PAOLO SAVONA E IL PIANO FUNK

Di Luigi Copertino

 

Disagio nell’establishment globalista ora che uno dei loro, Paolo Savona, ha aperto alle ragioni dei vituperati sovranisti. Nonostante le sue attuali posizioni, infatti, Savona è da sempre molto legato all’establishment politico ed accademico. Allievo di Modigliani, il quale non era certo un eterodosso, laureato in economia nel 1961, entrò in Banca d’Italia. Cofondatore dell’università di Confindustria, la LUISS, è stato collaboratore di  Guido Carli. E’ membro dell’Aspen Institute. Tra il 1993 e il 1994 fu ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato durante il governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi, quello che pose le basi per l’entrata dell’Italia nella moneta unica. Tra 2005 e 2006 fu a capo del Dipartimento per le Politiche Comunitarie della presidenza del Consiglio dei ministri e Coordinatore del Comitato Tecnico per la Strategia di Lisbona durante il governo Berlusconi. Savona ha sempre respinto l’etichetta di euroscettico. In una intervista a Libero nel 2017 affermò, «io sarei per l’Europa unita, per questo non posso che dire peste e corna di quello che vedo a Bruxelles. Le difficoltà dell’Ue sono colpa delle élite che la guidano».

Dunque si tratta di un economista ben inserito nella cabina di comando,. Ed allora perché mai Matterella, spalleggiato da una sinistra dimentica che l’idea di nazione è di sinistra e dai grandi media nazionali ed internazionali, lo osteggia paventando come un vulnus per l’Italia la sua nomina a ministro dell’economia?

Lo scontro accesosi intorno alla figura del candidato giallo-verde al Ministero dell’economia, ha riportato sulla scena mediatica un antico problema storico – si veda quanto si dirà in proposito di seguito – che la nostra incapace classe politica ignora, ad iniziare da Mattarella dimentico della lezione del suo mentore politico, Aldo Moro, contro le politiche di austerità oggi imposte dalla Germania ordoliberale.

Savona  non nasconde di essere diventato, col tempo, sempre più scettico nei confronti dell’euro e dell’Unione Europea perché, da europeista convinto quale continua a dichiara ancor oggi di essere, ha visto ciò tanti europeisti illusi non vogliono vedere ossia che il progetto sta fallendo e fallirà se non lo si riforma su tutt’altre basi dalle attuali al più presto. Il suo maturato scetticismo nasce dal comportamento della Germania, perché è questa la vera responsabile del progressivo sfaldamento dell’ideale europeista che, lungo i secoli, fu di Carlo Magno, di Carlo V, del Beato Carlo d’Asburgo, di Alcide De Gasperi e via dicendo. E’ l’aggressivo mercantilismo nazionalista della Germania, reso possibile dalla moneta unica senza confederazione politica che ha annullato le sovranità monetarie imponendo ai Paesi deboli il vincolo esterno del rigore alla tedesca, che sta distruggendo ogni ipotesi di Europa. Il nemico dell’Europa non i tanto vituperati populismi, i quali sono soltanto reazioni immunitarie di un corpo un tempo sano ed ora aggredito da una malattia.

Nella polemica in corso è stato tirato in ballo un giudizio di Savona a riguardo della Germania che ha poi provocato la stupida ed odiosa reazione dei media tedeschi, supportati da quelli “liberal” americani ed inglesi. Una reazione che dimostra quanto le osservazioni del nostro economista abbiamo colto nel segno, abbiamo toccato un tasto dolente della storia tedesca ed europea.

Cosa ha dunque detto Savona di tanto eclatante?

Savona sostiene che euro ed UE sono creazioni della Germania, pensati per controllare e sfruttare in modo “coloniale” gli altri paesi europei. Nel suo ultimo libro, in libreria a breve, non esita a paragonare la Germania di oggi a quella nazista:

«La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l’idea di imporla militarmente. Per tre volte l’Italia ha subito il fascino della cultura tedesca che ha condizionato la sua storia, non solo economica, con la Triplice alleanza del 1882, il Patto d’acciaio del 1939 e l’Unione europea del 1992. È pur vero che ogni volta fu una nostra scelta. Possibile che non impariamo mai dagli errori?».

