PAPA BERGOGLIO, I VALDESI, LA MASSONERIA

Dunque Papa Francesco ha chiesto scusa ai valdesi. Immediatamente si sono scatenate le contrapposte “tifoserie”. Ha fatto bene! No, ha fatto male! Porre la questione in questi termini, tuttavia, è sviante e non serve a comprendere e valutare il comportamento del Papa secondo una visione il più possibile ampia e completa della faccenda.

Diciamo subito, in ogni caso, che Papa Bergoglio ha fatto bene, se si valuta la sua decisione con il criterio della Misericordia, perché poco misericordiosi sono stati in effetti i persecutori cattolici dei valdesi. Crociati ed inquisitori hanno sovente infierito con durezza contro di essi nella repressione dell’eresia. In questo, sull’esempio di Giovanni Paolo II, Papa Bergoglio ha fatto il primo passo nell’auspicio che altrettanto facciano gli altri. I quali, però, compresi i valdesi, non sembrano volerlo imitare riconoscendo a loro volta le proprie colpe (e ce ne sono state) verso i cattolici.

Ma ogni valutazione deve tener conto anche della complessità della storia e purtroppo la banalizzazione mediatica di questa complessità non aiuta. Franca Giansoldati, ad esempio, su Il Messaggero del 23.06.2015, ha descritto lo scenario degli eventi, ai quali si riferiva il Papa, mettendo, tra le vittime, tutti insieme appassionatamente albigesi, valdesi e, con salto anacronistico, … ugonotti (?!). La Giansoldati ricorda che “crociati” ed inquisitori si sono resi responsabili di immondi massacri compresi vecchi, donne e bambini (sgozzati, rammenta la vaticanista del quotidiano romano, come accade oggi alle vittime dell’Isis). Sullo sfondo un Innocenzo III – il teocratico pontefice che accolse paternamente Francesco d’Assisi – trattato come il Grande Inquisitore e la nota vicenda della crociata contro gli albigesi.

Innocenzo III ed i catari

Innocenzo III bandì la crociata contro gli albigesi dopo aver inutilmente provato a combattere il catarismo mediante la predicazione missionaria del cistercense Pietro di Castelnuovo che fu ucciso dagli stessi catari sicuri dell’appoggio di Raimondo VI conte di Tolosa. Infatti dietro la contesa religiosa si nascondevano forti contrasti politici tra i grandi feudatari della Provenza e quelli dell’Île-de-France, dell’Orleanese, della Piccardia come pure della vicina Catalogna. La preoccupazione di Innocenzo era quella di reprimere una pericolosa “eresia” ed in quel contesto la cosa inevitabilmente assunse connotati anche politici. Quindi per il papa, anche se adirato per la piega sanguinosa presa dagli eventi, fu impossibile non fare buon viso a cattivo gioco. Un gioco condotto dai signori feudali del nord che abilmente si ersero a difensori dell’ortodossia della fede contro “eretici e scismatici”.

Che poi il catarismo non fosse neanche una eresia ma un’altra religione, un riaffiorare, mediante il bogomilismo, dell’antico manicheismo non fa parte della vulgata mediatica. Come non sembra essere contemplata da tale vulgata neanche la propensione dei catari per la violenza, come più tardi degli ugonotti a loro volta incendiari di chiese “papiste” e massacratori di cattolici. I catari non erano certo quelle povere vittime che molti immaginano nulla conoscendo né della loro violenta “prassi missionaria”, ovunque riuscivano a prevalere si imponevano anche con metodi poco misericordiosi contro i fedeli della Chiesa romana, né dei contenuti anti-ontologici – la vita, la materia, il creato, l’esistenza stessa intese come un male cui sottrarsi nell’aspirazione alla fusione della scintilla spirituale decaduta, ed imprigionata nel corpo, con l’unità informe ed indifferenziata del Pleroma divino: di qui anche il rito dell’endura, digiuno totale fino alla morte per inedia.

