MACRON E DINTORNI. SOPRATTUTTO DINTORNI.

di Roberto PECCHIOLI

E’ troppo presto per elaborare il lutto. La botta è forte, il misero 35 per cento di Marine Le Pen pesa come un macigno e giustifica lo scomposto entusiasmo delle oligarchie e dell’esercito mediatico ed intellettuale schierato con Macron, il nuovo beniamino del progressismo universale, il funzionario della famiglia Rothschild divenuto presidente della Francia. Cerchiamo di mantenere un briciolo di lucidità e, archiviato con sofferenza l’oggi, pensiamo immediatamente al futuro.

Partiamo da lontano: dopo la Brexit e la vittoria di Trump, le oligarchie mondialiste hanno avuto paura ed hanno innescato una reazione durissima ed a largo raggio. La loro azione si può paragonare, giusto per rimanere ancorati alla storia francese intrecciata con quella dell’Europa tutta, ai famosi cento giorni che intercorsero, nel 1815, tra la fuga di napoleone dall’Elba e la vittoria angloprussiana di Waterloo. Già dal 1814, imprigionato Napoleone, si svolgeva il Congresso di Vienna volto alla restaurazione degli equilibri intraeuropei distrutti dalla Rivoluzione prima, poi dall’onda napoleonica che diffuse nell’intero continente le idee nuove.

L’entusiasmo dirompente, da scampato pericolo delle élite che hanno imbrogliato il popolo una volta di più, somiglia davvero al Congresso di Vienna. La restaurazione, o meglio una nuova stretta sulla presa feroce dei poteri finanziari e tecnocratici mondialisti è in atto. Macron ne sarà il perfetto esecutore. Epperò, la restaurazione non durò poi molto, e l’esplosione del 1848, anticipata in Francia dal 1830 di Filippo Egalité e dai cento nazionalismi crescenti in ogni angolo d’Europa travolsero la costruzione di Metternich e della solita Inghilterra, sempre abilissima nel “divide e t impera”.

Nessuna vittoria è definitiva, se si lavora come termiti per togliere la terra sotto i piedi al nemico. Nemico, non avversario, nel senso schmittiano ed anche, molto semplicemente come presa d’atto che nemico è considerato ogni pensiero alternativo al lessico tecnocratico liberale. La guerra continua. Incassiamo la testa nelle spalle, ingoiamo senza dimenticare nessun volto e nessun nome di quelli dei festeggiamenti scomposti – europoidi ed italiani- per lo scampato “mal francese” e avanti tutta.

Ma per approdare dove? Occorre una riflessione severa e serena affinché il fuoco non si spenga, ma anzi si propaghi sino alla vittoria dei popoli. Un primo punto, contingente, è riconoscere l’inadeguata prestazione di Marine Le Pen nel dibattito a due. Ha perduto in due ore quei cinque punti di recupero che aveva conquistato, ad unanime giudizio dei sondaggi. L’attacco virulento, l’assalto all’arma bianca sono l’ultima risorsa del molto debole. Fin troppo facile, per il signorino viziato targato Rothschild accreditarsi come l’uomo dell’ordine e della pace sociale. Secondo elemento: la violenza del regime si è dispiegata con tutte le sue risorse, ed è parso chiaro al francese medio che la vittoria del Front sarebbe sfociata in un clima di guerra civile alimentata ad arte. Terzo, la sinistra “sociale” non è in grado di superare i vecchi pregiudizi novecenteschi. Tuttavia, milioni di schede bianche e nulle – i voti validi sono stati appena 31 milioni, dimostrano che lo schema “ni patrie, ni patron, ni Le Pen ni Macron” è forte. I segnali della nascita di un “fronte sociale” ci sono tutti. Il problema è quello di saldarlo con un altro fronte, quello in senso lato, nazionale e sovranista. Quarto, la destra liberale e quella conservatrice – a Parigi come a Roma – risponde senza esitare al richiamo dell’oligarchia. Alla larga, definitivamente.

Vi sono anche elementi di speranza. In Francia, un terzo dell’elettorato, e milioni di astenuti, si sono comunque schierati contro il sistema globalitario. In più, l’agenda politica è stata dettata dal Front National, e, dall’altro lato, dai cosiddetti ribelli, o renitenti, (la France insoumise) di Mélenchon. Un’altra osservazione è che in Francia l’oligarchia è dovuta scendere in campo direttamente, con un brillante burattino di bell’aspetto azionato da uno dei più alti funzionari del mondialismo, Jacques Attali, teorico, tra l’altro, del “poliamore”.