Un giudizio molto duro per un Paese, la Germania, al quale la cultura mondiale deve moltissimo. Ma al tempo stesso un giudizio che ha un indubitabile fondo di verità storica. Nell’intervista del 2017 a “Libero”, Savona rincarava la dose: «Non esiste un’ Europa, ma una Germania circondata da pavidi» e «Quelli che oggi si dicono europeisti in realtà sono anti-italiani». In un’altra intervista al “Foglio” nel 2010 Savona fu ancora più duro: «Anche se si fa finta che il problema non esista, il cappio europeo si va stringendo attorno al collo dell’Italia» aggiungendo «Se l’Italia decidesse di seguire il Regno Unito – ma questa scelta va seriamente studiata – essa attraverserebbe certamente una grave crisi di adattamento, con danni immediati ma effetti salutari, quelli che ci sono finora mancati: sostituirebbe infatti il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti». Ed ancora «L’euro è una creatura biogiuridica costruita male» con una modifica di fatto della Costituzione, attuata con leggi ordinarie da Parlamenti impreparati e superficiali, subordinati a «élite che illudono i popoli». Carli e Ciampi, secondo Savona, sapevano che l’euro sarebbe stato un problema per l’Italia ma hanno voluto lo stesso entrarvi confidando in un esito equilibrato, confederale, dell’Unione, cosa che, nel vuoto politico, non è avvenuta, lasciando il modo alla Germania di occupare le stanze del potere eurocratico e quindi di dominare il continente nascosta dietro l’apparente facciata delle Istituzioni Europee. L’Italia, dice Savona, è così «scivolata in una nuova condizione coloniale, la stessa sperimentata dalla Grecia». Dietro il «paravento della liberaldemocrazia, c’è una concezione sovietica. La conseguenza, in economia, è un nazismo senza  militarismo» avvallato da Mario Monti il «portabandiera del servilismo agli interessi dei poteri dominanti» e da Mario Draghi e Ignazio Visco, accusati di aver contribuito al consolidarsi di questa situazione.

In linea con le posizione del giurista Guarino, Savona ricorda che il problema non sta tanto nel trattato di Maastricht, che, egli  rammenta, Carli firmò con mano tremante, quando nei regolamenti attuativi manipolati dagli ordoliberali tedeschi per rimporre la loro concezione rigorista e deflattiva dell’economia in funzione della centralità della Germania.  L’Ue è  ab origine «viziata da innata ingiustizia» che dovrebbe sollecitare all’Italia quel che segretamente sta facendo la stessa Germania ovvero l’elaborazione di «un piano B per uscire dall’euro se fossimo costretti, volenti o nolenti, a farlo». L’alternativa è «fare la fine della Grecia».

Fin qui, il Savona, diciamo così, polemico. Ma il nostro ha spiegato le sue ragioni, anzi le nostre ragioni di italiani e di europei, anche in termini più scientifici e meno legati alla polemica giornalistica.

In una lettera aperta agli italiani, pubblicata il 25 ottobre 2012 dal sito Formiche.net, Paolo Savona così scriveva:

«Cari amici italiani, temo non vi rendiate conto della gravità della situazione che spinge giorno dopo giorno l’Italia sul sentiero del sottosviluppo economico e della crisi sociale. Al contesto mondiale di crescente concorrenza, si aggiungono gli effetti della natura monetaria non ottimale dell’euro e di una ancor più rigida politica fiscale impostaci dall’UE e da noi accettata sotto l’assillo dell’emergenza, ma ora giustificata come una soluzione, se non ideale, quanto meno plausibile ai mali dell’Europa. Tutto ciò porta alla deindustrializzazione dell’Italia e alla crescita della disoccupazione. Il settore alimentare e quello dei servizi turistici non sono in condizioni di compensare la perdita di spinta dei due motori del nostro sviluppo, le esportazioni di prodotti industriali e le costruzioni. La decisione di Draghi di difendere l’euro, ma a condizione che si rispetti il fiscal compact ed altri impegni europei di volta in volta negoziati, ci offre tempo per agire, ma non risolve i problemi di fondo dell’assetto istituzionale europeo, che vanno risolti con urgenza. Nella mia lettera agli amici tedeschi, che vi prego di leggere, domando loro se sono coscienti che stanno attuando la sostanza del Piano economico avanzato nel 1936 da Walter Funk, il ministro dell’economia nazista, il quale prevedeva che la Germania divenisse il “paese d’ordine” in Europa, che il suo sviluppo fosse prevalentemente industriale, con qualche concessione per l’alleato storico, la Francia, e che gli altri paesi europei si concentrassero nella produzione agricola e svolgessero funzioni di serbatoio di lavoro; infine che le monete europee confluissero nell’area del marco, per seguirne le regole. Volete che ciò accada? Poiché le capacità imprenditoriali del Paese possono trovare sbocco negli investimenti esteri, oltre che in maggiori esportazioni, le conseguenze dell’attuale situazione delle relazioni europee non sono quindi di natura economica, ma prevalentemente politico-sociali. La soluzione dei problemi di adattamento dell’economia alle nuove condizioni geopolitiche interne all’Europa volute dalla Germania, unitamente a quelle che il mercato globale ci impone, va infatti trasferendo la patata calda della disoccupazione e del ridimensionamento della rete di protezione sociale nelle mani della politica, che non è in condizione di raffreddarla, non disponendo di propri strumenti da attivare a tal fine. Non sarà certo la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, pur doverosa, che invertirà il processo di sottosviluppo in atto, che resta eterodiretto e dagli sbocchi sociali imprevedibili».

