IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO prima parte – di Luigi Copertino

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO

L’origine del male nella prospettiva escatologica della Rivelazione abramica

 

Il Nome di Dio

In Esodo 3, 13-15 è narrato del serrato dialogo tra Mosé ed il misterioso Dio del roveto ardente, Fuoco che arde senza consumare. L’oggetto del confronto è il Nome di Dio, che il patriarca chiede con insistenza e che l’Eterno quasi sembra non voler rivelare. Tanto che, per soddisfare l’insistenza di Mosé, alla fine Egli si rivela sì ma nascondendosi ossia rivela di Sé quanto è possibile per l’uomo comprendere.

Mosé disse a Dio: «Ecco, io arrivo dagli israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Ma mi diranno: “Come si chiama?”. E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosé: «Io sono Colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli israeliti: “Io-Sono” mi ha mandato a voi. (…). Questo è il mio nome per sempre: questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

«Io sono Colui che sono» –  secondo altre traduzioni «Io sono chi Io sono» o ancora «Io sono Colui che è» – corrisponde all’impronunciabile tetragramma YHWH. L’impronunciabilità sta ad indicare il permanere, nonostante la rivelazione, dell’essenza misteriosa, ed in ultimo inattingibile senza che Egli si riveli, di Dio. Qui hanno il loro comune fondamento tanto la teologia negativa o apofatica quanto la teologia positiva o catafatica, che troppo spesso sono state erroneamente contrapposte con catastrofiche conseguenze ereticali.

Il Nome Divino è dunque misterioso come Dio è misterioso ma è anche un nome rivelato. Dio è incomprensibile nella Sua Infinità per una creatura finita come l’uomo ed è per questo che il Signore mentre lo rivela quasi rifiuta di rivelare il suo Nome, perché nessun nome può “imprigionare” Dio. L’Essenza Divina sfugge ad ogni nostro tentativo di “cosificazione”, di “reificazione”, ma non di meno Egli ha fatto in modo che la sua creatura, fatta per Lui, qualcosa possa dire ed affermare di questa Sua Essenza sempre tuttavia sfuggente.

Dio si è rivelato nella storia umana progressivamente facendo conoscere, come meglio non si potrebbe, il Suo Nome, la Sua Realtà che è infinitamente al di sopra di tutto ciò che gli uomini possono comprendere o affermare di Lui. Il Nome, anche se non definisce l’Essenza di Dio, esprime tuttavia la Sua Identità – Identità Personale di Dio Vivente – sicché l’uomo può dire che Dio, l’Inaccessibile, ha un Nome con il quale si rivela e si rende, per sua gratuita iniziativa d’Amore, accessibile all’uomo per amarlo e salvarlo.

Svelare il proprio Nome è un farsi conoscere all’uomo, in un certo senso consegnarsi all’uomo entrando nella sua dimensione storica fino ad umiliarsi nella morte di Croce. Dio, pertanto non è  Forza Anonima, Uno impersonale, Motore Immobile, come è quello dei filosofi. Il Dio che si rivela ad Abramo e Mosé è Vivente nonostante sia anche l’Uno dei filosofi ma molto di più di esso.

Il Deus absconditus, il Dio nascosto di Isaia (Is. 45,15), rivela il suo nome ineffabile perché è il Dio vicino agli uomini, capaci, solo essi in tutto il creato, di conoscerlo intimamente, nella misura in cui Lui lo consente, e di chiamarlo così personalmente.

Mosé non può guardare in faccia Dio, pena la morte, perché guardare in faccia Dio significa essere rapiti in Lui, verso la sua Essenza Ultima e quindi sparire dal mondo. Davanti al roveto ardente Mosé deve togliersi i sandali e coprirsi il volto al cospetto della Santità, ossia dell’assoluta Trascendenza, di Dio. L’uomo si scopre piccolo di fronte al fascino misterioso e tremendo della Presenza di Dio, della Sekinah. Ancora Isaia erompe in un grido di disperazione di fronte alla Maestà di Dio: «Ohimé! Sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is. 6,5).

Nessun uomo potrà mai sopportare la Luce e la Purezza assoluta dell’Essenza divina e finirebbe per rifuggirla se non fosse per la Sua Misericordia che gli viene salvifica incontro. Solo Dio, il Santo, può perdonare l’uomo se si riconosce peccatore, sicché la risposta a Pietro che rivolto a Cristo dice: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc. 5,8) può darla Giovanni, il discepolo che, reclinata, nell’Ultima Cena, la testa sul suo petto, ascoltava direttamente dal Cuore di Dio: «Davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv. 3,19-20).

