Occidente. Il brivido dell’agonia

Look back on Time, with kindly Eyes –
He doubtless did his best –
How softly sinks that trembling Sun
In Human Nature’s West.

 

  1. Dickinson –

 

 

 

In questo nostro contributo andiamo a riprendere, in particolare, alcune suggestioni tratte dalla significativa intervista di Aldo Maria Valli ad Alessandro Gnocchi, pubblicata su “Riscossa Cristiana”. Premettiamo che, a nostro modo di vedere, a rigore non vi è rapporto “gerarchicamente ordinato” tra dottrina e santità, le due realtà afferendo ad ambiti diversi; noi, tuttavia, ci concentreremo più sulla prima, visto che la seconda ci è in nuce inaccessibile (non essendo noi dotati del carisma della “cardiognosia”); mentre le “variazioni” dottrinali, per esprimerci in lessico ameriano, possono essere mostrate con oggettività. Il discorso, che deve essere considerato una sommaria introduzione al problema, riguarda anche (soprattutto?) la cd. “civiltà occidentale”. A questo proposito, si proporranno anche degli spunti ideologici e personali (nel senso di una “testimonianza”, per quanto modesta, vissuta anche in prima persona) “paralleli”, legati ai temi affrontati, ma non direttamente connessi all’ubi consistam dell’articolo; da questi, il lettore potrà ripartire per affrontare de visu paesaggi teoretici “laterali”, ma spesso cruciali.

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Secondo R. Girard, il sacro è la violenza; ma esso è anche ciò che per eccellenza è inviolabile, ed in quanto tale separato dal pro-fano. Col sacrificio, espressione suprema della “sacralità” della violenza, si placa l’ira degli Dei, per “desiderio mimetico” o sostituzione: la vittima è innocente, deve essere tale in quanto pura, e quindi degna di essere offerta ai numi celesti. Inoltre, Dio, in un certo senso, si identifica col tempo che corrode e rigenera tutte le cose, proprio perché le corrode (si noti il rapporto etimologico tra “tempus” e “tempestas”, che in latino, presso quest’ultimo termine, diviene significativamente una equivalenza semantica): “il tempo che passa è Dio che viene”. La violenza del tempo (anche atmosferico!) è espressa, ad es., dal fulmine come attributo divino di Zeus; è inutile menzionare, al proposito, anche la spada di Cristo, che separa nettamente Verità da errore, e il martello di Thor, con cui la divinità nordica sconfigge i nemici.

Noi viviamo nell’epoca a parole più avversa alla violenza (il “pacifismo” come dottrina “diffusa” appartiene di diritto alla fenomenologia ideologica contemporanea), ma in pratica più efferata della storia: aborti di massa, snuff movies, guerre tribali ovvero “democratiche”, con inediti massacri di civili su larghissima scala, traffici di esseri umani e di bambini a fini immondi (anche rituali!) lo possono dimostrare senza tema di smentita (per non parlare della distruttiva violenza “psicologica” e spirituale, sulle quali discorreremo oltre). Lo stesso Cristianesimo si fonda essenzialmente sul sacrificio supremo di Dio, a partire dalla Sua Incarnazione, col culmine della Croce: che non è certo la violenza adelphianamente rielaborata ed offerta in pasto alle élites colte da noia estetizzante. D’altra parte, fede, fiducia e fedeltà hanno la medesima radice etimologica: appartengono alla medesima area semantica, ma non si identificano. Si può dire che, nel cattolicesimo, la fede si esprime nella dottrina – senza che quella si possa ridurre a questa –, e che la relazione personale con Cristo si nutre essenzialmente di fedeltà al suo insegnamento e di “fiducia sovrannaturale”; nella mistica, la forma eccelsa di fede in Dio è, per l’appunto, l’abbandono alla Provvidenza, con la “neutralizzazione” della volontà individuale e lo “svuotamento” dell’ego, che fa “spazio”, come in San Giovanni, a Cristo: una sorta di abissale trasfigurazione della fede “intellettuale” in Vita divina condivisa. Come attesta la Scrittura, vi è un “sesto senso” che trascende l’intelletto.