Non ci sono neanche certezze assolute circa la famosa frase con cui il legato pontificio Arnaud Amaury, abate di Cîteaux, avrebbe ordinato, contro le proteste di chi si preoccupava di distinguere tra cattolici ed eretici, il massacro indiscriminato degli abitanti di Béziers, dei quali solo circa cinquecento erano effettivamente catari: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”. La notizia è tramandata dal cronachista cistercense Cesario di Heisterbach che però non era presente agli eventi. Infatti, nel suo Dialogus miraculorum, scritto tra 1219 e 1223, Cesario afferma soltanto che “si racconta che abbia detto…”.

Molto più probabilmente Arnaud diede soltanto l’ordine ai cattolici, presenti in città, di uscire, per non essere confusi con i catari, durante il saccheggio della stessa ed il conseguente massacro. Pare che, tuttavia, i cattolici, non si capisce per quale motivo, non seguirono l’invito finendo per essere coinvolti nella strage il cui costo umano ammontò a 20.000 persone, stando alla relazione dello stesso legato pontificio, anche se probabilmente esagerata nel calcolo della popolazione effettiva della cittadina.

Francesco non era cataro (e neanche Valdo)

Ma i valdesi cosa c’entrano con catari ed albigesi? Forse nulla, se non per la tipica carsicità delle posizioni teologicamente eterodosse che riappaiono di continuo nel corso dei secoli, sicché, per alcuni, albigesi e valdesi avrebbero anticipato alcuni temi luterani. Del resto, dal momento che, come ha dimostrato Theobald Beer, Lutero fu fortemente influenzato dal rinascente ermetismo “apofatico” umanistico-rinascimentale, la cosa non può destare meraviglia.

Eppure Valdo di Lione (ricco mercante che donò tutti i suoi averi, spesso frutto dell’usura, ai poveri per poi vivere in povertà) è un personaggio molto simile a Francesco d’Assisi ed entrambi possono riconnettersi, almeno apparentemente e per certi versi, alla spiritualità degli umiliati, sui quali pure pendevano forti sospetti inquisitoriali.

Tuttavia Francesco era altro dagli umiliati ed anche da Valdo. Di quest’ultimo sappiamo, in effetti, abbastanza poco per poter comprendere perché mai ebbe una sorte ecclesiale così diversa dall’Assisiate. Sappiamo che, pur inizialmente appoggiato dal suo vescovo, come Francesco, entrò in contrasto con la gerarchia perché pretendeva di predicare il Vangelo – cosa che a quel tempo, ma per certi aspetti anche oggi, era considerata prerogativa del clero, al fine di evitare, e la cosa è comprensibilissima, errori dottrinali – e perché, se non lui, certamente i suoi seguaci più radicali intendevano proporre la povertà come unico status degno per il cristiano, con conseguente veemente polemica verso chiunque non accettava il pauperismo quale condizione di vita, ad iniziare dai prelati.

Atteggiamenti, questi, che Francesco non ebbe mai e che se, in seguito, sono stati assunti da alcune frange francescane, poi finite nell’eresia, non provano affatto che fossero derivati dagli insegnamenti del Poverello. Il quale, se per sé ed i suoi voleva il “matrimonio con Madonna Povertà”, non pretendeva di imporre a tutto il mondo tale connubio né che questo fosse la condizione indispensabile per la salvezza. Memore, forse, del fatto che il Signore, lamentando della difficoltà per i ricchi ad entrare in paradiso, alle preoccupazioni dei suoi apostoli – “ma allora chi mai potrà salvarsi?” – aggiunse che “a Dio tutto è possibile” (Mt. 19, 16-26).

Come cattolici, nonostante tutto quel che si può storicamente supporre sulla “normalizzazione” del movimento francescano messa in opera dalla Chiesa, non dimentichiamo che bisogna sempre tenere in debita considerazione anche l’opera del Signore nella storia e Francesco, in quei frangenti, davvero dimostrò la possibilità della fede vissuta pur rimanendo nella Chiesa di Roma, la quale era tutto che dire per quanto riguarda i costumi della gerarchia.