Il Dio altissimo, irraggiungibile, affascinante e tremendo, è il Dio della Misericordia Infinita che chiede solo pentimento e il tornare a Lui

«Non darò sfogo all’ardore della mia ira, (…) perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te» dice il profeta Osea (Os. 11,9).

Perché Dio ha creato il mondo?

Il Genesi si apre, 1,1, con una dichiarazione decisa

«In principio Dio creò il cielo e la terra»

che è quanto viene tradotto nel Credo cristiano con

«Credo in Dio Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili».

Secondo la Rivelazione, il mondo è stato creato per la Gloria di Dio, perché, come spiega san Bonaventura (“In secundum librum Sententiarum”), Dio ha creato ogni cosa «non per accrescere la propria gloria, ma per manifestarla e per comunicarla». Questo significa che Dio crea per amore e non ha altro motivo se non l’amore verso le sue creature, come afferma l’Aquinate «Aperta la mano dalla chiave dell’amore, le creature vennero alla luce» (“Commentum in secundum librum Setentiarum”).

La creazione è il fondamento del Progetto salvifico di Dio. Il cosmo, infatti, è stato creato in statu viae ossia in cammino verso la sua metà finale che consisterà nella trasfigurazione gloriosa quando la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena coincideranno nell’adempimento della curvatura trans-storica al convergere in Lui della Fine verso l’Origine e viceversa: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Ap. 21,6); «Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!» (Ap. 1, 8). L’Origine e la Fine, che è anche il Fine, sono essenzialmente inseparabili.

La creazione è l’inizio stesso della storia della salvezza che culmina in Cristo, sicché senza l’Incarnazione del Verbo la creazione non avrebbe senso. E’ Cristo che illumina l’Opus Magnum di Dio perché l’Altissimo ab aeterno pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo.

Quando san Paolo parla, nelle sue lettere, della nostra predestinazione – l’apostolo afferma che Egli ci ha predestinati «a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef. 1,5) – si riferisce appunto a questo mistero per il quale l’intera creazione è predestinata in Cristo alla glorificazione verso la quale è in cammino. In Paolo non è dunque, principalmente, questione del problema della predestinazione individuale dopo il peccato adamico, che è rimessa alla libera adesione personale o al libero rifiuto del Sacrificio d’Amore Salvifico della Croce che ha riaperto, per chiunque voglia, la via perduta del Cielo. Lutero, equivocando completamente sul punto, ha finito per trarre da Paolo quanto in Paolo non c’è né viene affermato, ossia l’assurdo di un Dio che predestina, a causa del “servo arbitrio”, solo alcuni alla salvezza condannando tutti gli altri indipendentemente dalla libera scelta di ciascuno e quindi dalla trasformazione per grazia del cuore umano che si manifesta nelle opere di carità.

La creazione è alleanza tra Dio e uomo, essa rivela l’amore onnipotente di Dio perché

«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen. 1, 31).

La “cosa molto buona” è l’esito di una progressiva separazione degli elementi sia sottili sia materiali che formano il cosmo. Contrariamente alla (anti)tradizione gnostica, nella Rivelazione biblica la “separazione”, lungi dal costituire una “caduta ontologica”, è buona.

Infatti il Dio creatore del Genesi, il Dio Vivente che è anche l’Uno dei filosofi ma è molto di più, aleggiando in Spirito sulle acque, ossia sulla materia primordiale informe, come informe era la terra deserta nonché l’abisso ricoperto da tenebre, ovvero senza distinzioni ontologiche, crea separando cielo da terra, luce da tenebre, acque che sono sopra il firmamento ed acque che sono sotto di esso.

In modo esattamente contrario a quanto è preteso da tutte le correnti gnostiche, nel Genesi la separazione, la distinzione – non l’informe, non l’indeterminato, non l’indistinto – è bontà, è amore fecondo e creativo. Il progressivo venir all’esistenza del mondo non è inteso come emanazione e quindi allontanamento dal Principio ma come comunicazione, partecipazione, del Principio alle cose. Dio, il Vivente, crea partecipando della Sua Vita quanto Egli va creando, secondo tempi cosmici lunghissimi dopo che lo stesso tempo è stato a sua volta creato, posto nell’esistenza.