Nell’intervista sopra citata, Gnocchi non ridimensiona affatto, come qualcuno ha affermato, la portata storica (“rivoluzionaria”) del Vaticano II, ma considera il Concilio più come effetto che come causa, e pour cause. Esso, per così dire, è stato come il “sigillo notarile” per certe correnti di pensiero, dapprima sotterranee ed implacabilmente condannate, poi carsicamente riemerse ed ufficialmente “sdoganate” (per lo più con la tecnica overtoniana, praticata con le eccezioni alla norma, o con le note a pie’ di pagina).

Pure, nell’ambito del vorticoso gioco di specchi messo in luce da D. Fabbroni nel suo pregevole “Il ’68. Magie, veleni e incantesimi SPA” (prima edizione 2013; poi Solfanelli 2017), sarebbe d’uopo individuare le relazioni storiche e teoretiche tra alcuni teologumeni conciliari ed i miasmi sessantotteschi. Cronologicamente, e dottrinalmente, alcune evidenze si manifestano: a parte la breve distanza diacronica tra Concilio ed “esplosione” del ’68 (i tumulti di Berkeley furono più o meno coincidenti con la fine del Concilio), si possono menzionare il culto dell’uomo, la contestazione dell’autorità — già però dimidiata, per paradosso, da un “temporalismo” ecclesiale che, alla lunga, ha nuociuto alla medesima: e di questa “debolezza” dell’autorità fu testimone e parte in causa il fascismo, sorta di “religione” titanica, e purtroppo, per quanto ammirevole in molti suoi aspetti irrimediabilmente monca –, la idea di “prassi” come Leitmotiv soggettivistico e contraltare della incipiente dissoluzione teoretica, col passaggio dal sentimentalismo alla religione della sensazione e della situazione. R. Laurentin, mariologo non “tradizionalista” che fu perito al Concilio, mise bene in luce alcune di queste “analogie” tra i due fenomeni epocali. A casa nostra, si deve rilevare come M. Boato e M. Capanna non provenissero da conventicole marxiane, ma da gruppi cattolici; l’acronimo di “Lotta Continua”, rovesciato, fa CL (si noti l’accentuazione, nell’acronimo, sull’aspetto “comunitario” e “liberatorio” della “esperienza cristiana”), e molti dei neanche tanto sotterranei fondi “radicali” (espressi fin nel nome!) di alcuni movimenti cattolici del tempo dovrebbero essere approfonditi. Degli ultimi epigoni di questa ideologia “informe” (liberale, liberista, libertaria) vi sarebbe da discutere per giorni: tra gli altri, ricordiamo alcuni gazzettieri come C. Gambescia, che può impunemente sostenere che Renzi e Monti hanno salvato l’Italia (http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/) e L. Capone, scriba de “Il Foglio” e nerd di regime, difensore col pallottoliere di tutti i mondialismi possibili e immaginabili (https://twitter.com/lucianocapone). Il “quarto potere”, la sociologia, la psichiatria, la psicologia, e ovviamente il modernismo “cattolico” hanno costituito autentiche armi di distruzione intellettuale (e, di conseguenza, morale) di massa, con la direzione “occulta” (ma non del tutto inaccessibile) di accorti “strateghi culturali”: che fondano il loro operato, nel quadro ubiquo della “società dello spettacolo”, su chiacchiera, curiosità ed equivoco.

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Gnocchi, giustamente, afferma che formalismo (che può essere istituzionale, ma anche rituale) e giuridicismo costituivano degli “eccessi” ben prima del Vaticano II. Il primo era una deriva prodottasi, per usura storica, a partire dalla forma della religione cattolica: che ha dogmatizzato e ritualizzato quasi tutto ciò che era dogmatizzabile e ritualizzabile. Noi aggiungiamo che è proprio contro queste derive che la rivoluzione conciliare ha potuto agire, con argomenti talora validi ma strumentalmente utilizzati: contro l’autorità, che era divenuta, in particolare presso alcuni pontefici, pure ammirevoli per condotta personale e per governo della Chiesa, autoritarismo (“la Tradizione sono io” di Pio IX): la deriva ha prodotto, per reazione (fenomeno di per sé squilibrato, come insegna la fisica), un esiziale cortocircuito, che ha a sua volta dato luogo all’esito attuale di colossale, grossolana informalità dottrinale, pratica e rituale (benedizioni sghembe e i famigerati, inascoltabili “buonasera, buon pranzo, buon lavoro”).