Del resto se la “normalizzazione” funzionò con i francescani e non con i valdesi l’atteggiamento di sicura obbedienza e devota venerazione di Francesco per la Chiesa avrà pure avuto un suo fondamentale peso, o no? Papa Innocenzo, sogno a parte (e diciamo questo senza misconoscere affatto la provvidenzialità del suo sogno), comprese perfettamente, nonostante fosse un canonista avvezzo alla glossa, che Francesco era del tutto cattolicamente ortodosso e proprio per questo “rivoluzionario” nel proporre il suo modo di vivere il Vangelo “sine glossa”.

Breve storia di Valdo di Lione, ovvero di una rottura, evitabile, sorta per equivoco

Il cistercense Guichard, arcivescovo di Lione ai tempi di Valdo, era intenzionato ad appoggiare i “Poveri di Lione”, come furono denominati i seguaci del ricco mercante fattosi povero. Il fine di Guichard era quello di riformare profondamente la vita ecclesiastica, costringendo i canonici del Capitolo, di ceto nobiliare e sfruttatori dei beni ecclesiastici, all’adempimento dei propri doveri ad iniziare dall’ufficio liturgico del tutto abbandonato. In questo contesto, la vocazione dei seguaci di Valdo per la predicazione tornava utile per un coinvolgimento del laicato sensibile alla riforma ecclesiastica.

Tuttavia anche per Guichard la predicazione da parte dei laici era soggetta a limiti e controlli da parte dell’autorità vescovile, onde evitare il diffondersi di dottrine eterodosse. Quel che da parte della gerarchia si voleva evitare era la radicalizzazione della scelta pauperistica che molti laici, come Valdo, facevano, in quei tempi, nella ricerca di un modo più autentico di vivere la fede cristiana. Il rischio, che la Chiesa imparò ben presto a conoscere, era, come accadde con diversi gruppi di Umiliati, che la scelta della povertà assumesse un carattere di protesta nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche.

Certo pesava il fatto che tali gerarchie fossero socialmente appartenenti ai ceti egemoni, il cui stile di vita era spesso scandalosamente contrario alla carità cristiana. Ma c’erano anche motivi più alti e di ordine squisitamente dottrinale, ad iniziare dal fatto che la povertà, scelta personale da sempre legittimata dalla Chiesa, non era però richiesta, dalla tradizione ecclesiale, quale unico status per la salvezza e dal fatto che, troppo spesso, in certi movimenti laicali dietro la affermata povertà in realtà si nascondeva non la ricerca dell’umiltà di vita, e quindi anche della condivisione in misericordia e carità della condizione degli emarginati, ma la protesta politico-sociale.

Protesta certamente comprensibile ma che nascosta, come era inevitabile a quel tempo, dietro motivazioni religiose finivano per portare caos tanto nella Chiesa che in una società ordinata per ceti come era quella medioevale. Senza contare, poi, che tale protesta, religiosamente paludata, assumeva sovente carattere violento mentre i suoi promotori, evidentemente mossi non solo dalla denuncia cristiana ma anche dall’orgoglio e dall’intransigenza tipica di molti riformatori, diventavano personaggi non alieni dal potere e dalla crudeltà che, per primi, rinfacciavano ai loro avversari.

Rappacificatosi con il Barbarossa, l’allora pontefice Alessandro III indisse a Roma il terzo Concilio Lateranense, nel 1179, per discutere della riforma ecclesiastica e del problema cataro in area provenzale ed italo-settentrionale. Valdo colse l’occasione per perorare davanti al Papa ed al Concilio l’appropriazione della sua scelta di vita, compresa la libertà laicale della predicazione. L’approvazione della confraternita fu concessa, non il permesso di predicare.

Secondo le cronache del tempo i valdesi presentarono al papa alcuni libri della Bibbia tradotti in lingua volgare affermando con insistenza, finanche fastidiosa, di essere a tal punto esperti dei testi sacri da dover essere abilitati alla predicazione. Sottoposti, tuttavia, ad un esame dottrinale, essi diedero una risposta a giudizio degli esaminatori ambigua. Affermarono, infatti, di credere tanto nelle Tre Persone Divine che “nella madre di Cristo”. Le cronache non dicono se la risposta fosse stata data da Valdo in persona ma sembra che essa sia stata interpretata, dagli esaminatori, come una equiparazione di fatto di Maria alla Trinità. Oltretutto fu sospetta anche l’espressione, dal sapore nestoriano, “Madre di Cristo” anziché quella più dogmaticamente appropriata di “Madre di Dio”.