 

Il riferimento di Savona al “Piano Funk” è storicamente significativo perché con esso il nostro economista vuol dirci che la Germania sta, oggi, attuando con mezzi non militari lo stesso piano di conquista economico del continente che per due volte ha tentato per via militare. L’antico problema storico tirato in ballo da Savona, ed al quale facevamo sopra riferimento, è la convinzione germanica, profondamente radicata nella cultura tedesca, di una superiorità del “modello tedesco”. Una convinzione che non necessariamente è suscettibile di una declinazione, come pure è avvenuto, in termini razziali e che, dunque, ben può nascondersi anche dietro apparenti forme liberali e democratiche.

Il nazionalismo autoritario guglielmino e quello razzial-socialista hitleriano non sono le uniche forme di questo “complesso di superiorità” che alberga nella cultura tedesca e che può farsi risalire a Lutero (da qui l’astio antiromano che ogni tanto riemerge in Germania, come in questi giorni nelle offensive polemiche mediatiche di Der Spiegel). Nella storia tedesca è presente, sin dal XIX secolo, anche un nazionalismo economico che ha resistito indenne alla sconfitta della Germania guglielmina e di quella nazional-socialista per poi riemergere nell’assetto ordoliberale del secondo dopoguerra. Nella Germania guglielmina la maggiore opposizione all’imperialismo militarista venne dagli ambienti finanziari ed industriali. Nel 1911 l’esponente di punta del capitalismo tedesco, Hugo Stinnes, osteggiava apertamente il militarismo pantedesco convinto che la Germania non avesse bisogno di alcuna egemonia militare o di espansioni territoriali ma soltanto di un costante sviluppo economico.

«Lasciateci – diceva all’epoca Stinnes – tre o quattro anni di tranquillo sviluppo e la Germania sarà la padrona incontrastata d’Europa. I francesi oggi sono rimasti indietro rispetto a noi, sono un popolo di piccoli rentier. Gli inglesi hanno troppo poca voglia di lavorare e non hanno il coraggio di nuove imprese (…). In Europa non c’è nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro anni di pace e vi assicuro la predominanza (Vorherrschaft) tedesca in Europa con tutta tranquillità».

Gian Enrico Rusconi, il nostro maggior germanista contemporaneo, qualifica quelle di Stinner come: « … affermazioni tipiche dell’“imperialismo economico senza guerra” cioè dell’intenzione (della augurabilità e della certezza psicologica) di poter ottenere il primato economico senza ricorrere alla potenza militare» (1). L’“imperialismo economico”, con o senza guerra, è il dato costante della costruzione storica dell’identità tedesca. Un dato che ha attraversato, sostanzialmente indenne, i diversi assetti politici della Germania ma anche i suoi diversi assetti economici nel passaggio dal dirigismo economico dell’età guglielmina, al dirigismo nazionalsocialista, fino all’economia sociale di mercato, il capitalismo renano, del secondo dopoguerra. Quindi quando oggi Paolo Savona osserva che la Germania ha fallito il conseguimento della sua aspirazione all’egemonia per ben due volte mediante le armi mentre ha centrato il bersaglio con lo strumento dell’economia e della moneta, coglie una evidenza storica incontestabile per la quale nessuno men che mai i tedeschi, dovrebbe risentirsi.

Savona, nella sua lettera del 2012, ha chiamato in ballo il “Piano Funk”. Un buon economista non può mai prescindere da un approccio che sia anche filosofico e storico. E Savona è senza dubbio un economista di provata competenza. Il suo riferimento ai fatti della storia tedesca comporta la necessità di un approfondimento.

Alla fine del XIX era evidente che la Germania guglielmina fosse una potenza economica emergente, da quando Bismarck aveva imposto l’unificazione del Reich e sconfitto la Francia di Napoleone III. Di contro l’antico vecchio, caro, Impero Asburgico, in via di riformulazione confederale, appariva come declinante ed a rimorchio della potenza tedesca. Questa si stava sostituendo alla “Austria Felix” nell’egemonia all’interno della  cosiddetta Mitteleuropa (“Europa di mezzo”; “Europa Centrale”). Un fatto che non fu di poco conto dato che mentre la concezione imperiale tradizionale di Casa Asburgo tendeva, cattolicamente e romanamente, all’Impero inclusivo, nel quale tutte le componenti, pur nell’egemonia dell’elemento austriaco (ma, come detto, dopo il 1848, l’Impero aveva preso una direzione che lo stava portando verso un assetto di eguaglianza confederale di tutti i suoi popoli), erano chiamate all’unità nella riconosciuta diversità, la visione “imperialista”, più che “imperiale”, del Reich tedesco fondato da Bismarck mirava alla supremazia dei tedeschi in un quadro nel quale le altre eventuali componenti mitteleuropee erano di fatto destinate ad una posizione di subalternità alla Germania.