Per entrare nel dettaglio teoretico: il celebre passo di Gaudium et Spes 22 (“Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”: questo modo, “quo modo”, non è mai stato precisato con chiarezza), che pare dare la stura al “cosmismo” del mefitico falsario Teilhard de Chardin, si risolve nella esplicita legittimazione del “culto dell’uomo” in terra, e dell’apocatastasi in cielo. L’antropocentrismo, che diverrà poi autentica antropolatria (i famosi “diritti civili”, la “libertà di scelta” anche nell’omicidio dell’inerme da parte della madre, l’”autodeterminazione”, e tutte le vaghe deiezioni affini) e, quindi tecnicamente, satanismo, si manifesta in tutta la sua mediocrità, ritualmente, nel Novus Ordo Missae, col presidente di assemblea (così Paolo VI definì in un documento ufficiale la nuova messa!) che, rivolto al “popolo di Dio”, officia un culto comunitario che soddisfece – a ragione! — le più avanzate fisime ecumenistico-protestantico-modernistiche del tempo. Già S. Pio X, ai primi del ‘900, si chiedeva se l’Anticristo non fosse stato già “sguinzagliato” per il mondo, e Padre Pio stesso, verso il 1960, affermò che Satana avrebbe governato la Chiesa (presumibilmente, quindi, per il tramite di un “papa”); tutto questo, sospettiamo con più di qualche indizio, potrebbe essere connesso con il “segreto non rivelato” di Fatima. Con Bergoglio – che però non vive ancora a Zagarolo, non è un rinunciatario a fin di bene e, a nostra conoscenza, non ha per fidanzata una teosofa di Bangalore — si è passati a una esplicita (ma ben veicolata, dal suo punto di vista, per il tramite di un ottimismo sentimental-sensistico che spesso ottunde le masse, già inebetite dall’abuso di internet, TV e “social”), volgare collaborazione con i sacristi del “Nuovo Ordine Mondiale” (già operante, ad ogni modo, anche con Ratzinger, fin dalla “Introduzione al Cristianesimo”, del 1968, mai ritrattata, neanche nel punto in cui l’A. auspicava una integrazione del cattolicesimo coi valori della rivoluzione francese): la differenza coi papi “conciliari” precedenti è di grado (di “stile”, si potrebbe dire), e non di natura.

Oggi, anche molti conservatori già tradizionalisti tacciono, o giocano a fare gli equilibristi di regime, confermando che, di massima, “ogni rivoluzionario (i.e. “tradizionalista”) ad un certo momento diventa conservatore”. Il nemico interno è un traditore; non bisognerebbe, per amore della Verità, averne alcuna pietà.

E tuttavia: cosa c’era che bolliva in pentola, da tempo?