C’è di più, ed è la generalizzazione delle grandi coalizioni. Se Frau Merkel governa con i socialdemocratici, lo spagnolo Rajoy sta in piedi per le astensioni e il benevolo atteggiamento dei socialisti. Lo stesso Macron, tra un mese, dovrà necessariamente fare i conti con una maggioranza parlamentare allargata ai repubblicani di ascendenza gollista ed ai resti del PS. Roma seguirà a ruota, come tutto fa prevedere, a partire dal nuovo profilo “liberal” dell’ex Cavaliere, cui daranno volentieri man forte centrini vari e non pochi orfanelli in crisi di astinenza da auto blu e poltrone ministeriali, il tutto sotto il comando del Buffalmacco di Rignano sull’Arno.

Il futuro sembra segnato: il cerchio del potere si chiude in se stesso poiché non riesce più a riprodurre il consenso di massa. La società dei due terzi che stanno bene e del terzo che soffre sta rovesciando le sue percentuali. Il dissenso, diffuso quanto impotente, è diviso, rissoso, guarda al dito e non alla luna e non pare capace di costruire fronti, stringere alleanze in grado di ribaltare i rapporti di forza. Non si riescono a scardinare le categorie e le fratture del secolo scorso, diventate gabbie le cui chiavi sono in mano ai costruttori del consenso, ergo ai padroni perpetui, globali. Mentre qualcuno anima un fronte sociale, nessun vero dialogo, tanto meno alleanza si intravvede con gli ambienti identitari e sovranisti.

L’impasse diventa tragedia e riconsegna il potere ai soliti noti. Nel caso di Macron, l’aggravante è la sfacciata appartenenza alla casta usuraia, unita all’esibizione di simboli massonici: l’Inno alla Gioia suonato prima della Marsigliese, la foto davanti all’equivoca piramide postmoderna che sfigura il piazzale del Louvre. Marine Le Pen sembra aver capito di trovarsi, da protagonista, ad un tornante della storia, ed ha annunciato il cambio di nome del suo movimento, per favorirne il riposizionamento politico sul crinale che Alain Soral chiama “destra dei valori, sinistra del lavoro”. Occorrerà verificare il programma, ed anche scoprire chi comporrà lo stato maggiore, ma l’intuizione è forse l’unica (ultima?) via d’uscita.

In Italia, un intellettuale come Marcello Veneziani esorta ad un nazionalpopulismo con quattro punti principali. Il primo è la sovranità, ovvero la rivendicazione della sovranità popolare, nazionale, politica ed economica unita al passaggio dalla pulsione populistica alla visione comunitaria. Il secondo tema è la cura prioritaria degli interessi nazionali anche sul piano economico, e dunque “la necessità di proteggere e tutelare le economie locali e nazionali, i ceti popolari, i prodotti autoctoni dalla globalizzazione del commercio e del lavoro”. Un altro fronte è quello della difesa dei confini contro l’abbattimento di filtri e frontiere in ogni campo e il dilagare dei flussi migratori. Infine, la tutela della famiglia costituita da padre, madre e figli.

Vasto e condivisibile programma, che, tuttavia, nel passaggio dal fronte metaculturale a quello del realismo politico, sconta due terribili debolezze. La prima è l’evidenza che uno schieramento con queste parole d’ordine non sarà mai accettato dalla destra liberale. Berlusconi si dichiara ora fan di Macron, ma l’estraneità ai valori proposti dall’intellettuale barese è nei fatti, ovvero nell’agenda politica dei suoi governi. La seconda è l’ostilità dei maestrini della sinistra intellettuale per almeno tre dei quattro principi guida, il che preclude ogni dialogo a sinistra. Dunque, sconfitta certa, e ulteriore consegna della destra terminale e della sinistra intellò al cerchio magico neoliberale, nelle sue declinazioni progressista-libertaria e moderata.

E’ evidente che occorre spezzare il cerchio rompendo lo schema, come ha saputo fare, con le parole d’ordine antipolitiche ed anticorruzione, Beppe Grillo. Pure, non ci si può consegnare al grillismo, per quanto sia probabilmente il male minore rispetto alla dittatura dell’Unico Globale.

