NO, RENZO PIANO NO! Non ci è bastato Morandi?

Ingener Raffaele Giovanelli. Docente emerito di ingegneria al Politecnico.

Questo ponte è un ponte romano che scavalca il fiume Foglia, a Pesaro, vicino al mare. La sovrastruttura era medioevale. Diciamo era perché durante la ritirata i tedeschi cercarono di farlo crollare con una giusta dose di esplosivo. C’erano vicino altri due ponti “moderni”, uno stradale ed uno ferroviario. Furono distrutti senza problemi. Il ponte romano invece non crollò, volò via la sovrastruttura medioevale (nella vecchia stampa si riconosce perché in piccoli mattoni). Rimase inutilizzabile ed i tedeschi non sprecarono altro esplosivo.

Non sappiamo chi lo progettò. Sappiamo che allora i ponti venivano costruiti bene.

Per il Ponte sul torrente Polcevera, vicino a Genova le cose sono state più complicate e con risultati tragici. Lo stesso ingegner Morandi negli ultimi anni nutriva molte preoccupazioni per la stabilità della sua opera.

 

Dicono che l’ingegner Morandi fosse ossessionato dalla sua creatura. Sapeva che aveva difetti. «Il ponte Morandi è un fallimento dell’ingegneria». Era il 2016. Due anni prima della tragedia del 14 agosto. Ma già allora Antonio Brencich, docente di Costruzioni in cemento armato presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova, era stato chiaro. In un’ intervista rilasciata all’emittente Primocanale aveva detto. «Quel ponte è sbagliato. Prima o poi dovrà essere sostituito. Non so quando. Ma ci sarà un momento in cui il costo della manutenzione sarà superiore a quello della sostituzione. Alla fine degli anni Novanta erano già oltre l’80 per cento del costo della costruzione».

Era il 1957 quando Riccardo Morandi, «papà» del viadotto sul Polcevera, progettò per la prima volta un ponte di questo tipo. Aveva vinto un concorso bandito dal governo del Venezuela.

Il ponte General Rafael Urdaneta vide la luce sulla baia di Maracaibo nel 1962, lungo oltre 8,7 km. «Morandi non mise in conto che una nave potesse sbagliare la campata – spiega Brencich. I ponti hanno di solito una campata molto alta per fare passare le imbarcazioni e altre più basse. Appena due anni dopo una petroliera Esso si incastrò sotto la campata più bassa». Si ebbero cinque morti.

“Il ponte crollato ieri a Genova lo conosco molto bene, perché conoscevo molto bene il suo progettista, il grande ingegnere Riccardo Morandi. Fu lui in persona, nel 1976 – io ero un giovane professore e lui già un grandissimo personaggio – a portarmi a Genova….”

Ma anche a Genova i problemi iniziarono quasi subito«Negli anni Novanta furono fatti molti lavori: gli stralli furono affiancati da nuovi cavi di acciaio – ha spiegato Brencich – Indice che già al tempo furono rilevati cedimenti e si cercò di correre ai ripari integrando la struttura originaria per far sì che non insorgessero situazioni di pericolo. E sono tanti i genovesi come me che si ricordano cosa succedeva all’inizio passandoci sopra: era tutto un saliscendi. Morandi aveva sbagliato il calcolo della “deformazione viscosa”. Tradotto: ciò che succede alle strutture in cemento armato nel tempo. Era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo».

(Spunto da un articolo di Federica Seneghini)

 

 

Il ponte di Morandi aveva fascino. Ecco come lo presentò il Corriere della Sera appena terminato. Aveva tutti i connotati della modernità, ma della modernità di quegli anni aveva il difetto principale: la presunzione di aver raggiunto un nuovo e definitivo modo di costruire. Si credeva che avremmo rivaleggiato con le grandi opere del passato. Le precedenti tecniche costruttive sarebbero state relegate nell’archivio definitivo del tempo passato senza ripensamenti. Invece il ponte romano di Pesaro, dopo un tentativo di demolizione con esplosivi e dopo circa 2000 anni, è ancora saldo, mentre i ponti di cemento armato oltre i 50 anni vanno curati e sorvegliati se non rifatti. Quelli in ferro durano più a lungo ma a costo di continui e costosi lavori di manutenzione.

