PER UNA RESISTENZA DIGITALE

                                                                  di Roberto PECCHIOLI

I fatti hanno la pessima abitudine di venire a galla. Possono essere occultati, negati, dimenticati, osservati con le lenti deformanti dell’ideologia o dell’interesse, perfino capovolti. Torneranno più forti di prima. Contra factum non valet argumentum. La rivoluzione tecnologica digitale ha cambiato per sempre, irrevocabilmente, le nostre vite. Qualcuno ha scritto che abitiamo la rete, mettendo in guardia da una interessata sottovalutazione assai comune, tesa ad affermare che il web, le tecnologie e i servizi collegati, sono un mezzo di comunicazione. Più potente e pervasivo di ogni altro, ma comunque un mezzo. Non è così, al di là della sociologia di Marshall Mc Luhan, il primo a scoprire che il mezzo coincide con il messaggio. Siamo oltre: la tecnologia ci colonizza, ci abita, detta tempi, ritmi, ed è tutto fuorché neutra, come i suoi padroni.

Per questo, occorre riflettere, prendere fiato, darsi tempo – tutto il contrario di quanto impone il tecno potere – e valutare le conseguenze; soprattutto, disporsi alla resistenza, animare una sorta di disobbedienza personale, di obiezione di coscienza alla potenza dispiegata dalla mega macchina. Forse serve qualcosa di ulteriore rispetto alla resistenza individuale, tipo la resilienza, ovvero l’attitudine di taluni materiali ad assorbire gli urti senza spezzarsi, concetto passato alla psicologia per descrivere la capacità di affrontare eventi traumatici o periodi di difficoltà. Una resilienza digitale è quella che invochiamo per restare uomini dinanzi all’ avanzata impersonale della tecnologia digitale, imperativo categorico e sistema panottico realizzato. Lasciamo da parte filosofi come Heidegger o antropologi come Jacques Ellul, che pure compresero con anticipo gli esiti della rivoluzione di cui siamo oggi testimoni e protagonisti, e guardiamo ai fatti con l’occhio dell’uomo della strada.

La rete, la tecnologia sovrastante e sottostante hanno dei padroni, le grandi corporazioni di Silicon Valley                          collegate al potere Usa. Potere industriale, tecnico, politico, finanziario, militare. Non dimentichiamo che Internet nacque da ricerche dell’esercito americano volte a collegare l’intera filiera dei computer militari alla catena di comando. La collaborazione con geniali ingegneri informatici ha condotto al suo sviluppo planetario e prodotto l’immensa potenza tecnoscientifica di aziende come Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook. Un altro elemento di cui essere consapevoli è che le aziende citate, strettamente legate all’alta finanza ed all’apparato delle agenzie riservate Usa, sono oggi le più ricche multinazionali del pianeta, superiori in capitalizzazione alle multinazionali dell’energia fossile.

 

Si tratta dunque di un colossale apparato di potere, più forte di molti Stati. Le tecnocorporazioni sono diventate delle vere e proprie metanazioni, ovvero delle entità complesse in grado di interloquire con gli Stati da posizioni di forza, dotate di un consenso di massa, di un crescente potenziale di utenti dipendenti dai servizi offerti per ogni azione della vita quotidiana, in un rapporto che sfiora quello schiavo/ padrone. Facebook ha circa due miliardi di iscritti, Google è il motore di ricerca monopolista in due terzi del mondo, Amazon ha centinaia di milioni di clienti di cui sa tutto, il suo proprietario Jeff Bezos ha inventato il kindle, il lettore digitale di libri, Apple ha introdotto lo i-phone. Possiedono una gerarchia conosciuta, un codice di norme e di comportamenti, una precisa ideologia politica, il liberismo permissivo politicamente corretto, non conoscono confini territoriali né limiti giuridici. La Danimarca ne ha preso atto e ha insediato una sorta di ambasciata a Mountain View, sede centrale di Google.

Quando un uomo, un’entità, un’ideologia, a maggior ragione un gruppo di aziende gigantesche detentrici delle tecnologie più potenti della storia in grado di raggiungere miliardi di esseri umani, diventano tanto grandi è necessario difendersi. Occorre conoscere per comprendere e non lasciarsi avviluppare dalle spire di finti mezzi trasformati in strutture di profitto, orientamento, dominio. Tanto più urgente è l’esigenza in Europa, continente che non ha saputo elaborare propri contenuti tecnologici all’altezza di quelli americani e rischia di diventare non solo ciò che già è, una colonia, ma una periferia culturale, economica, civile priva di importanza.