Chi scrive non possiede soluzioni magiche per ribaltare una situazione drammatica, né conosce formule politiche o alchimie ideologiche in grado di invertire la rotta. E’ tuttavia convinto che il sistema vigente non sia riformabile dall’interno e che dunque nessuna alleanza che comprenda le forze che compongono l’attuale arco politico possa essere percorribile. La constatazione necessaria, ma assai difficile da far passare nell’immaginario comune, è che le vantate libertà postmoderne e postideologiche siano un imbroglio e vadano quindi rifiutate tutte insieme. Libera circolazione dei capitali, delle merci, dei servizi e delle persone, insieme con l’abolizione di ogni riferimento morale o trascendente (libera circolazione di una sola idea, il relativismo assoluto) non possono essere accolte o rifiutate a pezzi, in parte, questa sì, quell’altra no.

La destra legata al novecento approva entusiasticamente la circolazione del denaro e delle merci, ma storce il naso dinanzi alle imponenti migrazioni. La vecchia sinistra figlia del socialismo reale è contraria ai rapporti di produzione del capitalismo finanziario e tecnologico, ma è banditrice dei nuovi diritti che travolgono la famiglia e difende l’immigrazione massiccia per il cosmopolitismo che ha sostituito l’internazionalismo. Il mondo unificato dall’impero del denaro e dalla potenza tecnologica uscito dalla vittoria liberalcapitalista ha una sua sinistra logica, avanza distruggendo ciò che trova. Non lo si può accettare per una parte e contrastare per un’altra. Dunque, la scelta politica sottostante, per chi è contro le oligarchie mondialiste, è la ricerca di un linguaggio comune che spazzi via definitivamente le vecchie appartenenze. C’è un nemico, ed è il liberalcapitalismo nella sua forma globalitaria di dominio attraverso il possesso di mezzi tecnologici oggi giorno più potenti. Avere un nemico comune è il primo motore di nuove alleanze, anche inedite o impensate sino all’attimo precedente.

Per chi vive l’appartenenza al mondo variegato del sovranismo, dell’amore per l’identità, del rispetto per la morale naturale, si tratta di fare, finalmente, un salto che è una presa di coscienza. Non c’è nulla che accomuni alle destre conservatrici, liberali e del denaro. Qualcosa unisce invece al vasto mondo di chi non ama il potere dei signori del denaro. Dunque, finalmente, proviamola nuova. Ciascuno di noi conosce per esperienza la tremenda difficoltà di parlare al nostro popolo fuori dal perimetro obbligato della ragion pratica: l’orizzonte immediato è fatto di richieste, bisogni, paure, speranze riconducibili alla dimensione collettiva politico-sociale. Questo è anche il motivo per il quale la sinistra tradizionale ha tanta facilità a farsi ascoltare.

Accettiamo allora lo schema di Veneziani, ma poniamo al primo punto – ed attrezziamo linguaggio, programma, personale politico- la “protezione”, ovvero un’offerta politica opposta all’agenda dei monopoli privati. Non dobbiamo avere paura di essere tacciati, dalla vetero-destra, di esserci trasferiti “altrove”. E’ proprio un altrove che cerchiamo disperatamente, da almeno vent’anni. Un movimento sociale nel senso letterale è quello di cui ha bisogno l’Italia. Una grammatica ed un lessico nuovo, contro la privatizzazione del mondo e, concretamente, un ritorno forte dell’idea di Stato. Essere sovranisti significa, in fin dei conti, esigere di farla infinita con l’impotenza. Ma ci vogliono strumenti pratici, il primo dei quali, screditato ma non troppo, è appunto lo Stato.

Se proprio vogliamo risalire alle fonti, irrompere nel presente ci permette di tornare ad un’ideale di cui fu protagonista il fascismo. Il trapassato remoto va lasciato dov’è, ma dalla miniera possiamo estrarre ancora qualcosa. Dobbiamo proteggere il popolo italiano innanzitutto prospettando il controllo pubblico del credito, della previdenza (ai giovani viene detto, pagati un’assicurazione, o lavorerai sino alla morte), della sanità. Dire di no senza compromessi a che reti informatiche e fonti energetiche siano controllate da privati estranei alla nostra gente. Far pagare le imposte sino all’ultima lira alle finte fondazioni bancarie/finanziarie ed ai giganti della tecnologia, che realizzano evasioni ed elusioni da capogiro, fare una campagna per l’abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione e l’uscita dal Meccanismo Europeo di Solidarietà, (il FMI in salsa europoide) e pretendere l’istituzione di un salario minimo. In parole semplici, enfatizzare la politica sociale e popolare ed attaccare le privatizzazioni, che sono una drammatica espulsione di piccole, poi medie, in seguito grandi imprese per fare posto ai monopoli. Aggredire ogni giorno il “partito di Davos”, innanzitutto nella forma e nel volto dei travestiti politici che rubano, letteralmente, il consenso popolare, a destra ed a sinistra.