L’Inghilterra, per aver trascurato l’effetto della fatica nel metallo della fusoliera dei Comet, i primi aerei di linea con motori a reazione, perse il primato nell’industria dell’aviazione civile.

L’areo de Havilland DH.106 Comet era un quadrimotore di linea a getto prodotto dall’azienda britannica de Havilland nei primi anni cinquanta. La prima avvisaglia dei difetti si ebbe in fase di decollo da Roma quando, il 2 maggio 1952, un Comet (G-ALYZ) non riuscì a prendere il volo e subì seri danni. Le indagini che seguirono dopo molti altri disastri dovevano cercare le cause e tentare di ricostruire la fiducia nei confronti del velivolo.  I risultati rivelarono che, anche se la maggior parte della fusoliera rispondeva bene agli elevati stress (va ricordato che le nuove leghe con cui il Comet fu costruito furono un notevole passo in avanti nel campo dell’aviazione), negli angoli dei finestrini rettangolari lo stress metallico aveva valori tripli rispetto al resto della struttura. Questo fenomeno causava un lento e progressivo formarsi di micro-crepe all’interno delle lamiere, le quali ad un certo punto si laceravano violentemente causando la catastrofe. Alla fine fu il concorrente Sud Aviation Caravelle ad utilizzare i risultati delle indagini sui difetti del Comet.

 

Noi nel Vajont, per aver costruito una bella, costosa diga in cemento invece di costruire con poca spesa una modesta diga in terra, utilizzando proprio il monte Toc, dal quale si poteva ottenere il materiale provocando una frana controllata, causammo 2500 morti e perdemmo il prestigio di migliori costruttori di impianti idroelettrici. http://www.lacrimae-rerum.it/documents/0-IgiornidellIRI.pdf

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Era quella l’era dell’orgoglio della tecnica, che simbolicamente inizia con il naufragio del Titanic durante il viaggio inaugurale. Il motto del Titanic era: neanche Dio può fermarmi. Bastò per fermarlo la stupidità e l’orgoglio del capitano oltre che lo spigolo di un iceberg. Il transatlantico si aprì come una scatola di sardine.

«Il ponte Morandi è un fallimento dell’ingegneria». Era il 2016. Due anni prima della tragedia del 14 agosto. Ma già allora Antonio Brencich, docente di Costruzioni in cemento armato presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova, era stato chiaro. In un’ intervista rilasciata all’emittente Primocanale aveva detto. «Quel ponte è sbagliato. Prima o poi dovrà essere sostituito. Non so quando. Ma ci sarà un momento in cui il costo della manutenzione sarà superiore a quello della sostituzione. Alla fine degli anni Novanta erano già oltre l’80 per cento del costo della costruzione». Tanta preveggenza non impedì a Brencich di firmare un verbale in cui si affermava che il ponte poteva tirare avanti ancora un poco.

Lo sbaglio principale del progetto è nell’aver realizzato i tiranti in cemento precompresso per carichi variabili e sollecitazioni a vibrazione. Si tratta di una contraddizione perché in questi tiranti il cemento, che non resiste a trazione, nelle fasi di forte carico vede ridursi la precompressione sino all’annullamento. Il tutto con carichi vibranti con conseguenti crepe nel cemento stesso, che non svolgerebbe nemmeno la funzione di protezione dei cavi d’acciaio. Ma stranamente anche un pilone cedette (credo il numero 9), anzi si sbriciolò al punto da sollevare perplessità circa la bontà del cemento usato.

Era il 1957 quando Riccardo Morandi, «papà» del viadotto sul Polcevera, progettò per la prima volta un ponte di questo tipo. Vinse un concorso bandito dal governo del Venezuela. Il ponte General Rafael Urdaneta vide la luce sulla baia di Maracaibo nel 1962, lungo oltre 8,7 km. «Morandi non mise in conto che una nave potesse sbagliare la campata – spiega Brencich. I ponti hanno di solito una campata molto alta per fare passare le imbarcazioni e altre più basse. Appena due anni dopo una petroliera Esso si incastrò sotto la campata più bassa». Il bilancio: cinque morti.