Tuttavia, mentre la Bibbia in francese non venne censurata dal Concilio, l’autorizzazione alla predicazione, come detto, non fu concessa indistintamente a tutti i valdesi. Secondo alcuni tra coloro autorizzati alla predicazione c’era anche Valdo, che ne ebbe oralmente licenza dal Papa – anche in questo l’analogia con Francesco è impressionante – previo atto di formale obbedienza alla Chiesa ed ai suoi legittimi pastori. Obbedienza che, appunto, comportava anche il controllo da parte dell’autorità ecclesiale. Secondo altri, come la Chronica anonima di Laon, invece il Concilio avrebbe vietato ai valdesi la predicazione, salva esplicita richiesta sacerdotale.

Comunque andarono le cose, è certo che nei Canoni del Concilio non sono riportati riferimenti alla fraternità valdese ma solo alla condanna degli “eretici” diffusi in Francia, «chiamati da alcuni catari, da altri patarini, da altri ancora pubblicani». Sembra inoltre che Valdo, tornando dal Concilio, predicò facendo discepoli nell’Italia settentrionale. Cosa che testimonierebbe della convinzione del lionese di essere stato a ciò autorizzato, benché in modo informale, dal Papa durante il Concilio.

I problemi iniziarono, dopo l’assise conciliare. Infatti, l’anno successivo, durante un Sinodo provinciale nella cattedrale di Saint Jean et Saint Etienne in Lione, Enrico di Marcy, legato pontificio inviato in Francia per combattere l’eresia catara, forse insospettito dal movimento dei “Poveri di Lione”, nell’intento di far riaffermare a Valdo una piena ortodossia cattolica – non possiamo dire se a ragione, ossia se effettivamente nel movimento valdese avessero preso piede posizioni eterodosse, o se a torto, ossia sotto una errata impressione inquisitoriale – e quindi nell’intento di distinguere i valdesi dai catari, si oppose al riconoscimento del ministero itinerante, ovvero alla predicazione, dei valdesi.L’incredibile sta nel fatto che Enrico di Marcy, davanti all’assise sinodale e quindi al cospetto dello stesso arcivescovo Guichard, ottenne da Valdo, senza alcun problema, quella che passò alla storia come “Professione di Fede” del fondatore dei valdesi, elaborata sulla base di un documento tradizionalmente usato sin dal V secolo per la consacrazione vescovile.

La “Professione di fede”, giurata in nome della Santissima Trinità e della Vergine Maria e sui Vangeli, comprendeva articoli di fede sui quali Valdo ed i suoi non fecero alcuna obiezione. Tali articoli erano il dogma Trinitario, l’Incarnazione e Resurrezione di Cristo, il giudizio escatologico, la Presenza Reale di Cristo nell’Eucarestia, il riconoscimento della Chiesa cattolica come unica vera Chiesa, santa ed immacolata, e che al di fuori di Essa non c’è salvezza.

In funzione anticatara, la Professione comprendeva l’affermazione della bontà del creato e della validità dei sacramenti anche se somministrati da un prete indegno, il riconoscimento della legittimità del matrimonio come pure della castità liberamente scelta, la dichiarazione per cui la malvagità del diavolo non dipendeva dalla sua natura ma da una sua libera e volontaria scelta.

La “Professione” si chiudeva con il “Propositum”, che era la pubblica dichiarazione dell’impegno di vita apostolica, nel quale era dichiarato che «… poiché la fede, secondo l’apostolo Giacomo, senza le opere è morta, abbiamo rinunciato al mondo e quel che noi avevamo, come ci è stato consigliato dal Signore, l’abbiamo distribuito ai poveri, decidendo di essere poveri, così da non preoccuparci del domani e senza accettare da nessuno né oro né argento o cose simili, tranne il vestito e il pane quotidiano. Ci siamo proposti di osservare i consigli evangelici come precetti. Ma affermiamo e crediamo che coloro che restano nel mondo e possiedono beni materiali se, con i loro mezzi, fanno elemosine e altre opere buone e osservano i comandamenti del Signore, si salveranno sicuramente. Facciamo dunque appello alla vostra prudenza affinché, se dovesse accadere che qualcuno venga dalle vostre parti dicendo di essere dei nostri senza avere questa fede, sappiate che certamente non è dei nostri».