Assumere, quindi, ma sul serio, la tutela e la voce dei perdenti della globalizzazione: i giovani precarizzati, gli espulsi in età matura dal mercato del lavoro, le vittime di Equitalia e prima ancora dei ricatti del criminale sistema bancario, i piccoli e medi imprenditori espropriati di fatto, i pensionati che vedono ogni anno diminuire i loro assegni. Non interessa, è anzi oziosa, la domanda se ciò sia di destra o di sinistra. E’, semplicemente, giusto, è la croce della nostra gente, crediamo anche sia la giusta vocazione.

Come si può essere sovranisti, amare la patria comune, pretendere di essere padroni a casa propria, e non essere concretamente al fianco di chi vive e veste panni esattamente come noi? Il comandante vandeano Charette diceva che la sua patria era quella che sentiva sotto i piedi. Se i connazionali soffrono, dobbiamo soffrire con loro ed essere dalla stessa parte. Nessuno può immaginare di trasformarci in cosmopoliti amanti della migrazione di massa, o di indifferenti che confinano nelle scelte individuali l’attacco vergognoso alla famiglia ed alla morale naturale. Ciò che dovremmo tentare è di rinnovare noi stessi a partire dall’approccio. Ezra Pound invitava a studiare economia per capire il Novecento. Oggi, dobbiamo aggiungere la finanza e la tecnologia, ma il codice è quello. Abbiamo idee giuste che diffondiamo, ahimè, in una lingua sconosciuta ai più. Proviamo ad assumere le priorità dei milioni di perdenti, di impauriti, di disagiati, di maltrattati da un sistema diabolico. Quelle priorità sono, tutte, il ghigno cattivo del sistema liberale e capitalista.

Drieu La Rochelle esortava ad essere oggi là dove gli altri sarebbero arrivati domani. Dobbiamo fare di più, e tentare un salto enorme. Nell’alto mare aperto si può affogare, ma nel cabotaggio desolante cui ci siamo ridotti c’è solo il ridicolo, l’inedia, o, peggio, l’inutilità.

Per questo, indipendentemente da quello che faranno o non faranno altrove, esprimiamo uno scatto di orgoglio e di fierezza, raccogliamo le forze e diventiamo avanguardia. Sociale, nazionale, sovranista, o altro, sono solo aggettivi. Avanguardia: qualcuno che è convinto di aver individuato i mali e si propone di curarli. Dalla parte del popolo, che ha bisogno di protezione. Quella protezione si chiama Stato, e l’unico aggettivo è “sociale”. Dalla parte di chi non ha nulla o lo sta perdendo, e sono milioni. Contro, senza compromessi, monopoli, finanza, Commissione Europea, Banca Centrale. I nemici abbondano, purtroppo. Scegliamo, intanto, quelli che infliggono le ferite quotidiane alla nostra gente più esposta. Saranno loro i primi a riconoscere e condividere, per istinto, i nostri no all’immigrazione sostitutiva, allo smantellamento della famiglia, all’espulsione di Dio. Diventeranno sovranisti senza chiederglielo, vorranno riappropriarsi dell’identità smarrita. Ma intanto dobbiamo rivolgerci al loro stomaco, al loro portafogli svuotato, alle loro legittime e concretissime paure.

Funzionerà, non funzionerà? Lo sapremo vivendo, e comunque, tutto il resto non ha funzionato, ovvero è stato il trampolino per carriere personali. Inoltre, c’è un momento nella vita di ogni uomo, e di ogni comunità, in cui si deve fare ciò che va fatto. Susanna Tamaro prescrisse di andare “dove ti porta il cuore”. Nel nostro caso, cuore e cervello possono coincidere. La scelta più facile è, in genere, quella sbagliata, in ogni campo della vita. Per noi, gridare più forte al lupo con le tradizionali parole d’ordine della destra terminale è più semplice e, nell’immediato, può anche fruttare qualcosa, ma, guardiamo in faccia, per favore, la realtà anche quando è brutta, cattiva, impietosa. Su un punto Berlusconi ha ragione: di sola destra non si vince; di centro, si muore…

Nella cassetta degli attrezzi nostra, per fortuna, c’è molto di più. Invertiamo la rotta. E’ la cosa giusta e, comunque, non abbiamo più qualcosa da perdere.

   ROBERTO PECCHIOLI