Non c’è, nella Rivelazione biblica, un Uno impersonale che si frammenta per emanazione fino a dar luogo, all’estremità periferica rispetto al Principio, al mondo materiale che, pertanto, finisce per essere il punto più oscuro, più lontano, dal Centro, una sorta di “anti-dio”, e per costituire quanto di negativo e di male ci sarebbe nella manifestazione. In questa prospettiva, il male sarebbe ricompreso nella stessa Sostanza divina e da essa emanato, e, pertanto, deve essere nuovamente risolto, insieme al suo opposto ossia il bene, nell’informità dell’Uno originario, per poi essere ancora emanato secondo un ritmo ciclico che si perpetuerebbe eternamente.

Nel Genesi il termine “bara”, che in ebraico significa “creare”, è proprio solo di Dio ed ha un senso tutto specifico in quanto indica l’idea di una novità, del comparire di qualcosa laddove nulla era. Da qui è possibile desumere la nozione di “creatio ex nihilo”. Tuttavia, in ebraico, esistono anche altri termini come asah o yasar, fare e plasmare, che non hanno il senso proprio di bara. Sicché l’uso di questo specifico termine nel racconto del Genesi non è evidentemente casuale. Nello stesso racconto, poi, mentre l’intervento diretto di Dio è indicato, appunto, con “bara”, le mere conseguenze del Suo iniziale intervento sono indicati con altra terminologia, come a dire che le conseguenze sono semplicemente lo sviluppo previsto e governato dal Creatore anche se non direttamente da Lui poste in essere. L’idea teologica delle “cause secundae” trova qui il suo fondamento.

La Rivelazione è un tutt’uno nel quale una parte chiama le altre e viceversa. Se all’inizio del Genesi troviamo il “Bereshit” ossia il “In principio” ad indicare l’origine in e per Dio del mondo, nell’incipit del Vangelo di Giovanni, il più metafisico tra i Vangeli, troviamo analogamente lo stesso “Bereshit”, “In Principio”, ma riferito al Verbo di Dio che, ci viene svelato, è il Paradigma mediante il Quale il mondo è stato creato

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv., 1,1-3).

Paolo ripeterà, in Col. 1,16-17, che il Dio trinitario ha creato tutto per mezzo del Suo Verbo Eterno, ossia Suo Figlio, nello Spirito Santo che è Amore tra Padre e Figlio

«Per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle dei cieli e quelle sulla terra (…). Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui».

Quindi la creazione non solo è per mezzo del Verbo ma è anche in vista del Verbo. Ossia in vista dell’Incarnazione del Verbo che vi sarebbe stata anche senza la “chiusura ontologica”, il peccato, di Adamo. L’Uomo Adamico era in diretta comunione mistica con Dio e per mezzo della Sua Grazia partecipava, per dono gratuito e senza suo merito ossia non per necessità intrinseca, alla Vita Divina del Dio trinitario. Secondo l’Aquinate, l’Adamo originario era, quindi, anche partecipe della conoscenza del misterioso disegno dell’Incarnazione futura ma non dei misteri della Passione, Morte e Resurrezione che erano connessi, quali potenziali risposte, alla possibilità del peccato ontologico dell’uomo edenico (cfr. Summa Theologiae 2-2, 2,7).

L’Incarnazione è, ab aeterno, il fondamento stesso della creazione che, per questo, proprio perché Dio ha progettato di farsi Uomo, di assumere la carne ossia una natura spirituale-psichico-fisica, è buona. L’uomo, la creatura privilegiata tra tutte per l’infusione del Ruach, dello Spirito a forgiare in lui lo spirito nell’anima che da forma al corpo, è posto al centro della creazione quale Immagine del Verbo che si sarebbe fatto Uomo. Adamo dunque è Icona Verbi, Immagine del Logos, e giunge sulla scena del cosmo in vista di Lui, in vista dell’Incarnazione di Dio, come creatura spiritualmente privilegiata con la quale l’Altissimo tesse un dialogo d’amore, un amore agapico-erotico come ci svelano le esperienze dei mistici, chiedendo esclusivamente di essere da lui, dall’uomo, liberamente corrisposto pur nella limitata possibilità di un amore creaturale. Per quel poco che Adamo può dare, l’Eterno gli dona tutto Sé stesso, l’Infinito.