Con Bismarck, la Germania accampava la sua leadership sulla Mitteleuropa, area geo-politica che più che una zona geografica assurgeva nella visione imperialista bismarchiana ad un “destino manifesto” per la volontà suprematista della nuova Germania. Il “kulturkampf” anticattolico si spiega con l’intenzione di affermare un primato culturale tedesco nella rivendicazione del contributo germanico al cammino dell’umanità, tra il XVII e XIX secolo, contro l’esclusivo appannaggio della civiltà da parte della “eredità romana”. Un “sentimento antiromano”, questo, che il giovane Carl Schmitt, ancora all’epoca esponente dell’altra Germania, quella che aveva resistito a Lutero (e della quale ultimo attuale epigono è Joseph Ratzinger/Benedetto XVI), in “Cattolicesimo romano e forma politica” del 1923, lamentava quale veicolo di dissoluzione. Un “sentimento antiromano” che, non a caso, ritornerà espressamente nel manifesto politico programmatico del Partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi.

Il concetto ideale di “Europa Centrale”, come riformulato imperialisticamente dal Reich bismarchiano, esprimeva la volontà tedesca di dominare il cuore del continente europeo e da lì estendere progressivamente il suo influsso verso il Mar Baltico a Nord e le Alpi a Sud, a Ovest verso la Francia e a Est verso la Russia, la Polonia, la Lituania, l’Estonia e la Lettonia. Il 21 gennaio 1904 fu creata a Berlino l’Associazione Economica Centro-Europea (Mitteleuropäischer Wirtschaftsverein), finalizzata all’integrazione economica dell’Impero Tedesco e del suo addentellato Austro-Ungarico con l’auspicio di una successiva estensione alla Svizzera, al Belgio ed al Lussemburgo. Nel 1915, a guerra mondiale in corso, Friedrich Naumann, teorico del pangermanesimo, pubblicò un saggio, non a caso titolato  “Mitteleuropa”, nel quale esponeva le ragioni per le quali, al termine della guerra, era necessario creare una “grande area economica Centro-Europea” mediante una unione politica che riunisse tutte le popolazioni di stirpe tedesca. Naumann auspicava una federazione mitteleuropea dominata, centralmente, dalla Germania e protesa sia verso ovest che verso est.

La sconfitta nella Grande Guerra non comportò la fine dell’aspirazione tedesca  all’egemonia continentale che, infatti, ricomparve, dal suo scorrere carsico, negli anni trenta quale elemento centrale del programma nazista. Erra chi pensa al nazionalsocialismo tedesco come ad una mera ideologia nazionalista e borghese. Esso era al contrario una ideologia di imperialismo politico sorretta dalla mitologia del “destino manifesto germanico”. Non a caso il nazismo si presentò, contro l’effettiva ingiustizia di Versailles, come l’opposizione di civiltà all’Occidente capitalista, chiamando tutti gli altri nazionalismi sociali alla collaborazione in nome del “Nuovo Ordine Europeo”. Un Ordine che in realtà nascondeva la volontà di egemonia  tedesca sul continente europeo e riecheggiava pedissequamente le idee di Naumann. L’Italia, come noto, cadde nella trappola, nonostante che nel 1934 arrivasse quasi allo scontro con la Germania a difesa della piccola Austria. Ma, per la miopia anglo-francese, nella questione dell’Etiopia (2), l’Italia fu letteralmente gettata tra le braccia di Hitler, l’unico che si schierò a suo favore in quell’occasione.

Il tecnico che diede corpo al programma europeista del nazismo fu Walter Funk al quale va la paternità del cosiddetto “Piano Funk”, richiamato da Paolo Savona nella sua lettera agli italiani. Nel 1921 Funk era editore del giornale finanziario “Berliner Borsenzeitung”. In tale veste, alla luce della sconfitta bellica, egli propugnava l’“imperialismo economico senza guerra” quale via che la Germania avrebbe in futuro dovuto seguire. Nel 1931, tuttavia, aderì al nazismo assumendo la carica di presidente della sezione per la politica economica del partito. Successivamente, nel 1938, diventò titolare del dicastero per l’Economia appoggiato da Hermann Goering. Quando, nel 1939, Hjalmar Schacht, il banchiere ebreo di Hitler ed autore del risanamento dell’economia germanica disastrata dalla deflazione seguente alla crisi del 1929, entrò in rotta con il regime, per via della finalizzazione bellica che Hitler voleva imprimere alla politica economica del Reich, Walter Funk fu nominato al suo posto  Governatore della Reichsbank, l’antesignana della attuale Bundesbank, la Banca Centrale tedesca. In qualità di ministro per gli affari economici del Terzo Reich dal 1938 al 1945, egli pianificò la strategia per il predominio economico della Germania che doveva accompagnare la conquista militare dell’Europa.