In tal modo, secondo tradizione ecclesiale, i valdesi s’impegnavano ad un cammino di santità che riguardava soltanto essi, senza pretendere che color che fanno altre scelte, restando nel mondo, non possano egualmente salvarsi. Chi avesse preteso questo doveva considerarsi fuori dal movimento valdese e dalla Chiesa che quel movimento approvava a dette condizioni.

Con la “Professione di fede”, Valdo aveva fatto apertamente suoi gli insegnamenti della Chiesa. Ma proprio a questo punto sorse un primo equivoco. Nella “Professione” non vi era alcun cenno di riconoscimento del diritto alla predicazione, sicché da parte di Valdo si ritenne implicito detto riconoscimento.

Le notizie circa le attività dei valdesi si interrompono per alcuni anni dopo la “Professione”. Nel frattempo morirono sia Alessandro III, cui successe papa Lucio III, sia l’arcivescovo Guichard, al quale subentrò Giovanni Bellemani. Il nuovo papa promulgò nel 1184 la costituzione “Ad Abolendam” stabilendo i mezzi, compreso il ricorso moderato alla tortura, per la lotta inquisitoriale contro le eresie. I vescovi furono obbligati ad intervenire nei casi di sospetta eresia mediante la cosiddetta “inquisizione vescovile”.

Un passaggio della “Ad Abolendam” preparò, insieme al latente equivoco sulla autorizzazione alla predicazione, la base per la successiva rottura tra valdesi e Roma. In quel passaggio si decretava l’anatema per i movimenti ereticali già considerati tali da tempo, ad iniziare dai catari a dai Patarini, ma si aggiungeva anche l’anatema per «coloro che, con falso nome, affermano mentendo di essere Umiliati o Poveri di Lione». Da tale testo si evince che vi erano gruppi di sospetta eterodossia che agivano e predicavano in nome di Valdo oppure che tra i valdesi si fossero diffuse posizioni eterodosse indipendentemente dalle intenzioni del fondatore. Il segno per riconoscere costoro, sempre secondo la bolla papale, era nella professione di dottrine non autorizzate sui sacramenti e nella predicazione senza autorizzazione.

Il nuovo arcivescovo di Lione, Bellemani, era un solerte ottemperante delle disposizioni pontificie sicché proprio la questione dell’autorizzazione alla predicazione fu di innesco al conflitto tra lui ed i valdesi. Anche perché il movimento di Valdo continuò, forse, in buona fede, in forza dell’autorizzazione informale avuta da Alessandro III, nella predicazione ammettendo, altro passo falso generatore di ulteriori equivoci, a detta attività anche le donne, con una anticipazione della successiva esperienza spirituale femminile del beghinato.

Secondo Stefano di Borbone, un cronista dell’epoca, Valdo, intimato del divieto di predicare dall’arcivescovo, avrebbe rifiutato in nome della prioritaria obbedienza a Dio prima che agli uomini, ponendosi ipso facto in una posizione che ne avrebbe decretato formalmente l’espulsione dalla Chiesa. Una motivazione, quella dell’obbedienza a Dio piuttosto che agli uomini, che più tardi sarebbe stata rivendicata anche da Giovanna D’Arco di fronte ai suoi inquisitori.

D’altro canto, nuove e più recenti ricostruzioni, configurano invece uno scenario diverso che vedrebbe Valdo, di fronte all’ammonizione episcopale, ritirarsi a vita privata, con l’intenzione di farsi dimenticare, quindi sostanzialmente sottomettendosi all’autorità ecclesiastica, mentre i suoi discepoli, al contrario, avrebbero continuato nella predicazione disobbediente. Di Valdo, dopo questa “rottura”, non ci sono più notizie certe e sembra che sia morto tra il 1206 ed il 1207.

