NON SAPPIAMO PIÙ SOGNARE IN GRANDE.

(Andrea Cavalleri)

 

 

Comincerò citando una frase che mia cugina mi disse circa vent’anni fa: sono diventata bravissima a ottenere quello che voglio, adesso il mio problema è capire cosa voglio.

Senza saperlo, mia cugina parlava a nome dell’intera società in cui viviamo e la rappresentava con precisione; non è neppure un caso che di professione ella scriva testi pubblicitari, dato che la pubblicità è l’arte con cui si eliminano i dubbi e le domande per infondere la certezza dell’acquisto.

 

E infatti la nostra società ha una caratteristica precipua: sostituisce le grandi domande esistenziali con delle certezze banali.

 

Da dove veniamo? Non interessa, ci pensano gli specialisti dell’evoluzione.

Dove andiamo? Non bisogna preoccuparsene, ci pensa il navigatore satellitare.

Quanto ci resta da vivere? Ma questa è una domanda che non si fa, viola il bon ton, e comunque dipende dal genoma e dai progressi della scienza medica.

 

E invece ciò di cui la maggioranza si occupa e sa benissimo è se il prezzo del telefonino di ultima generazione è congruo con le prestazioni e se è effettivamente concorrenziale; se il Grana è padano o reggiano; se il tal marchio è più pregiato per le scarpe o per il tailleur…

 

La politica degenerata.

 

Sembra che il maggior problema dei politici sia conquistare il potere e poi mantenerlo.

Il potere? Il potere astratto non è nulla, anzi “è il nulla”, che si definisce come “pura potenza dell’esistente”.

Che cosa vogliono poter fare i signori politici col loro potere?

I più non lo sanno, di fronte a una simile domanda esordiscono con “non lo so, ma di certo non…” che equivale ad ammettere di avere idee confuse e superficiali, di non aver mai meditato i fini del loro impegno, quando poi l’unico miserabile fine non si riduca all’ottenere le laute prebende annesse alle cariche: tristezza!

Ecco in proposito una citazione di Gandalf (lui sì autentico “venerabile maestro” di saggezza) tratta dal Signore degli anelli; parlando dell’Oscuro Signore dice: Egli è molto saggio e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità.

Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, ed egli giudica tutti i cuori alla stessa stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere…. e più oltre, riferendosi a questo atteggiamento, lo apostrofa: Saggio imbecille!

Così non solo la prassi, ma persino le utopie politiche dei nostri giorni sono tralignate (sì obliviosamente) ad un infimo livello di bassura.

Nel secolo scorso, a torto o a ragione, si sognavano la giustizia, il paradiso in terra dei lavoratori, il benessere individuale ottenuto tramite un uso virtuoso della libertà, l’equilibrio internazionale e la pace.

Quali sono oggi le utopie più gettonate? Gli Stati Uniti d’Europa? Il Governo Mondiale?

Se i progetti politici sono, per dirla con Ortega y Gasset: La chiamata di genti diverse ed inizialmente ostili a fare qualcosa di grande assieme, allora qui si confonde il qualcosa di grande con qualcosa di grosso.

Non è la dimensione a fare grande un qualcosa, ma la sua vitalità organica, la sua organizzazione, il suo grado di informazione e soprattutto il suo orientamento verso finalità preziose e rare, superiori a quelle della materia bruta.

 

In effetti in molti parlano confusamente dell’aggregato europeo e delle politiche globali, ma senza accennare minimamente a un programma che questi enti dovrebbero perseguire, come se il solo fatto di avere tanti sudditi fosse garanzia di successo, di prosperità, di magnifiche sorti progressive…evidentemente i saggi imbecilli abbondano in politica.

 

Al giorno d’oggi esistono due concezioni della politica maggiormente diffuse nel mondo, quella multipolare, che nel dualismo amico-nemico predica sostanzialmente il “vivi e lascia vivere” e quella egemonica, che definisce “amico” chi si sottomette volontariamente e “nemico” chi deve essere sottomesso con la forza.

Alla fine, tutto il problema della concezione egemonica della politica si riduce a questo: a un gruppo elitario di oligarchi che preferisce avere un miliardo di schiavi piuttosto che dieci buoni amici.

Non può sfuggire che si tratta di una patologia psichiatrica sociopatica, corredata da inevitabili sindromi connesse, quali l’infantilismo, il delirio di onnipotenza, l’incapacità di ascolto e manie compulsive assortite.

Qualunque persona normale non saprebbe che farsene degli schiavi e preferirebbe avere amici, senza alcun paragone!