Il cosiddetto “Piano Funk” fu enunciato nel discorso “La riorganizzazione economica dell’Europa” del 25 luglio del 1940. Il Piano, che chiamava a suo padre nobile nientemeno, e non del tutto a torto, che Hegel, prevedeva la realizzazione dell’autonomia continentale in ordine alle materie prime ed ai processi di trasformazione. Si trattava di una vera e propria “autarchia europea” che ereditava le idealità della Mitteleuropa bismarchiana integrato dalla prospettiva giuridico-geopolitica del “Grande Spazio” di Carl Schmitt e dal progetto di dominazione razziale della dottrina nazista. Il Piano Funk, in modo analogo a quanto affermano gli economisti tedeschi attuali che credono applicabile ovunque l’ordoliberalismo germanico, dichiarava l’indispensabilità del modello politico-economico nazionalsocialista per il Nuovo Ordine Europeo, nella convinzione che esso fosse idoneo per tutti le altre nazioni europee.

Il “Neuordnung Europas”, Nuovo Ordine Europeo, doveva creare un’area economica continentale, estesa al Nord Africa ed al Medio Oriente, integrata e autosufficiente ma egemonizzata dalla Nazione Guida ossia dalla Germania. Il Terzo Reich doveva essere il nucleo centrale di una “alleanza” di nazioni sottoposte  alla penetrazione della potenza industriale e finanziaria tedesca e le cui risorse sarebbero affluite verso il centro ovvero verso Berlino. Analogamente, con l’eurozona a moneta unica attualmente la economie periferiche dell’Europa meridionale sono diventate dipendenti dall’economia centrale della Germania, che le schiaccia disciplinandole mediante l’imposizione eurocratica del rigore deflattivo al fine di difendere il proprio surplus commerciale generato dalle esportazioni finanziate con il credito delle banche tedesche agli euromeridionali (i quali pertanto, privi di sovranità monetaria, sono costretti alle “riforme strutturali”, come la Legge Fornero o il Job Act, al fine di ripagare il debito estero contratto con le banche tedesche).

Secondo il “Piano Funk”, la Germania, egemone in Europa, avrebbe coordinato imperialisticamente le economie di questa aggregazione di nazioni le cui popolazioni sarebbero state riserva di manodopera per l’industria tedesca. Analogamente, oggi molti nostri giovani sono costretti ad emigrare in Germania per lavorare. Funk era convinto che il suo Piano sarebbe stato vantaggioso anche per le nazioni alleate-subalterne e le nazioni conquistate. Allo stesso modo la Germania della Merkel è oggi convinta che il proprio modello ordoliberale debba essere adottato da tutti gli altri Paesi europei per gli intriseci vantaggi che ne deriverebbero per l’intera Unione Europea.

Il Piano di Funk aveva tra i suoi obiettivi principali la creazione di una nuova moneta all’interno della grande area economica del Nuovo Ordine Europeo. Sarebbe stato il ruolo egemone del marco, espressione della potenza del Reich, ad istituire l’area valutaria comune che avrebbe poi portato ad una “moneta generale”, sganciata dall’oro, con l’eliminazione del cambio onde livellare i differenziali nazionali e favorire l’espansione economica a guida tedesca.

Non si creda che le idee di Funk, al di là del contesto nazista nel quale furono espresse, fossero, per certi profili, monetariamente assurde. Secondo Funk la “moneta generale” non doveva essere più ancorata all’oro come nel sistema, all’epoca ancora vigente, del gold-standard. Essa era da lui presentata come “moneta-lavoro” il cui valore doveva essere stabilito dallo Stato (3). Tesi monetarie simili non erano all’epoca estranee al dibattito degli economisti, che finalmente iniziavano a prendere coscienza che la moneta non ha alcuna necessità di copertura aurea perché essa non è una merce. J. M. Keynes sosteneva tesi analoghe a quelle di Funk circa la moneta senza copertura aurea e le sostenne, inascoltato, anche alla Conferenza di Bretton Woods nel 1944, la quale oppose al Nuovo Ordine Europeo hitleriano il Nuovo Ordine Mondiale dei vincitori, ad egemonia americana. Analogamente a quel che pensava Keynes riguardo al “bancor”, la moneta di conto, senza copertura aurea, che egli propose a Bretton Woods per il futuro sistema monetario internazionale, anche Funk riteneva che la “moneta generale” doveva essere sostenuta da un sistema di compensazione europeo dell’import-export tra le nazioni ad essa aderenti o costrette militarmente dalla Germania ad aderirvi. L’aspetto che rendeva buona e giusta una idea, quella della moneta-lavoro di Stato, in luogo della vecchia idolatria aurea, era per l’appunto la strumentalità che Funk ne faceva agli scopi dell’egemonia tedesca. Così perfidamente piegata ad obiettivi di predominio la tesi della moneta-lavoro di Stato fece della teoria anti-aurea una questione sospetta – infatti a Bretton Woods Keynes non riuscì a farla passare, nonostante ogni evidenza scientifica – fino al 1971 quando anche il gold exchange standard, stabilito nella Conferenza inter-alleata del 1944, fu abolito dai fatti stessi ai quali seguì la pleonastica presa d’atto da parte di Nixon. La perversione della giusta intuizione monetaria, portò Funk ad assegnare, nel sistema di compensazioni previsto dal suo Piano, alla Germania il totale controllo dei flussi commerciali e finanziari, mediante l’imposizione della politica economica tedesca da ottenere attraverso le alleanze subordinazioni o la conquista militare.