La condizione dell’Italia è ancora più drammatica, giacché il declino nazionale ha gravi ricadute sulla nostra capacità di comprendere, scegliere, valutare. Dopo mezzo secolo di scolarizzazione di massa, l’Italia mantiene il triste primato dell’analfabetismo funzionale. Le statistiche sono allarmanti: almeno due terzi dei cittadini non sono in grado di capire, interpretare, valutare quanto apprendono dalla comunicazione. Zygmunt Bauman disse che da civiltà della ragione (pur con tutto quanto di discutibile ciò significa) l’Occidente si è trasformato in una società delle emozioni. Da qui il primato degli istinti, in gran parte suscitati, determinati, enfatizzati dalla grande macchina tecnologica. L’Italia è all’avanguardia in questo processo regressivo.

Quanto sta accadendo è il precipitato di tecnologie che hanno semplificato moltissime azioni che necessitavano di ragionamenti, diminuendo le nostre capacità logiche. Pensiamo all’uso dei navigatori che ci esime da una conoscenza naturale, il senso dell’orientamento, alle rubriche telefoniche che hanno limitato le nostre capacità mnemoniche, alle mille funzioni delle calcolatrici che rendono pressoché inutile esercitare il pensiero astratto alla base della matematica.

E’ in pericolo la parte cognitiva del nostro cervello; ancor più declina la nostra capacità di giudizio, individuale e collettiva. Ogni risposta è già lì, predisposta dai guru di Silicon Valley a colpi di algoritmo. Gli algoritmi, sequenze matematiche sempre più precise, potenti e onnicomprensive, dettano il ritmo- non è un gioco di parole- a centinaia di milioni di vite. Non solo decidono l’andamento dei mercati finanziari, ma organizzano in maniera sempre più minuziosa, personalizzata e invadente l’intera nostra vita. Le grandi tecno corporazioni sono dette Big Data in quanto vivono di raccolta, elaborazione, processamento e compravendita di dati. Tutto è di loro interesse: le nostre idee politiche, le scelte sessuali, le letture, gli acquisti, i viaggi, i commenti che facciamo in rete, la cronologia della navigazione, gli amici, le foto che postiamo.

Il semplice gesto di sottolineare la frase di un libro sul Kindle consente ad Amazon di sapere molte cose su chi lo ha compiuto. Attraverso gli algoritmi, migliorano quotidianamente la profilazione di ciascuno di noi, conoscono, ricostruiscono e inevitabilmente prevedono, anzi determinano in anticipo le nostre scelte. E’ in gioco la nostra libertà sostanziale, non possiamo giocarcela sull’altare della comodità, dell’apparente semplificazione, dell’uso strumentale di apparati che si stanno impadronendo delle nostre esistenze, sostituendole.

Sono ormai molti i libri che si occupano del lato oscuro della rete e delle tecnocorporazioni che la dominano. In genere sono opera di insiders, esperti provenienti dal mondo della tecnologia che hanno sviluppato una riflessione critica, tutti vengono pubblicati da editori piccoli o piccolissimi. Eppure “bucano” il mercato. Il Manuale di disobbedienza digitale di Nicola Zamperini avverte di un intenso cambio di paradigma. “Immaginate Internet come qualcosa di molto simile a Matrix, meno cupa ovviamente, meno cruda”. La rete è un luogo entrando nel quale ci trasferiamo in un’altra dimensione, nella quale perdiamo il senso dello spazio e del tempo. Possiede guardiani, leggi, porte d’ingresso, “dove si concludono affari e si trova lavoro, ci si sposa e si muore. Infine è un ambiente, perché vi si combattono vere guerre tra Stati “.

Il suo sistema nervoso sono gli algoritmi, formidabili sequenze di istruzioni matematiche al servizio dell’intelligenza artificiale, fulcro del meccanismo miliardario delle tecno corporazioni, le quali “vivono e prosperano offrendo servizi agli umani, vendendo servizi agli umani e nutrendosi della vita degli umani stessi. “Un apologeta del potere digitale, Pedro Domingos, ha scritto un saggio dal titolo raggelante, L’algoritmo definitivo, in cui paragona i modelli matematici a abilissimi sarti che sanno cucire abiti su misura per ogni cliente. Le creazioni sono ciascuna diversa da tutte le altre, il loro Santo Graal sono i dati. La macchina ne ha una fame insaziabile. “Costituiscono il carburante delle previsioni e della loro ragion d’essere. Senza dati, le macchine sono inutili. Per questo sono voraci, ingorde e nascondono la voracità dietro altri scopi” (N. Zamparini, op.cit.).