Negli ultimi anni si sono diffusi degli studi socio-psicologici sulla felicità (tra gli autori si citano Frey, Stutzer, Pugno, Einaudi, Bruni, Stanca, Scitovski, Meier), correlandola con svariati parametri. Molto interessante è quello del reddito: partendo da uno stadio di indigenza la felicità cresce col crescere del reddito fino a un certo punto, poi si arresta e, con un ulteriore incremento dei guadagni, la felicità cala e non smette di diminuire.

Elemento che, al contrario, si appaia alla sensazione di felicità in modo direttamente proporzionale  è quello dei “beni relazionali”, cioè legami positivi con altre persone, fatti di amore, concordia, pace e, appunto, amicizia.

Probabilmente per certa gente, piuttosto che perseguire una felicità che non conosce e di cui dubita, è più importante avere un’infelicità misurabile, in modo da infliggerne al prossimo una dose superiore alla propria e sentirsi così privilegiati.

 

I bisogni alla radice dei grandi problemi.

Personalmente cerco di evitare le riflessioni disfattiste e non voglio sfornare dei cahier de doleances senza accompagnarli con qualche suggerimento positivo.

Quindi voglio provare a rispondere alla domanda su quali possano essere i sogni grandi.

La prima e più semplice pista da percorrere è quella di cercare la risposta ai grandi problemi.

E i problemi sono legati innanzitutto ai bisogni.

Normalmente si parla dei bisogni primari descrivendoli come fisiologici, legati alla sopravvivenza.

Al livello più basso questi sono il respirare, nutrirsi, riposare ed eventualmente riprodursi; al secondo livello i bisogni primari si focalizzano sulla sicurezza, quindi casa, famiglia, lavoro stabile e tutela della salute.

 

Bisogni secondari sono di tipo relazionale, inteso nel senso più basso come bisogno di appartenenza, a una famiglia a un gruppo (sia esso ricreativo, o incentrato su interessi comuni) o anche a un’etnia; al secondo livello tali bisogni convergono sulla stima, e producono comportamenti volti a meritare il riconoscimento altrui del proprio valore.

 

I bisogni superiori, che solitamente vengono raggruppati nel segno della autorealizzazione, (termine molto equivoco in quanto nessuno si realizza “da solo”) implicano il bisogno di senso e, come ci assicura la psicopedagogia, anche i bisogni di conoscenza e di bellezza fini a se stessi.

 

Vorrei mettere in luce alcune caratteristiche di questi bisogni e le loro interrelazioni.

I bisogni di livello più basso sono di natura essenzialmente materiale e la loro soddisfazione implica una risposta quantitativa: non si possono dissetare cento persone con un litro d’acqua.

I bisogni primari sono anche una porta di accesso a quelli di livello più alto: se si è ridotti alla fame, anche se non si muore, non si riesce ad occuparsi di attività superiori, in quanto non solo lo stimolo fisico, ma anche il pensiero del cibo, diventano ossessivi e totalizzanti.

 

Ma i bisogni superiori hanno delle ricadute imprevedibili sulla soddisfazione dei bisogni inferiori: il bisogno di armonia e di giustizia (per cui ciascuno ha il suo posto nella vita) sono una fonte inesauribile di attivazione per le dinamiche di appartenenza e di stima; il bisogno di sapere, grazie alla scienza, ha incredibilmente migliorato le possibilità di soddisfare i bisogni primari (la resa delle colture, l’acqua corrente pulita, gli istituti e le tecniche per curare le malattie, la produzione industriale e molto altro che tutti possono constatare); persino il bisogno di bellezza ha generato professioni, sicurezza di vita, ha contribuito alla pacifica convivenza e ha prodotto formidabili simboli di appartenenza, cioè tutto un insieme di ricadute positive sui bisogni dei livelli inferiori.

 

Si diceva dell’aspetto quantitativo, legato ai bisogni fisiologici: un esempio di grande progetto quantitativo è l’acquisto Cinese di terre africane, per coltivarvi l’orto più grande del mondo.

Ma è il progresso qualitativo, quello che rende possibile ciò prima appariva impossibile, ad essere determinante per lo sviluppo delle condizioni di vita; e questo progresso nasce quando si cerca di soddisfare il bisogno di sapere e non quando si cerca una gretta risoluzione ai problemi contingenti.

 

Un celebre aneddoto illustra quanto ho detto.

Il fisico Michael Faraday, al termine di una conferenza sull’elettricità e in particolare sulle correnti indotte, fu interpellato da un politico presente in aula che gli chiese : Tutte cose molto belle. Ma qual è la loro utilità, Mr. Faraday? ( pare, e la cosa è significativa, che si trattasse del ministro delle finanze William Gladstone). Al che Faraday rispose: Ah, certo, ma a cosa serve un bambino appena nato?