Il movimento valdese, invece, dopo la rottura, deviò completamente in senso antiromano per rivendicare, qualche secolo dopo, una sorta di primogenitura sulla Riforma luterana, fino ad accodarsi, come uno dei suoi tanti rivoli, al protestantesimo. Nel tentativo di fornire basi storiche a detta “primogenitura” fu persino inventata la leggenda per cui Valdo sarebbe emigrato in Boemia dove avrebbe posto le basi per le tesi teologiche più tardi avanzate da Jan Hus, fondatore degli hussiti.

Certo può dirsi che al fondo della faccenda di Valdo ci sia stato un grandissimo equivoco ed un eccessivo irrigidimento dall’una e dall’altra parte. Ma è innegabile che, se questo non avvenne nel caso di Francesco d’Assisi, non può addossarsi ogni responsabilità soltanto alla Chiesa di Roma come se Essa fosse costantemente sorda ad ogni istanza di riforma ecclesiale.

I Valdesi e la Massoneria

Valdo, dunque, non va confuso con i valdesi attuali né con i suoi seguaci a lui contemporanei. Come interpretare la sua scomparsa dopo il richiamo? Segno di una sua sottomissione o solo di un abbandono del campo? Non è possibile dirlo con certezza. Quel che è sicuro è che, come già accennato, furono i suoi seguaci a portare il confronto con Roma fino alla rottura. Con tutto quel che ne conseguì anche in termini di eterodossia.

I valdesi, come detto, più tardi aderirono alla Riforma: e questo potrebbe essere prova del fatto che elementi di eterodossia iniziarono a manifestarsi ben presto nella loro esperienza. Ancora più tardi, i valdesi aderirono a tutti i moti anticattolici della modernità, dall’invasione francese del Piemonte a fine XVIII secolo fino al Risorgimento liberal-massonico.

Molti esponenti di primo piano della comunità valdese, si pensi allo storico Giorgio Spini ed a suo figlio Valdo (nome non casuale), sono stati grandi protagonisti dell’azionismo, ossia del socialismo liberale, italiano e della cultura di matrice laica. La simpatia nutrita da un Adriano Olivetti, che tanto piace a Matteo Renzi, per il filone ereticale della religiosità medioevale, nel quale egli vedeva le stesse istanze del suo solidarismo laico, testimonia di una certa continuità tra detto filone ereticale ed il “socialismo umanitario” moderno. Se non Valdo, certo i valdesi sono pensabili anche come precursori del sansimonismo e del fourierismo.

Ora, si da il caso che, prima di incontrare i valdesi, Papa Bergoglio, abbia incontrato i salesiani nella chiesa di Maria Ausiliatrice e che ricordando la figura di don Bosco – il più noto dei santi sociali nella Torino liberal-borghese, anticlericale e proto-capitalista del XIX secolo, il quale, forte della sua inossidabile devozione alla Madonna, con i valdesi ebbe più di un duro confronto – non ha esitato a parlare, a proposito della capitale del Regno di Sardegna all’epoca in mano a Cavour e soci, di una città massonica, anticlericale e persino demonica con chiara allusione al retaggio esoterico, coltivato dalla massoneria, che ha contribuito a conferire all’attuale capoluogo del Piemonte il triste primato di centro internazionale della controspiritualità occultista.

Controspiritualità della quale secondo alcuni, come Vittorio Messori che pur ama, per esservi vissuto a lungo, quella città, Torino porterebbe le stigmate persino nell’impianto urbanistico-edilizio risalente al piano regolatore progettato dai liberal-massoni in ossequio al simbolismo esoterico ed iniziatico in uso tra i Liberi Muratori.