Non c’è una data precisa in cui la tecnologia digitale e le sue aziende guida hanno preso possesso di porzioni importanti delle nostre vite, ma alcuni la fissano al 1 gennaio 2003, tra la fondazione di Google e Facebook e il lancio del primo iPhone. In questo breve tratto del XXI secolo, siamo stati letteralmente attraversati da un cambio che è insieme antropologico ( l’Homo digitalis è una specie nuova), politico ( la rete, i suoi padroni impongono idee e visioni del mondo) economico ( la vittoria schiacciante del modello liberista libertario di consumo e, al suo interno, la prevalenza delle tecno corporazioni sulle multinazionali tradizionali) e civile ( il progetto di controllo sociale, intellettuale h.24 delle tecno corporazioni si fa visibile ). Un solo esempio: basta tenere acceso lo smartphone perché la nostra posizione, il nostro itinerario sia noto a chi ci guadagnerà sopra.

Verifichiamo con sorpresa, ma purtroppo senza farci gran caso, le pubblicità personalizzate che ci raggiungono, i suggerimenti per i nostri prossimi comportamenti. La mega macchina sa. Dove siamo, perché (abbiamo fatto le nostre ricerche preventive attraverso di lei…) anticipa, prevede, accompagna le nostre mosse. E’ il Grande Fratello realizzato con il nostro decisivo contributo. Moltissimi di noi ne sono persino stolidamente soddisfatti. Ci è capitato di discutere del fatto che attraverso la rete regaliamo noi stessi alle grandi tecno corporazioni. Abbiamo rilevato prevalentemente indifferenza o incomprensione. Qualcuno commenta che in fondo non importa granché se la megamacchina sa tutto e rivende i nostri dati, la nostra vita. Io non potrei ricavarci nulla, concludono con un’alzata di spalle.

Una volta di più, è evidente che l’uomo medio scambia volentieri la libertà- quella vera, fatta di autonomia, autocoscienza, responsabilità, scelta consapevole-  con la comodità o, per usare un’espressione “bassa”, con la pappa pronta. Amazon ci suggerisce un acquisto? Benone, ci evita la fatica di scegliere. Google ci fornisce la soluzione al significato di una parola, indica la strada per Castrovillari? Meno male che Google Map esiste. Facebook ci prospetta un mondo in cui l’amicizia sta in un clic, e ciascuno può dire la sua su tutto specialmente se non sa nulla. Che bella democrazia!

Ci sfugge del tutto che siamo diventati come ci vogliono Mark Zuberberg, Jeff Bezos, Eric Schmidt e gli altri proprietari delle tecnologie che si sono appropriati del nostro mondo interiore fino a renderci loro sudditi. La cultura di massa si è rovesciata in un eccesso di contenuti visuali: fotografie, filmati e simili. Tra TV, telefono e Internet, siamo bombardati da fotografie, fotogrammi, video per sei ore al giorno. Il bisogno di vedere, gli iperpadroni lo sanno, conferma la realtà ai nostri occhi e diventa una sorta di consumismo estetico a cui siamo dediti sino alla dipendenza. L’approfondimento, la riflessione, la meditazione scivolano via. Tutto deve essere “in tempo reale”. Naturalmente, i contenuti sono eterodiretti, scelti dalla megamacchina proprio per noi, precisamente per me. Ma nulla è tarato sulla persona che io sono, ma sul profilo di consumatore che essi hanno rilevato e perfezionano ogni dì attraverso algoritmi che studiano il mio comportamento in rete e sul cellulare.

Sonia Sontag, studiosa delle ricadute meta culturali dell’universo digitale, ha rilevato come gli scatti infiniti resi possibili dalla tecnologia comportino la possibilità teorica di sguardi infiniti su ogni aspetto dell’esistenza. Il risultato, per eccesso e cortocircuito, è che finiamo col non possedere più alcuno sguardo. Tabulae rasae per sovraccarico, reset dei nostri cervelli per autodifesa. “Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia”.

Il giudizio è abolito, l’approfondimento reso inutile dall’ accumulo di nuove immagini. Il sistema diffonde un nuovo valore, che a noi appare un disvalore oltreché una rottura dell’ordine naturale, la trasparenza. E’ obbligatorio che la nostra vita, le nostre idee, i gesti, le situazioni, i comportamenti siano “trasparenti”, ovvero sotto gli occhi di tutti. In realtà, importa che siano esaminati, processati, profilati dagli appositi algoritmi della macchina, che venderà nuovi dati, acquisirà ulteriori conoscenze. Tutto ciò che spontaneamente consegniamo al sistema, attraverso Google, i media “sociali”, le ricerche commerciali, i commenti, i post e i “mi piace” diventano materiale compravendibile per motivi commerciali, ma anche di controllo sociale e politico.