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Qualche chiosa “dottrinale” sulle fonti “remote” (con “eterogenesi dei fini”) della rivoluzione non sarà qui fuori luogo. Una sorta di “svolta psicologistica” caratterizzò la storia della Chiesa nel ‘600: ne dà un ritratto notevole M. Bergamo, ne “L’anatomia dell’anima: da François de Sales a Fénelon” (Il Mulino 1991). Ciò si manifestò, in particolare in ambito “mistico”, con l’accentuazione/concentrazione sulla funzione della volontà, e in tendenziale contrasto con quanto raccomanda, ad es., “L’imitazione di Cristo”. Anche Duns Scoto (m. 1308) fu di orientamento volontarista, e secondo C. Bianco costituì la fonte della “soggettività” come autonomia della persona (“Ultima solitudo. La nascita del concetto moderno di persona in Duns Scoto” [Milano 2012]). Volontarismo dice scelta, e scelta dice, oggi, psicologismo, col portato di una angoscia “metasociale” (cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società [Einaudi 1998]) che è la Stimmung radicale della nostra epoca, e che riproduce – fatte le debite proporzioni — l’abbandono di Cristo in croce; essa affonda le proprie radici negli états d’esprit “liberati” diuturnamente nell’aere di Occidente, e pertanto può facilmente divenire disperazione. Questa stessa autonomia è il vertice della speculazione occidentale sulla persona, ma costituisce anche il punctum dolens – il turning point? — della questione “antropologica” che stiamo compendiosamente affrontando. L’autonomia implica la dignità, ma anche, in certo senso, una “scissione” ed una “separazione” da Dio, che prelude al “monadismo” dell’individuo occidentale. Allora, si attuerebbe per “inerzia” lo slittamento dell’individuo-monade nella subdola volontà di isolamento: ciò che costituisce forse l’esito di un ben preciso orientamento del cammino “culturale” di Occidente. Dietro l’”amore della vita” e la nostalgia dell’infanzia (ossia, del “paradiso perduto”), topoi onnipresenti nel pensiero e nell’arte occidentale non solo moderni, vi sarebbe il terrore della morte, la cui controparte è una sottile tendenza all’autoannientamento (personale, sociale, culturale: di tutta una civiltà), che si manifesta anche, paradossalmente, mediante il caos generato dalla dialettica (interna alla Chiesa, divenuta una sorta di ONG variamente declinata sul piano delle “fazioni” in campo) e la brama di potere/dominio; d’altra parte, secondo la dottrina cattolica, da un lato l’uomo, in conseguenza del peccato di origine, è “figlio dell’ira”, dall’altro lo scopo della vita cristiana non consiste nel recupero della “purezza” adamitica, ma nel conseguimento del “Regno di Dio”, esperibile integralmente solo post mortem. La grande elaborazione cristiano-occidentale della nozione di anima e l’interesse per il suo destino ultimo, più o meno in linea con le misteriosofie pitagoriche e orfiche (VI-V secolo a.C.) e con le dottrine platoniche, aristoteliche e neoplatoniche, sembrerebbero partecipare di un tale itinerario, complesso ma forse riducibile nelle sue direttrici elementari; di questo percorso, comunque, l’esito nichilista (classicamente interpretabile quale “oblio dell’essere”) sopra tratteggiato appare quasi, come accennato, una “eterogenesi dei fini”. È noto, pure, come una certa interpretazione “esistenzialistica” della idea di persona – “sostanza individuale di natura razionale” (Boezio), sinolo di anima e corpo, ma essenzialmente identificabile con l’anima –, rielaborata secondo alcune istanze della filosofia contemporanea, abbia condotto alla elaborazione del “personalismo”, che fonda teologicamente i “diritti della persona”. Peraltro, un certo “squilibrio” nel cattolicesimo è rinvenibile tra l’”antropocentrismo” tradizionale, che trova la sua ragion d’essere nel dogma della Incarnazione (rettamente inteso), e l’antropologia “pessimistica” di S. Agostino. L’uomo, creatura incline al male in ragione del peccato di origine, sarebbe continuamente messo di fronte a scelte terribili poiché potenzialmente decisive: dotato di libero arbitrio, egli sarebbe ultimamente responsabile del suo destino eterno. In tal modo, si restituisce moralmente (esistenzialmente) all’uomo ed alle sue scelte una centralità che antropologicamente, in qualche modo, era stata “offuscata”: ciò, all’interno di un “universo spirituale” che costituisce, in nuce, una dottrina della salvezza. Dal punto di vista “agostiniano”, il paradosso dell’esistenza umana consiste quindi nel rapporto strettissimo tra libero arbitrio e precarietà (che ha significativamente la medesima radice di prex; e in cui si annida sottilmente, peraltro, la “depressione” come male “metasociale”, la cui origine “intellettuale” è ben spiegata, in forme più sfumate e individuali, già in M. Ficino, col nesso tra vis imaginativa, intentiones e “malinconia”): quasi una equivalenza, a ben guardare, a maggior ragione se “culturalmente” atomizzata nello sradicamento programmatico e nel senso dell’insufficienza a se stessi, tra le principali eredità sessantottesche (passaggio dalla depressione “esistenziale” alla depressione “culturale”, per il tramite dell’abolizione della norma). L’esercizio del libero arbitrio, che si esprime in una continua scelta tra molteplici possibilità, corrisponde di per sé a molte rinunce: in ultima analisi, ad una “morte” costantemente vissuta.