Orbene, proprio a partire dal XVIII secolo la volontà di rivincita delle comunità valdesi, alleate con i liberali ed i massoni postiti a capo del moto risorgimentale, si fece sempre più virulenta e determinata, con l’appoggio a tutte le leggi anticlericali ed eversive come quella che sopprimeva gli ordini religiosi. Si dirà che si trattò di una comprensibile vendetta. Comprensibile, forse, sul piano esclusivamente storico ed umano. Ma, se la cosa viene osservata da un punto di vista insieme storico e sovra-storico, è innegabile che le intenzioni dei risorgimentali, compresi i valdesi, erano chiaramente intese alla decattolicizzazione dell’Italia e perfino alla soppressione della Chiesa cattolica, protestanticamente ritenuta la “Babilonia apocalittica”. Nel 1870, insieme ai bersaglieri, la breccia di Porta Pia fu attraversata da un pastore valdese, tal Luigi Ciari, che portava con sé il suo cane dispregiativamente chiamato “pionono” ed una carretta di bibbie valdesi per l’opera di liberazione, ossia di protestantizzazione, dei romani, millenarie vittime dell’“oscura tirannia papista”.

L’“epopea” risorgimentale è fatta anche di schiere di vescovi e preti arrestati, uccisi o deportati, di migliaia di soprusi patiti dal laicato cattolico, del razzismo vero e proprio con cui il neonato regno d’Italia trattò la sua popolazione cattolica, in specie al sud ed in altre zone povere come il Veneto: popolazione cattolica che poi, oltre ad esserne la parte più povera, era anche la maggior parte, se non la quasi totalità, del popolo italiano in nome del quale l’unità nazionale era stata fatta. Sicché bisognerebbe chiedersi quanto tutto questo – piuttosto che la mancanza nella storia della Penisola di un evento “civile” come la Riforma, secondo una tesi che non a caso nasce proprio nel XIX secolo – abbia contribuito a determinare il carattere anti-statuale degli italiani.

Dal punto di vista, poi, della Misericordia, che è quello preferito da Papa Bergoglio, la vendetta valdese non è stata meno colpevole della persecuzione cattolica.

Un limite invalicabile per l’ecumenismo

Bene ha fatto, abbiamo detto, Papa Bergoglio a chiedere per primo perdono. Ci aspettiamo ora, benché senza alcuna illusione, che facciano lo stesso anche i valdesi, e tanti altri. Perché nessuno è senza peccato e perché lo scandalo a cui rimediare è piuttosto la divisione tra i cristiani, senza unilaterali imputazioni ai soli cattolici della responsabilità di questa divisione.

Ma anche su questo terreno le cose non sono così semplici come sembrano. Ogni ecumenismo facilone è sempre foriero di equivoci ed ulteriori problemi.

In occasione dell’incontro con il Papa, il rappresentante ufficiale della Tavola Valdese, riferendosi alla recente proposta papale per l’unificazione della data della Pasqua (che a dire il vero il Pontefice ha rivolto agli ortodossi), ha chiesto che cattolici e valdesi possano celebrare unitariamente l’Eucarestia “indipendentemente dalle reciproche interpretazione del sacramento”.

Qui i nodi vengono al pettine.

Se per i valdesi, sulla scorta del soggettivismo teologico che li accomuna a partire almeno dal XVI secolo ai protestanti di ogni setta, si tratta di “interpretazione” – sicché il miracolo della transustanziazione sarebbe dipendente dalla fede “fideistica” del soggetto, e non da Dio, dimodoché credendo il cattolico alla transustanziazione essa diventa realtà, non credendovi il valdese essa non diventa realtà (da notare che in tal modo si fa dell’uomo Dio) – non è affatto così per i cattolici.

Per questi ultimi, infatti, non è la fede del soggetto a determinare la realtà della Presenza Reale di Cristo nel Pane e nel Vino, trasformati nel Suo Cuore e nel Suo Sangue, ma è l’opera stessa del Signore, Sacerdote in Eterno al modo di Melchisedeq.

La transustanziazione non è una proiezione del desiderio o del fideismo del singolo ma è realtà oggettiva indipendente dall’adesione o meno del soggetto alla Rivelazione ed al dogma di fede. Una realtà talmente oggettiva che chiunque può letteralmente toccarla con mano e verificarla, con i suoi sensi, nella molteplice, e coerente con il dogma cattolico, casistica dei cosiddetti “miracoli eucaristici” (Lanciano, Orvieto, Siena, solo per citarne i più noti). Veri grattacapi, come sempre accade per questi eventi, per la scienza la quale, dalle analisi effettuate, ha dovuto convenire che, in detti casi, siamo di fronte a vero sangue umano (del gruppo AB, lo stesso del telo sindonico) e, nel caso di Lanciano, a vero tessuto biologico umano e per la precisione ad un “cuore umano al completo”.