Quella è la trasparenza che ci impongono, e qualche nuova forza politica, figlia diretta dei tempi nuovi, la indica addirittura come programma elettorale. La verità è che manca la percezione del dominio esercitato su ognuno di noi. Se ci prendiamo il disturbo di scaricare e stampare tutto quanto Facebook ha registrato e archiviato su di noi rimaniamo impressionati. Lì dentro si trova letteralmente tutta la nostra vita. Per sempre, senza vera possibilità di eliminazione, di là della nostra stessa permanenza in vita, tanto che Zuckerberg ha immaginato la figura degli esecutori testamentari dei contenuti Facebook dei defunti.

Come ha rilevato Francesco Borgonovo nel suo interessante Fermate le macchine! ,le tecno corporazioni ci hanno indotto a ripudiare l’Ombra, la parte oscura della psiche che è nostra quanto la Persona. E’ d’obbligo essere solari, grande è il successo popolare di questo aggettivo, diventato la descrizione più rapida di un individuo “normale”. I fatti, però, dicevamo all’inizio, tornano in superficie. L’essere umano deve affrontare l’Ombra, ingaggiare battaglia con essa, accettarne la sfida, non limitarsi a sedarla con i farmaci, che stanno diventando sempre più i compagni inseparabili delle generazioni digitali, vittime di una incomunicabilità di tipo nuovo, estesa al silenzio con se stessi.

L’universo digitale ci cristallizza in un’adolescenza perenne. Ovvio, il bambino è più plasmabile, cede facilmente alla seduzione, necessita di guida, protezione, soluzioni facili, comode. Proprio quello che serve alla megamacchina per rinchiuderci nella regola dell’acquisto con l’erranza della giovinezza. L’immaturità costruita ad arte, perseguita e raggiunta con l’aiuto determinante delle tecnologie dominanti è la malattia del nostro tempo quanto la trasparenza obbligata ne è sintomo.

Importante è una riflessione del filosofo coreano tedesco Byung Chul Han: “le cose diventano trasparenti quando si liberano da ogni negatività, spianate e livellate, immesse senza opporre resistenza nei piatti flussi del capitale, della comunicazione e dell’informazione. Il sistema sociale espone oggi tutti i suoi processi a un obbligo di trasparenza al fine di standardizzarli e di accelerarli. “Fin tropo chiaro l’obiettivo di Big Data: rendere pubblico non è informare, ma pubblicizzare per sfruttare in termini economici e di potere. La natura umana, vale la pena ripeterlo, ha bisogno di sfere in cui possa sostare in sé, senza lo sguardo dell’Altro. L’ eccesso di illuminazione provoca un particolare effetto, che la psicologia chiama burnout, un incendio spirituale, una sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione.

I pericoli della megamacchina sono quindi grandi e molteplici: consegnarle le chiavi delle nostre vite significa disagio psicologico, controllo sociale, sconfitta politica, esaurimento ideale, soggezione economica, servitù. La macchina non si fermerà né si può fermare. Ma è urgente prenderne le distanze, restringerla tra gli strumenti che possono aiutare l’esistenza, soprattutto conoscerla per misurarne l’enorme potenziale negativo.

Non sappiamo sintetizzare un giudizio complessivo, se non citando una frase dell’economista ultra liberale Von Hajek, uno che considerava il socialismo e lo Stato vie per la servitù. Aveva però chiaro che il mercato, per funzionare senza distorsioni, deve comprendere molteplici attori. Tutto il contrario della realtà odierna, dominata da finanza e tecno corporazioni. Chi possiede tutti i mezzi determina tutti fini, concluse l’economista austriaco. Prendiamone atto. In caso contrario, varrà il monito di Etienne La Boétie nel Discorso sulla Servitù volontaria: i tiranni – le tecno corporazioni lo stanno diventando, in modalità dolce, insidiosa e “comoda” –  detengono il potere   fintantoché i sudditi glielo concedono, talora per abitudine.

Diventiamo non collaborazionisti, partigiani di noi stessi, cominciamo a mentire alla mega macchina. Rimettiamo le tendine alla nostre vite, difendiamo i fatti nostri dagli algoritmi di Silicon Valley. Iniziamo una resistenza attraverso la consapevolezza. Tornare padroni della nostra vita è più importante di Google Map, Facebook, “mi piace”, e di tutte le app apparentemente gratuite. Come ci è già capitato di dire, se i giganti forniscono qualcosa gratis, il prodotto che vendono siamo noi. Chi viene venduto sul mercato, anima e corpo, è un oggetto. O uno schiavo.

ROBERTO PECCHIOLI