Nonostante questo, Morandi firmò negli anni successivi altri due ponti gemelli: il viadotto di Genova, finito nel 1964, e il ponte sul Wadi el Kuf di Beida, in Libia, aperto nel 1971.       «A quel tempo fare un ponte con questa sagoma – a “cavalletto bilanciato” – spiega Brencich – sembrava un’idea molto innovativa e piacque molto».

Ma anche a Genova i problemi iniziarono quasi subito. «Negli anni Novanta furono fatti molti lavori: gli stralli furono affiancati da nuovi cavi di acciaio – ha spiegato Brencich – Indice che già al tempo furono rilevati cedimenti e si cercò di correre ai ripari integrando la struttura originaria per far sì che non insorgessero situazioni di pericolo. E sono tanti i genovesi come me che si ricordano cosa succedeva all’inizio passandoci sopra: era tutto un saliscendi. Morandi aveva sbagliato il calcolo della “deformazione viscosa”. Tradotto: ciò che succede alle strutture in cemento armato con il passare del tempo. Era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo».

Oggi sarebbe bastato qualche giorno di lavoro di un laureando in ingegneria, aiutato da un buon programma di simulazione, per verificare in dettaglio le zone di criticità del ponte.

 

L’archistar Renzo Piano ha regalato alla Regione Liguria un suo progetto per la ricostruzione del ponte. Si tratta di una soluzione più semplice possibile: una serie di piloni collegati da impalcati orizzontali. La soluzione non è priva di intrinseci difetti.

I piloni sono alti e sottili, ognuno con la sua fondazione. Se una di queste cede, anche di poco, l’allineamento dell’asse stradale viene compromesso con la conseguenza di destabilizzare le campate contigue. Sforzi e deformazioni si propagherebbero senza intoppi lungo la catena di piloni e i piloni dovrebbero essere 43. Durante la frenatura di veicoli pesanti nascono sforzi longitudinali, che si propagano alle campate contigue, che debbono essere vincolate ai piloni per tutte le direzioni di spostamento. Questi vincoli dovranno  essere compatibili con gli spostamenti necessari a compensare le dilatazioni derivate dalle variazioni termiche. Tutte da verificare le lunghe travi in diagonale evidenziate nell’area in figura delimitata dalla linea rossa. Sono certamente utili, ma si tratta ovviamente di un progetto di massima.

Infatti il problema più grave che incontrerebbe questa soluzione è il numero dei piloni, uguale al numero delle vittime, dice Renzo Piano. Ma ficcare 43 piloni nell’alveo di un torrente non è cosa facile. Bisogna raggiungere il terreno solido sottostante, dopo aver attraversato qualche metro di terreno alluvionale incoerente. Alla fine avremo un “pettine” di 43 piloni che durante le piene faranno sbarramento ai detriti, così che alla fine si formerà una “diga”. I genovesi non sono nuovi a queste soluzioni, avendo cercato di “ingrottare” altri torrenti coperti da case, con risultati tragici. Ma sembra che il genovese Renzo Piano non abbia compreso la lezione. Il suo progetto è da mostrare durante una conferenza stampa, evitando di ragionarci su.

Così passiamo dall’opera di un ingestar (Morandi) ad un archistar (Renzo Piano) che non ha particolari benemerenze come costruttore di opere d’ingegneria. Basta pensare all’aeroporto giapponese Internazionale del Kansai, costruito su una gigantesca isola artificiale che dal 1990 è affondata di 8 metri e dal 2002 il cedimento annuo sembra essere arrivato a circa 17 cm l’anno. In altre parole, il belllissimo aeorporto di REno Piano sprofonda nella sabbia a 17 c, annui,  Questa circostanza comporta anche notevoli costi di gestione oltre al rischio di dover ricostruire l’intero aeroporto.

Sprofonda nella sabbia 17 cm. l’anno. Tecnologia come retorica.

Anche come architetto a mio avviso non ha buone referenze se pensiamo alla chiesa dedicata a Padre Pio. Meglio sarebbe dire che è un monumento dedicato a satana.

http://www.lacrimae-rerum.it/documents/0-LanuovachiesadedicataaPadrePio.pdf

A chi è incaricato di scegliere una soluzione si vorrebbe consigliare di usare la propria testa e di smettere di affidarsi agli “ipse dixit”.