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Ancora. Qualche “sommo eresiarca”, nella temperie contemporanea, ha letto Marx non come filosofo semplicemente materialista, ma come demonologo: è una tesi suggestiva, non priva di verosimiglianza e di acume, argomentata con profondità da G. Collu (m. 2016). Anche l’anima è stata reificata. Non ci sono più guerre, in Occidente, perché non ve n’è bisogno alcuno: le anime sono state conquistate, mentre gli uomini si credono liberi, e quindi sono massimamente schiavi, come insegna Seneca. Ancor più intimamente, la radice della dissoluzione dell’individuo rimonta alla introiezione del capitale come valore: questa è una “civiltà” che produce inerzialmente depressi, ossessi, posseduti, disadattati. Con ciò, tutte quelle domande radicali che l’uomo “tradizionale” neppure si poneva – o se le poneva all’interno di un universo “religioso” dato, assunto come granitica certezza: dove andiamo è quella forse più dirimente – perdono del tutto la propria pregnanza. Il senso – sensus, in latino, è sia “significato” che “destinazione” — è fatalmente perduto; la precarietà (che certo non attiene solo al lavoro: questo l’errore capitale dei marxisti) si immette nelle vite individuali come ordinario orizzonte di non-senso; il “transgender” ed il “transumano”, giustapposti al “postumano”, sono l’epitome più stringente di questa stessa precarietà, che l’Occidente declina orwellianamente in termini di “diritti” e di “scelte” (contro la evidente natura delle cose!). Non esistono più autentici “riti di iniziazione” (il battesimo è diventato una “incorporazione”, il militare un ricordo buono per i racconti di padri ormai colti da nefasto disincanto); l’uomo si ciba di spazzatura raccattata in fretta e furia in immaginifici centri commerciali, di quelle “iconostasi del demonio” che sono le TV a schermo piatto e di quella peste che è la pornografia: che svirilizza, liofilizza, omosessualizza e quindi spesso pedofilizza, distrugge le relazioni, immettendo in una virtualità degradante (sul tema, quasi nessuno parla: si toccano interessi troppo oscuri, non trattandosi solo di business) e, sul lungo andare, producendo financo modificazioni organiche nell’apparato cerebrale. Si cerca di recuperare coi “social” o con le “app”: l’ambivalenza del consumo ipertrofico di diavolerie telematiche eretta a sistema di vita. Tramite “whatsapp”, paradossalmente, si dicono cose che non si proferirebbero mai vis à vis: ma non basta, ovviamente — per non dire delle “dipendenze da social”, sulle quali gli psicologi in cerca di occupazione si gettano spesso come avvoltoi, proponendo palliativi per mali che non attengono alla psiche, ma all’anima. Come era la vita prima di internet e dei cellulari, ci chiediamo quasi sgomenti e immemori: francamente, non ce lo ricordiamo. A ciò si aggiungono la diuturna variazione del proprio “status sociale” e la correlativa scelta continua, con perdurante sindrome di “stato di assedio”: il tentativo di adattarsi ad una realtà non umana (perché, fondamentalmente, instabile, invertita, tecnicizzata ab imis fundamentis) è destinato, fatalmente, allo scacco. In questi vortici abissali di non-senso, l’efficientismo, il “modernismo ascetico” della ipercompetitività, la velocità e la ripetizione automatica del gesto e della parola approfondiscono quel vacuo baratro tenebroso che è divenuto il mondo che abitiamo: una sorta di “call center” per sperduti atomi bipolari, che hanno abbandonato — rifiutandola con ardire che sarebbe titanico, se non fosse mediocre — la croce, sia nel suo braccio verticale (orientamento alla trascendenza) che in quello orizzontale (rete di legami “comunitari”). L’uomo, ripiegato su stesso, ha paura:

Nel timore di essere rubato

Il tuo animo non si dona

Per paura di morire

Tu non vivi.

L’esito naturale di un tale ripiegamento? L’anima, dapprima chiusa in sé, è tecnicamente alienata, ossia estranea a sé ed al mondo (per non parlare di Dio).