Questa era la condizione edenica, del tutto mondana e quindi corporea, ma vissuta nella comunione mistica di Amore con Dio che rivestiva di santità, ossia esonerava dalle limitazioni naturali del dualismo spazio-temporale, l’uomo e la donna edenici i quali, conseguentemente, accettavano senza vergogna la loro nudità. La nudità, nel linguaggio biblico, indica la debolezza e la dipendenza ontologica, delle quali infatti Adamo ed Eva non provano vergogna fino a quando conservano la comunione con Dio, fino a quando l’Altissimo passeggia, alla brezza del giorno, nell’Eden, nel Giardino, del loro cuore ancora puro (Gen. 3,8).

«Infatti la gloria di Dio – afferma sant’Ireneo di Lione nella sua opera contro gli gnostici del suo tempo “Adversus haereses” – è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione procurò la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre per mezzo del Verbo dà la vita a coloro che vedono Dio».

Il fine ultimo della creazione è, per Paolo di 1Corinzi 15,28, che Dio «che di tutti è il Creatore, possa essere “tutto in tutti”» ossia essere riconosciuto come la Fonte dell’Essere cui tutti partecipano.

Senza il peccato adamico, il Logos si sarebbe comunque incarnato per offrire con un Sacrificio incruento il mondo a Dio Padre ed avviarlo verso l’esito finale, verso l’Omega della trasfigurazione gloriosa nella coincidenza della Gerusalemme terrena che va incontro alla Gerusalemme celeste discendente dal Cielo con l’Agnello assiso nel Suo Trono di Luce. Il peccato, ha richiesto, quale risposta, che il Sacrificio diventasse cruento onde dare soddisfazione alla Giustizia di Dio che è il Suo Amore ferito. Ma l’uomo, una creatura, non avrebbe mai potuto operare un Sacrificio tale da riparare l’offesa ontologica arrecata al Sommo Bene. Solo Dio stesso poteva farlo e lo ha fatto accettando, quale esito dell’Incarnazione, anche la Passione, Morte e Resurrezione.

Nella tradizione francescana è stato il grande teologo scozzese dell’Immacolata Concezione, Duns Scoto, a richiamare l’attenzione, mentre indagava sul mistero dell’Immacolata, alla centralità dell’Incarnazione di Cristo. Duns Scoto si ricollegò all’antica tradizione per la quale l’Incarnazione era fin dall’eternità nel progetto di amore di Dio verso l’uomo e per la quale essa sarebbe egualmente avvenuta anche senza il peccato originale, sicché la Passione e la Morte di Gesù sono, a maggior ragione, espressione, in vista della Resurrezione e della Redenzione, dell’immensa volontà di amore di Dio che si rivela sul Calvario e, perennemente, nell’Eucarestia.

«Non si tratta di sapere – afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica ai nn. 284 e 285 – quando e come sia sorto materialmente il cosmo, né quando sia apparso l’uomo, quanto piuttosto di scoprire quale sia il senso di tale origine: se cioè sia governata dal caso, da un destino cieco, da una necessità anonima, oppure da un Essere trascendente, intelligente e buono, chiamato Dio. E se il mondo proviene dalla sapienza e dalla bontà di Dio, perché il male? Da dove viene? Chi ne è responsabile? C’è una liberazione da esso? Fin dagli inizi, la fede cristiana e stata messa a confronto con risposte diverse dalla sua circa la questione delle origini. Infatti, nelle religioni e nelle culture antiche si trovano numerosi miti riguardanti le origini. Certi filosofi hanno affermato che tutto è Dio, che il mondo è Dio, o che il divenire del mondo è il divenire di Dio (panteismo); altri hanno detto che il mondo è una emanazione necessaria di Dio, scaturisce da questa sorgente e ad essa ritorna; altri ancora hanno sostenuto l’esistenza di due principi eterni, il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, in continuo conflitto (dualismo, manicheismo); secondo alcune di queste concezioni, il mondo (almeno il mondo materiale) sarebbe cattivo, prodotto da un decadimento, e quindi da respingere o oltrepassare (gnosi)».

