  “vantaggio competitivo”; del comprare le merci al prezzo più basso perché è conveniente e concorrenziale, che ha de-industrializzato l’Occidente.   E indebolisce la forza armata.  Così  si constata che uno Stato potente deve mantenere lavorazioni ed eccellenze tencologiche sottratte al mercato e alla concorrenza, insomma una dose di autarchia  delle industrie di punta militari  – che risponde alle necessità della sicurezza, non a quelle della convenienza del prezzo.  La logica del mercato globale fa’ arretrare tecnologicamente, in fondo, anche la civiltà, del paese che l’adotta con  rigore ideologico.

Il rapporto del Pentagono  è importante per il mutamento di ideologia che contiene:  afferma esplicitamente il primato delle necessità strategiche sull’economicismo liberista. E’ un contributo alla deglobalizzazione.
Adesso  il Presidente Trump sostiene che “una base industriale […] sana è un elemento critico del potere degli Stati Uniti”  e insiste sul fatto che “l’industrializzazione è questione strategica”:  siccome ciò che è “strategico” è di competenza del presidente, si apre un periodo interessanti per i “mercati globali”.

https://media.defense.gov/2018/Oct/05/2002048904/-1/-1/1/ASSESSING-AND-STRENGTHENING-THE-MANUFACTURING-AND%20DEFENSE-INDUSTRIAL-BASE-AND-SUPPLY-CHAIN-RESILIENCY.PDF