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Donde il nichilismo? Da dove proviene quel nulla, che è il male, di cui l’informe è manifestazione esterna? Forse, dalla coscienza della fine, e dalla incertezza su di un nuovo inizio. Azzardiamo, da una prospettiva più “macrostorica”: dalla rivoluzione “immanentistica” del XIII-XIV secolo, cui si è prima fatto cenno, e che ha posto l’ego all’apice delle realtà (quando esso è una non-realtà, mutando costantemente). D’altro canto, la connessione tra approfondimento della “coscienza di sé” – una delle cause della malinconia — e drammatizzazione della morte, fin dall’XI secolo, è stata individuata da P. Ariès (“Storia della morte in Occidente” [Bur 1978]). La consapevolezza di un io “separato” rispetto al corpo (prefigurazione, in certo senso, della morte) si legherebbe alla proliferazione della produzione artistica rinascimentale: temi che ineriscono ad una anatomia del moderno, in continuità storica con l’”autunno del medioevo” (J. Huizinga, “L’autunno del medioevo” [Bur 1998]). Si potrebbe ipotizzare una relazione tra il volontarismo tardomedievale (e il suo accento sul libero arbitrio) e l’emergere della malinconia quale topos della cultura occidentale (nel “secolo della malinconia”: fine XV-inizio XVII secolo) (G. Minois, “Storia del male di vivere” [Dedalo 2005]).

Tale rivoluzione immanentistica, in certo senso, “uccise” Dio, dando il la al processo di “oscuramento del cielo” oggi pienamente realizzatosi: in questo senso, e se lo si può leggere in tal modo, Nietzsche – altra abissale espressione dei cortocircuiti occidentali – aveva ragione, quando faceva declamare al folle con la lanterna, giunto troppo presto come tutti i profeti, nell’aforisma 125 de “La gaia scienza”: “Dio è morto! […] E noi l’abbiamo ucciso! […] Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte?”.

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Lo sappiamo tutti. Il dolore, dopo aver alimentato rabbie, crea corazze:  ma deve risolversi, ultimamente, in pietà, come insegna il grande scrittore napoletano-nordico M. Prisco; e l’uomo deve seguire non il proprio interesse, ma la propria vocazione: essere se stessi, ossia essere uomini è la sfida più difficile, nell’”epoca delle passioni tristi”. Forza d’animo, sentimento, considerazione della propria natura (attenzione alle etimologie!). Con nostalgia un poco naïf, rivolgiamo il nostro pensiero al parroco di cui N. Lisi tesse il diario nel suo “Diario di un parroco di campagna” (1942), opera di prosa e realismo poetico di rara intensità, dallo splendido finale: e scandita diacronicamente dai tempi della immobilità, della viandanza, della morte e rinascita. L’”ascesi stilistica” (E. Bono) di Lisi dipinge un mondo ormai dileguatosi nei reami dell’immaginazione, che è in contrapposizione per diametrum con la sciatteria supponente e sgraziata – e ricolma di ego! — di un Bergoglio. Torniamo, quindi, ai nostri giorni: la dissoluzione di tutta una civiltà cui assistiamo impotenti assume toni grotteschi e preternaturali quando ad es. si confonde, con un uso accorto della “neolingua” (i “padroni del discorso”), tra ospitalità ed “accoglienza”, e quando si dimentica che il mio prossimo è il vicino, per definizione: eppure, vi sono molti che, avendo la madre a letto, si preoccupano accoratamente del presunto profugo nigeriano.

A nostro parere, il brivido dell’agonia di Occidente potrebbe anche risolversi in un banale, istituzionale colpo di coda: che non è precisamente ciò che si aspettano gli “ultimi romantici”. Sul piano liturgico, tra “ermeneutica della continuità”, “riforma della riforma” ed estroso bergoglianesimo trotzkista (una “rivoluzione permanente”, che assume i suoi tratti più kafkiani nelle folli declamazioni aeree dell’argentino), non ci sorprenderemmo se presto, nel novello Canon Missae già ampiamente vulnerato, per decreto, e per ossequio ai “powers that be”, si introducesse il fiscal compact.

L’Occidente, il cui destino è la Potenza, ha attuato il proprio dominio tramite la tecnica (che è eminentemente Potenza); ma, col passaggio dalla vitale “civiltà” (Kultur) alla estenuata, mortifera “civilizzazione” (Zivilisation), ed il conseguente trionfo più o meno “planetizzato” dei suoi modelli (tendenzialmente anarcoliberali, ed in ultima analisi nichilistico-passivi) sul piano superficiale della histoire événementielle, la tecnica ha costituito anche la molla del suo epocale tramonto mitostorico, iscritto indelebilmente nel suo stesso nome.

 

Baldr da Thule