Nel Piano Funk era previsto il totale controllo e l’assoluto condizionamento da parte della Reichbank della nuova “moneta generale” mediante l’adeguamento delle politiche economiche di tutte le altre nazioni europee alle linee dettate dalla Germania, Nazione Guida della Nuova Europa. La “moneta generale”, ipotizza da Funk, si coniugava alla perfezione con il progetto della creazione di una area valutaria continentale aggregata mediante la forza delle regole imposte dalla Nazione Guida. Il Piano Funk, nonostante alcune intuizioni monetarie fondate che, del resto, erano nell’aria e non erano certo una esclusiva tedesca, restava un folle programma architettato per il predominio di un popolo sugli altri. Un Piano che sventolava il vessillo della comune civiltà europea, “per aggregare come una calamità il pulviscolo d’Europa” (così declamava poeticamente la sua fede nell’ideale europeista hitleriano un grande scrittore francese come Drieu La Rochelle), ma che in realtà tradiva l’ideale europeo e la stessa civiltà europea.

«Sono impressionanti le analogie – scrive Antonio Maria Rinaldi, amico, collega e collaboratore di Paolo Savona, a proposito del Piano Funk – e le corrispondenze con l’attuale situazione che di fatto si è andata a determinare ai nostri giorni, se non costatando fortunatamente con sollievo, che l’originario Piano Funk si sarebbe potuto concretizzare solo ed esclusivamente a seguito di preventive e consolidate conquiste militari, mentre l’attuale situazione si è determinata con il consenso più o meno consapevole di tutte le nazioni europee con la sola apposizione della propria firma sui Trattati al punto da poter constatare che siamo attualmente in presenza della variante “in tempo di pace” del Piano Funk. Richiamare alla nostra memoria pagine così sconvolgenti … è … una pacata riflessione su una pagina della nostra storia recente che le nostre classi dirigenti sembrano aver frettolosamente ignorato o dimenticato, nella certezza che chi ignora la propria storia è condannato a riviverla. In questo scenario la maggioranza dei governi dell’euro-zona sembrano essersi comportati come quello francese collaborazionista di Vichy, guidato dal 1940 al 1944 dal Generale Philippe Petain, fantoccio agli ordini del Terzo Reich, con l’aggravante odierna che almeno allora i francesi furono costretti con la pistola puntata alla nuca, mentre invece i responsabili odierni sembrano aver peccato d’ignoranza (dal verbo ignorare, non sapere) e di ingiustificabile servilismo (ad essere generosi). Anche in questo caso vale la pena di ricordare che i francesi, a liberazione avvenuta, processarono il loro Generale per alto tradimento condannandolo alla pena capitale, tramutata successivamente da De Gaulle in ergastolo, nonostante la maggioranza dell’opinione pubblica fosse stata favorevole alla fucilazione alla schiena per la sua collaborazione con i nazisti che tanto sfacelo avevano inflitto alla Francia nei quattro anni di occupazione. (…) nutro grande rispetto e ammirazione per il popolo tedesco, ma ho ancora timore che quando qualche persona o gruppo … si insidia alla guida di quella nazione anche con mezzi democratici, pensando però che i metodi da esso adottati siano i migliori al punto da pretenderne l’imposizione altrui, si è più che legittimati nel dubitare sulle sue effettive intenzioni, attivandosi con tutte le forze e energie possibili affinché non vengano realizzati (tali progetti). (…) continuo fortemente a ritenere che l’attuale aggregazione monetaria e le regole poste per il suo governo, siano state frettolosamente costruite senza la necessaria preventiva condivisione e che il suo mantenimento sia stato affidato sempre più a meccanismi automatici che hanno finito per estraniare qualsiasi elementare principio di democrazia dai processi decisionali con l’inevitabile conseguenza di aver avvantaggiato alcuni a discapito di altri» (4).