Il mondo, dunque, nella prospettiva della Rivelazione, non è il prodotto di una intrinseca necessità, di un destino cieco o del caso, ma ha origine da un libero atto di amore di Dio che lo vuole secondo la Sua Sapienza e lo partecipa – partecipa ogni creatura – del suo Essere ma senza alcuna degradazione o frammentazione o emanazione della Sostanza Divina nelle creature

«Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono» (Ap. 4,11)

«Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza» (Sal 104,24)

«Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).

Dio crea liberamente ex nihilo sicché la creazione non è una emanazione necessaria della sua sostanza o natura, ed il mondo non è una caduta dell’essere tale da generare il male, il polo malvagio opposto al polo benigno, entrambi racchiusi nel Principio unitario iniziale

«Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano» (2Mac 7,28).

Già un antico padre della Chiesa quale san Teofilo d’Antiochia protestava: «Che vi sarebbe di straordinario se Dio avesse tratto il mondo da una materia preesistente? Un artigiano umano, quando gli si dà un materiale, ne fa tutto ciò che vuole. Invece la potenza di Dio si manifesta precisamente in questo, che Egli parte dal nulla per fare tutto ciò che vuole» (“Ad Autolycum” 2,4).

La creazione è destinata all’uomo, è una eredità a lui affidata, un dono a lui fatto. Creata con sapienza essa ha un ordine, perché come recita il libro, appunto, della Sapienza, 11,20: «Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso», ed è eredità dell’uomo, immagine di Dio, chiamato a custodirla in una relazione personale con il Verbo Eterno Immagine del Dio Invisibile.

La Chiesa, lungo i secoli, ha dovuto difendere ripetutamente, contro forme di gnosi spuria derivanti da culture extrabibliche non ancora purificate, la bontà della creazione, anche di quella del mondo materiale. Lo ha fatto, ad esempio, giusto per citare solo alcune delle innumerevoli occasioni, nella Lettera Quam laudabiliter di san Leone Magno, nell’Anatema contro i Priscilliani del Concilio di Braga, nella costituzione De Fide Catholica del Concilio Lateranense IV contro i catari, nel Decretum pro Iacobitis del Concilio di Firenze, nella costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I.

«Tu ami – afferma Sapienza, 11,24-26 – tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato; se tu avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita».

Pur Creatore, Dio è infinitamente più alto e grande di tutte le sue opere ed esse tutte insieme come pure ciascuna per sé non possono rinchiudere l’Essenza infinita di Dio. La Sua Maestà si innalza sopra i cieli e la Sua grandezza non è misurabile. Ma proprio perché Egli è la Sorgente dell’essere e tutti gli esseri sono in Lui – benché, nella partecipazione analogica senza discontinuità ontologica, altri da Lui – è presente nell’intimo più profondo delle sue creature

«In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28)

«interior intimo meo et superior summo meo» (Agostino “Confessioni” 3,6,11) ossia “più intimo della mia parte più intima, più alto della mia parte più alta”

«… Dio si trova in ogni cosa per presenza, per potenza e per essenza» (Santa Teresa d’Avila “Castello interiore” Quinte mansioni, capitolo 1).

Perché il male?

In questo quadro di bontà ontologica della creazione sembra che non dovrebbe esserci posto alcuno per il male. Eppure il male c’è e lo sperimentiamo ogni giorno nella nostra vita.

Dunque, da dove viene? E’ opera di Dio? Oppure, come sostengono certe gnosi, esso è una parte, l’altro volto, di Dio? E’ una polarità opposta al bene sicché si può parlare di due poli che si danno reciprocamente e che esistono necessariamente ed inevitabilmente sostenendosi a vicenda pur nel contrasto?

Dio ha creato il mondo in stato di via verso la sua perfezione ultima, verso l’Omega ricongiunto all’Alfa nel Verbo Incarnato, Morto e Risorto che è ora l’Agnello assiso nel trono della Gerusalemme celeste.

Anche le creature intelligenti, angeli e uomini, sono stati creati in stato di via, in cammino verso la loro perfezione – che non è affatto sinonimo di evoluzione, soprattutto se per evoluzione si intende il paradigma darwiniano, ormai da decenni insostenibile anche sul piano scientifico – la quale si identifica con l’adesione libera all’Amore di Dio nel Figlio, nel Logos intorno al Quale ruota tutta la creazione.