Lo stesso Bergoglio, come ha rivelato in un suo recente libro Maurizio Blondet (“Un Cuore per la vita eterna”, 2014), è stato testimone di un “miracolo eucaristico”, in Buenos Aires, quando era cardinale in Argentina. La scienza – chi ha analizzato il reperto non sapeva cosa fosse né da dove provenisse – ha dato anche in tal caso il suo responso: la particola trasformatasi in carne è un cuore umano “vivo e sofferente”, come quello di un uomo che stia attualmente subendo un martirio indicibile.

L’ecumenismo ha il suo limite invalicabile nell’apostolicità, garanzia della continuità tradizionale risalente direttamente alla Persona Divino-Umana di Gesù Cristo. Persona concreta, vera, toccabile, palpabile e non mero “fantasma” dell’immaginario soggettivo o mera “idea teologica” del singolo teologo o della comunità credente. Si può auspicare e lavorare per l’unità tra Chiese di fondamento apostolico, cattolica, ortodossa, precalcedoniense, copta, etc., ma non con quelle “comunità” che detto fondamento non hanno. O perché, come nel caso del protestantesimo in tutte le sue denominazioni, non lo hanno mai avuto sin dall’origine o perché, come nel caso dell’anglicanesimo e del presbiterianesimo, pur possedendolo all’inizio lo hanno quasi sicuramente perduto strada facendo (la prassi della riammissione dei preti anglicani nella Chiesa cattolica, non a caso, prevede una riordinazione sub condicione: nell’incertezza, circa l’effettiva sussistenza agli occhi di Dio della continuità apostolica, la riordinazione ordina ex novo il convertito, altrimenti è ultronea servendo solo a perfezionare l’ordinazione iniziale).

Il fatto è che con il mondo protestante si può dialogare solo nei termini dell’auspicio della conversione personale del fedele “riformato”, dal momento che non può più parlarsi, in tale ambito, di “Chiese”. Nella esortazione “Dominus Jesus”, Giovanni Paolo II lo ha affermato chiaramente: quelle ortodosse e comunque orientali sono, avendo conservato apostolicità e validità dei sacramenti, vere Chiese; quelle protestanti, senza più apostolicità ed efficacia sacramentale, sono tutt’al più “comunità”.

Linguaggio paterno, quello di Papa Wojtila, che lascia giustamente aperta la porta ai protestanti che vogliano rientrare in seno alla Chiesa di fondamento apostolico. E’ giusto che sia così e che il Papa parli in questo modo.

Da parte nostra – non ci si accusi di essere poco caritatevoli ma si tratta solo di una necessaria puntualizzazione che nulla toglie all’auspicio del ritorno dei “fratelli separati” che riconoscano il loro attuale stato extra-apostolico per porvi rimedio – preferiremmo usare il termine di “setta”. Infatti, in nome del luterano “loss von Rome”, in nome della libertà soggettivistica del “libero esame”, il protestantesimo si è suddiviso in una miriade di espressioni settarie, quante, potrebbe perfino dirsi, sono gli stessi protestanti, spesso le une coltro le altre armate. La più recente, in ordine di tempo, è quella dei “born again in Christ”, che appartiene al novero del fondamentalismo cristianista statunitense, attiguo al cristiano-sionismo.

Come cattolici possiamo, comunque, stare tranquilli. Qualunque artificio ecumenico-teologico gli uomini vogliano inventarsi, esso è irrimediabilmente destinato ad infrangersi contro la roccia, ben salda e ferma, sulla quale Nostro Signore Gesù Cristo ha fondato la Sua Chiesa. La Roccia dell’apostolicità di Pietro e degli altri undici che lo seguivano sulle strade polverose della Palestina del I secolo. Questo limite resta invalicabile e non per volontà umana.

Luigi Copertino