Ora, torniamo a Savona per chiederci cosa mai di assurdo, se non per gli interessi della finanzia apolide e del predominio tedesco in Europa, egli abbia perorato da meritare il trattamento, molto simile a quello che fu riservato ad Ezra Pound, di “pericoloso sovversivo”. A noi sembra che Savona, ripensando il suo iniziale ottimismo verso l’UE per come essa si è andata non democraticamente sviluppando, non ha fatto altro che una professione patriottica in chiave di europeismo confederale che costruisca meccanismi contro il pericolo del predominio delle nazioni più forti su quelle più deboli.

Citiamo ancora direttamente dalla sua “Lettera agli italiani”

«La soluzione dei nostri mali passa da una ridefinizione dell’architettura monetaria internazionale, spostando il riferimento degli scambi su una moneta di conto internazionale, come sarebbero i diritti speciali di prelievo riformati, e aggiungendo alle clausole del WTO l’obbligo dello stesso rapporto di cambio. A livello europeo, rinegoziando i patti per trasformare l’organismo giuridico che ha preso a funzionare dopo Maastricht in un creatore di opportunità e non solo di vincoli che portano alla deflazione. Il cambio fisso all’interno dei 17 paesi dell’euroarea, con la possibilità degli altri 9 paesi membri dell’UE e del resto del mondo di poter aggiustare il rapporto e la certezza che il dollaro resterà comparabilmente debole, tiene l’euro sottovalutato per alcuni e sopravalutato per altri; insieme alla confusione (forse conseguente) del nostro clima politico, il rapporto di cambio fuori equilibrio causa un lento trasferimento dello sviluppo industriale verso la Germania e le poche altre aree industriali forti. Le politiche europee di compensazione che sarebbero indispensabili per fronteggiare la non ottimalità monetaria dell’euroarea si vanno trasformando in politiche nazionali di vincoli nell’uso degli strumenti fiscali e in limitazioni palesi e occulte nel movimento degli input e degli output. Tutto ciò accelera il processo di trasferimento dello sviluppo dalle aree in difficoltà a quelle che non lo sono. Il caso greco dovrebbe pur insegnare qualcosa. Ritenere che il rigoroso rispetto delle attuali regole europee ci porti fuori da questa situazione è pura illusione, forse una vera follia. L’atteso “rimpiazzo” della domanda privata a seguito della riduzione della domanda pubblica e gli effetti delle riforme (principalmente liberalizzazioni e modifiche del mercato del lavoro) non sono certi, né quantificabili, e, anche a volerli considerare possibili, si manifestano con molta lentezza, mentre gli effetti della crisi sono rapidi e causano irrimediabili perdite di capacità produttiva e di aree di mercato. Quando i vagoni si staccano da una locomotiva in corsa difficilmente possono essere riagganciati».

 

Dato che, mentre scriviamo giungono notizie gravi in ordine alla gestazione del governo del quale Savona avrebbe dovuto essere ministro, pare che più che un parto si stia profilando un aborto per rinuncia di Conte all’incarico, è palese che il presidente Mattarella, con la sua opposizione, di dubbia legittimità costituzionale a giudizio di autorevoli giuristi come Costantino Mortati, all’incarico a Savona, si è assunto una pesantissima responsabilità politica e storica. Non saremo noi ad indignarci se qualcuno in futuro gli rimproverasse – a lui cattolico progressista e democratico – di essersi mostrato prono e subalterno ad un progetto eurocratico fondato sulla volontà nazionalista di predominio mercantilista della potenza egemone ossia la Germania ordoliberale ancora guidata dal suo atavico “complesso di superiorità” anche se oggi non più declinato in termini razziali.

 

Signor Presidente ci rifletta, seriamente!

Luigi Copertino

 