Dio vuole essere amato liberamente dalle sue creature intelligenti, angeli e uomini. Per questo Egli non si manifesta in tutta la Sua Maestà, perché altrimenti tanto l’angelo quanto in particolare l’uomo, che a differenza degli angeli ha un corpo, resterebbero schiacciati da tale Luce Inaccessibile e non corrisponderebbero liberamente al Suo Amore, non potendo nessun essere rigettare Dio se Egli si manifesta apertamente quale sorgente stessa del proprio essere creaturale. Ma un amore coatto non è vero amore ed è per questo che Dio mette alla prova angeli e uomini affinché essi possano scegliere di amarLo liberamente. Alla prova, infatti, sono stati sottoposti non solo gli uomini ma anche gli angeli, per i quali la Rivelazione parla appunto di “angeli viatori”. Il male, dunque, è il rifiuto di questa libera adesione nel Figlio all’Amore Trinitario di Dio nel nome di una pretesa autonomia ontologica che in realtà non può darsi. Meglio ancora: il male è la chiusura del cuore all’Amore di Dio, allo Spirito Santo che è Fuoco che arde le creature senza consumarle. L’autorefenzialità è il male che porta al solipsismo, all’egoismo anche tra gli uomini.

Il male pertanto non ha vera consistenza, non è né un attributo di Dio, né una polarità opposta al bene, né un ente esistente di per sé. Il male, come i Padri della Chiesa, in particolare Agostino, hanno scoperto è soltanto assenza di bene, ossia deficit di essere. La chiusura all’Amore di Dio è chiusura al Sommo Bene, l’unico che ha, senza derivare da altri, essenza ed esistenza. Questa chiusura è quindi, nella pretesa di indipendenza ontologica, una introversione autorefenziale della creatura che sbarra la porta del cuore alla fonte stessa del suo essere, senza per questo poter effettivamente cancellare la propria dipendenza ontologica che resta – perché Dio continua ad amare anche la creatura che lo rifiuta – ma rovesciata nel “non serviam”. Una libera scelta di fronte alla quale Dio, che lascia le sue creature intelligenti libere, fedele alle Sue Promesse non può far nulla. Non perché trova in ciò un limite alla Sua Onnipotenza ma perché rispetta la libertà creaturale dando così gloria al Suo Nome che ha donato a tutti la vita promettendola di non toglierla mai.

Dio non ha dunque creato l’inferno, ovvero quelle dimensioni o quei “luoghi” del post-mortem, ossia “stati dell’essere”, nei quali cadono gli uomini del tutto ermeticamente chiusi, per loro libera scelta, all’Amore di Dio, alla Sorgente del loro essere. Luoghi, quelli infernali, nei quali si sperimenta non solo la “pena del danno”, ossia la privazione di Dio che è la più dura, ma anche la “pena del senso”, ossia una vera sofferenza molto più aspra di quella fisica perché trattasi di un vissuto psicologico che assume forme orrifiche e che viene descritto, dai resoconti mistici, di volta in volta come fuoco, ghiaccio, visioni di demoni ed altri esseri orribili, putredine, persino trasformazione delle anime dannate in animali orripilanti. Si badi, non sono cose da ridere né barzellette!. Si tratta, in sostanza, del peccato, ossia di tutto quanto di negativo l’uomo ha accumulato nel suo transito terreno, che prende forma “concreta” e si scaglia contro lo spirito umano, imprigionato nel suo stesso peccato.

Le “pene infernali” sono quanto tradizionalmente, si pensi al Dante de La Commedia, viene concepito come “contrappasso” ad indicare che l’uomo si autocondanna a soffrire, mediante gli stessi sensi corporali mal usati, gli atti negativi accumulati in vita e che, per sua volontà, per sua libera e scellerata scelta, continuerà a portarsi dietro in eterno.

Simile, ma non perfettamente identica, al concetto di “contrappasso” è la nozione induista-buddista di “karma” che certa vulgata connette alla metempsicosi, intesa popolarmente quale “trasmigrazione delle anime”, laddove invece, in dette tradizioni, o meglio in ciò che in dette tradizioni sussiste della Tradizione Originaria del Verbo, il karma sta, appunto, ad indicare la reazione, quindi la “pena” o il “premio”, che ogni nostro atto chiama e che può inabissare verso il basso, ossia chiuderlo in sé, o portare verso l’Alto, ossia aprire all’Amore, lo spirito umano.