E in effetti la teoria elettromagnetica era appena nata e non se ne scorgeva ancora il ruolo nella vita delle persone. Oggi possiamo dire che il 90% della nostra tecnologia, da quella specialistica a quella di uso domestico, non funzionerebbe se un Faraday non avesse fatto le sue scoperte.

Ma quando il fisico inglese intraprese i suoi studi non ne scorgeva ancora nessuna utilità immediata.

 

Breve elenco di imprese che richiedono sogni grandi.

 

Come suggeriscono le questioni poste dai bisogni primari, sconfiggere la fame nella nazione o nel mondo, le malattie, offrire condizioni di vita sicure e dignitose per tutti, sono imprese ovvie con cui confrontarsi e tutt’altro che marginali.

 

Eppure, le potenzialità tecnologiche, organizzative, e di forza lavoro disponibile per ottenere questi risultati (e se non proprio ottenerli del tutto, comunque arrivarci vicino) ci sono già: perché mai ne siamo ben distanti, come appare subito a colpo d’occhio?

 

Facevo notare nel capitolo precedente che le istanze superiori hanno ricadute importanti su quelle inferiori, certamente in positivo, ma altrettanto in negativo.

Ecco dunque che il problemino della pace potrebbe essere un freno importante per il raggiungimento degli obbiettivi legati ai bisogni primari: quando esistono tensioni indirizzate a distruggere l’altro, è difficile che il benessere resti tra le principali preoccupazioni operative.

 

I pensatori illuminati dell’ultimo periodo, dal dopoguerra a oggi, si sono concentrati sull’aggregazione politica (macroregioni, governo mondiale) proprio come soluzione alla calamità della guerra; il ragionamento è stato che se l’entità politica fosse stata una sola, non ci sarebbero stati antagonisti per guerreggiare.

Riporto questa argomentazione non come attenuante della banalità utopistica che ho denunciato nel primo capitolo, ma come aggravante.

Infatti immaginare di eliminare la guerra depennando burocraticamente il ruolo di nemico è un’idea grossolana, riduttiva e sostanzialmente smentita dai fatti.

Basta pensare a come uscì la Spagna dalla guerra civile (quindi senza nemico esterno) nel 1939: sicuramente più devastata che non la Francia dalla seconda guerra mondiale.

 

Ma ancor più perché la conservazione della pace è qualcosa che va molto oltre l’evitare il conflitto armato, che è solo la conseguenza finale di un processo molto antecedente.

Per avere la pace occorre permettere alle persone di sviluppare benessere, di muoversi con una certa libertà, tenere a bada i prepotenti, affidare compiti e responsabilità alle persone affinché concorrano attivamente allo sviluppo del sistema, assicurare la giustizia in modo da far percepire che la concordia premia e non è solo una situazione in cui i deboli sopportano angherie per non subire mali peggiori e naturalmente educare le nuove generazioni ai valori della civiltà.

Senza tutte queste cure la pace resta solo un periodo di tregua compresa fra più guerre.

 

Anche riguardo ai bisogni di sicurezza e salute la pace ha un notevole influsso.

Se non c’è vera pace l’economia diventa uno strumento di guerra e non bisogna stupirsi che mieta vittime, in termini di fallimenti, povertà e disoccupazione (e magari suicidi); e così pure ha un influsso sulla questione ambientale (che, sì, è un problema vero e serio anche se strumentalizzato).

Ad esempio il solo esercito USA nell’ultimo anno ha tirato una bomba ogni 12 minuti (senza contare le bombe di tutti gli altri), chissà mai che questo comportamento, oltre allo sterminio umano, non causi qualche danno all’ecosistema?

 

E qui introduciamo un altro sogno grande, che è quello di riqualificare la cosiddetta “comunità scientifica”, entro cui i cosiddetti scienziati si preoccupano delle emissioni provocate dalle flatulenze delle vacche, ma non di quelle prodotte dalle 44.000 bombe americane, più tutte le altre.

Una miopia che si spiega solo con l’atteggiamento conformista, dogmatico e talmente specialistico da perdere le nozioni d’insieme, assunto dalla maggioranza dei professionisti della scienza.

Gli esempi sono numerosi e vistosi nel campo della medicina, della biologia e persino della fisica.

Le capacità e possibilità di ricerca innovativa e libera da pregiudizi, vanno assicurate e rieducate e non sarà un lavoro breve.

 

Entrando nell’area dei sogni legati ai bisogni di autorealizzazione accenno solo un argomento: avere il proprio posto, nella vita e nel mondo, è sinonimo di avere un compito da svolgere.

Questo significa parlare, almeno in senso lato, del lavoro.

E al lavoro, che diventa ogni giorno di più un problema, voglio dedicare una riflessione approfondita che presenterò prossimamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel primo anno di presidenza di Trump gli USA hanno sganciato 1 bomba ogni 12 minuti (44.000 all’anno).