NOTE

  • Gian Enrico Rusconi, “1914: attacco a Occidente”, Il Mulino, Bologna, 2014. Le citazioni di Hugo Stinner sono a pp. 278-279 e p. 285.
  • Le “inique sanzioni” segnarono il momento di massimo consenso per il regime di Mussolini, anche tra gli antifascisti, come Benedetto Croce e Palmiro Togliatti, indignati dall’atteggiamento ipocrita delle maggiori potenze coloniali dell’epoca, Francia ed Inghilterra, che riuscirono, mediante la Società della Nazioni da esse controllata, ad imporre all’Italia sanzioni economiche che la costrinsero alla politica autarchica. Si potrebbe fare, in quanto a cecità, un parallelo con quanto accade oggi quando l’intero sistema politico mediatico globalista si scaglia contro il duo Salvini-Di Maio.
  • Questa idea di una “moneta-lavoro” emessa dallo Stato entusiasmò Ezra Pound. Walter Funk nel 1940 aveva così presentato il progetto della nuova moneta: «L’oro in avvenire non sarà più la base delle valute europee, in quanto che la moneta non è subordinata alla sua copertura, bensì al valore che le assegna lo Stato. Noi non seguiremo più una politica monetaria che ci faccia dipendere dall’oro». Pound commentò entusiasta su “Meridiano di Roma, del 13 ottobre 1940, in un articolo titolato “Di una nuova economia” e poi, il 23 novembre 1941, in un altro articolo dal titolo “Oro”. Nel primo dei citati articoli, Pound scriveva: «La controversia di 20 anni è stata finalmente sistemata coi libri di Odon Por e le dichiarazione del Reichsminister. Poggiamo il piede su terreno solido e non sulla carta. E’ riconosciuta la natura della moneta, cioè moneta statale, garanzia di potenza d’acquisto». Nel secondo articolo Pound accostava la posizione di Funk a quella del ministro fascista degli scambi e valute Raffaello Riccardi, scrivendo: «La visita del Reichsminister Funk a Roma, entra nell’ordine dell’anno meraviglioso. In quest’anno il Duce parlò ai coloni dell’Agro Pontino. Siamo agli inizi dell’anno XX. Con ogni discorso del ministro Funk o del ministro Riccardi la nebbia intorno al problema dell’Oro si indebolisce un poco. Se il popolo americano avesse una chiara concezione della natura della moneta; se gli americani fossero capaci di definire la moneta in parole giuste, Roosevelt e Morgenthau andrebbero all’ergastolo, di fatto non sarebbero mai arrivati in posizione di poter truffare gli S.U.A. per miliardi di dollari. La concezione giusta della moneta fa strada. Ogni volta che parla Funk, o Riccardi, l’antica infamia che si chiama Banca d’Inghilterra, o sistema monetario demo-liberale, è portata un po’ più vicino alla sua tomba sporca e da disonorare. La moneta non è oro. La moneta è titolo o mandato del governo». Ma non era solo Ezra Pound a prendere in seria considerazione questa aspetto della rivoluzione monetaria di Funk, purtroppo troppo sottovalutandone le implicazione di egemonia tedesca che ne distorcevano la base di verità monetaria. Francesco Vito, professore d’economia politica corporativa all’Università cattolica del Sacro Cuore, aveva a sua volta commentato la dichiarazione monetaria di Funk nell’articolo “La moneta-lavoro”, apparso su “Vita e Pensiero” (la rivista della sua Università) nel gennaio 1941, che concludeva una serie di interventi accademici dedicati a “La ricostruzione economica europea”. Non tutti, in questi giorni di polemiche, ricordano Savona, nel 1996, ha firmato la prefazione del libro di Ezra Pound “Lavoro e usura”, per le edizioni “All’insegna del pesce d’oro” di Vanni Scheiwiller, esprimendo una opinione su Pound non denigratoria, e non come poeta ma come studioso dei problemi monetari. In quell’occasione Savona espresse apprezzamento per le tesi del poeta americano giudicate una «reazione intellettuale a una realtà difficile» e riconoscendo che in esse «si trovano concetti di penetrante attualità». Tuttavia, da economista ortodosso, poi Savona affermava che le tesi poundiane non sono adeguate alla realtà odierna dei sistemi monetari. Savona ricordava che economisti scientificamente accreditati, come Keynes, avevano presentito le stesse problematiche monetarie di Pound ma dando risposte meno letterarie, avevano, in altri termini, «studiato con pazienza e corretto con tenacia i sistemi finanziari nazionali e quello internazionale, affinché non si ripetessero gli errori del passato e si riducessero i difetti del suo funzionamento». Ed aggiungeva Savona «la scienza economica ha fatto molti progressi rispetto all’epoca in cui Pound è vissuto e non è più possibile che si ripetano errori monetari o reali come quelli che condussero alla Grande depressione del ‘29 o al “Grande Indebitamento” dello Stato negli anni Settanta». Dichiarazione di Savona del 1996, quando Maastricht era appena stato firmato e tutto sembrava procedere bene. Sarebbe interessante sapere cosa pensa oggi Savona delle sue affermazione di allora alla luce di una crisi, quale quella attuale, che non solo ha riproposto tutte le problematiche poundiane degli ‘anni 30 ma è ancora peggiore di quella del 1929. Riteniamo che, oggi, il professore abbia cambiato idea circa la stabilità del sistema finanziario globale e, forse, rivalutato Pound anche oltre la sua “penetrante ma dilettante capacità di penetrazione intellettuale”.
  • Antonio Maria Rinaldi, “Il Piano Funk”, 18.01.2014, reperibile sul web.