La Rivelazione svela che la sofferenza infernale diventerà completa quando, al momento escatologico della fine della storia, il dannato riassumerà il proprio corpo, trasfigurato, e quindi si troverà in una condizione peggiore dato che sperimenterà il vissuto orrifico e di sofferenza anche mediante la propria sfera corporea, “spiritualizzata” sì ma anche concretamente “carnale”.

Non può però parlarsi, riguardo ai “luoghi infernali”, di stati inferiori dell’essere intesi come emanazioni estreme della manifestazione della Sostanza Divina, facendo così di Dio il creatore di tali dimensioni ovvero il generatore “ab intra” non solo del Bene ma anche del Male. Gli stati infernali non li ha creati Dio ma derivano dalla chiusura ontologica della creatura al suo Principio, derivano da una introversione ontologica e spirituale che può paragonarsi ad una stanza ermeticamente chiusa, o senza più finestre, nella quale non penetra mai il sole sicché essa diventa ben presto ricettacolo immondo di sporcizia, insetti fastidiosi ed animali che di oscurità vivono. Per darne una lontana comprensione si può fare l’esempio della depressione perché il depresso è appunto chiuso in sé stesso, incapace di aprirsi alla vita, e cade giorno per giorno in una introspezione disperante che lo porta sempre più giù, sovente fino al suicidio. Ed infatti c’è chi, giustamente, sospetta, eziologia medica a parte, che tra la depressione e gli stati infernali dell’anima sussista una qualche relazione.

I “luoghi infernali” non sono, dunque, come per certe gnosi, una emanazione del Principio Primo. Perché se così fosse l’inferno sarebbe creazione di Dio, quale estrema polarità a Lui opposta. L’Inferno non è mai creato da Dio. L’Inferno lo creiamo noi uomini, ce lo costruiamo, se non stiamo attenti, giorno per giorno chiudendoci alla Luce con una vita dissipata nel transeunte e dimentica di Lui. Sicché, poi, quando arriva la morte restiamo “fissati” in quel che siamo stati follemente capaci di costruirci da soli. E’ l’uomo a costruirsi l’inferno, non Dio.

Anzi si può dire, come affermano molti mistici che, per una speciale grazia, lo hanno visitato, al fine di raccontarlo agli uomini, che l’inferno è lo stesso Amore di Dio vissuto alla rovescia. Il che ne spiega l’eternità. Dio è fedele a Sé stesso ed alle Sue promesse e per questo non toglie l’essere a nessuna delle sue creature. Non lo ha fatto neanche con Lucifero e gli altri angeli ribelli. Non lo fa con gli uomini che scelgono di dannarsi. Ma, nel rifiuto di Dio, si sperimenta un’esistenza rovesciata, si sperimenta lo stesso Amore di Dio, che inonda tutte le creature e che continua ad inondare anche il dannato, ma al rovescio e questo provoca, nella chiusura ontologica al Sommo Bene, un vissuto spirituale di sofferenza orrifica.

Di fronte alla rovina cui l’uomo post-adamico facilmente si destina da sé, la Misericordia di Dio, che supplica ogni essere umano fino all’ultimo istante della sua vita, quando egli può ancora salvarsi con un pentimento in extremis, ha lasciato aperta una possibilità di purificazione post-mortem per tutti coloro che pur non avendo completamente aperto il cuore all’Altissimo tuttavia non lo hanno neanche completamente chiuso. Pertanto anche il Purgatorio –  anzi i purgatori dato che, come gli inferni, ce ne sono tanti quanti sono i purganti, ed i dannati, e ciascuno il suo purgatorio, o il suo inferno, se lo porta dietro e dentro – è sofferenza, benché senza pena del danno ma simile in quanto a pena del senso a quella infernale, ed è una costruzione umana, uno stato dell’essere che ci costruiamo noi da soli. Tuttavia la Misericordia di Dio lo rende transeunte intervenendo con la Grazia del Sangue di Cristo a “lavare” i purganti ed ad attrarli verso stati superiori e celestiali, ad iniziare dal “prato verde” dal quale si ascende ancora più in alto. Questi, gli stati celestiali dell’essere, infatti sono gli unici che non noi ma Dio nel suo disegno creativo e salvifico originario – «nella Casa del Padre mio vi sono molti posti» dice Cristo in Gv. 14, 2 – ha preparato ab aeterno per gli uomini.

(CONTINUA)

Luigi Copertino