L’OLIGARCHIA CELEBRA LA SUA FESTA (con nuove cose)

di Roberto PECCHIOLI

25 aprile. Un’altra volta. Si ha voglia di chiuderla con Sandra Mondaini nel lettone mentre Raimondo Vianello legge impassibile la Gazzetta dello Sport: che barba, che noia. Eppure no, qualcosa bisogna pur pensare e dire. Chi scrive è di parte: la parte perdente. Ho attraversato la vita intera da esule in Patria per non credere nelle verità ufficiali, nelle celebrazioni paludate che oggi chiamano narrazioni. Ribelle e bastian contrario per natura, probabilmente avrei avuto a noia nel ventennio gerarchi e marce militari, e, conoscendomi, non avrei perso occasione per farmi dei nemici, con qualche rischio in più rispetto agli antifascisti spuntati a milioni a cose fatte. Diceva bene Leo Longanesi settant’anni or sono, osservando che in Italia c’erano due tipi di fascisti, quelli propriamente detti e gli antifascisti.

Oligarchi, Ricchi di Stato, potenti e inadempienti: è la loro festa

Oggi, nell’anno di grazia 2019, sopravvivono esemplari giurassici delle due categorie. In verità, soprattutto della seconda. Essere antifascisti in assenza di fascismo è facile, comodo e permette di fare la voce grossa nel deserto. Nuovi adepti della categoria vengono fabbricati ogni anno in appositi laboratori per tenere viva una storia raccontata senza chiaroscuri, come i manichei, tutto il bene di qua, tutto il male di là. Fu oltre la comicità, qualche decennio fa, Norberto Bobbio, dubbio “papa” laico della cultura (anti)italiana, quando dettò il Verbo con tono di vate: dove c’è cultura non c’è fascismo, dove non c’è, lì è il fascismo. Detto da uno che si prosternò davanti al duce dei buzzurri, non vale la pena ricordare Gentile e Marinetti, Pirandello e Marconi, Cinecittà, Sironi, gli architetti, gli economisti che fondarono l’Iri.

Aprono bocca e tradiscono la loro voglia di totalitarismo. Solo nelle dittaure “la storia non si riscrive”  per ordine presidenziale. 

Nella fucina di Vulcano antifascista si forgia con cura anche qualche esemplare del nemico, bisogna pure che ci sia qualche fascista in giro, meglio se rasato, con gli anfibi e la lattina di birra. Il neofascismo come rutto e il prefetto di polizia che nega il corteo a chi vuole ricordare Sergio Ramelli, un ragazzo ucciso trent’anni dopo la liberazione per essere missino, un adolescente come me che non credeva alla “narrazione”. Intanto ripassano la lezione di ogni anno, fronte corrugata, sguardo carico di indignazione e ira retrospettiva, dito alzato, il moralismo rancido di troppi senza morale, fuori dal corteo chi non porta la bandiera rossa e non è dell’ideologia “giusta”. Ricordiamo con indignazione gli insulti al padre di Letizia Moratti in carrozzella.

Chi nasceva in quei giorni d’aprile ha oggi settantaquattro anni. La gran parte della vita è alle spalle, con il suo carico di gioie, dolori, delusioni, ha probabilmente figli e nipoti. Per una volta, tentiamo di assumere il suo punto di vista, l’italiano/a qualunque nato per caso il 25 aprile 1945. Mi sia permesso citare Thomas Stearns Eliot e la Terra desolata, un aggettivo assai adatto all’Italia contemporanea. Aprile è il più crudele dei mesi, genera lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera. L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una vita misera.

E’ migliore o peggiore l’Italia, dopo gli eventi drammatici di cui è simbolo quel giorno? Ognuno dia la sua risposta, io non intendo imporre la mia. Certo, è strana una nazione che fonda se stessa su una sconfitta – Germania e Giappone non chiamano festa la data della loro capitolazione – e anzi la esalta come vittoria perché un regime sgradito è stato cacciato. Ma la mia Patria non è un regime o una costituzione, si chiama Italia, non ha una data di nascita e non si fonda sulla demonizzazione di un pezzo di storia e di una parte rilevante di italiani. Non solo i fascisti, ma i monarchici, quelli dell’esercito regio, i milioni che stettero alla finestra, ansiosi solo di farla finita con quella guerra maledetta che aveva portato lutti, fame, bombardamenti.

L’Italia che uscì dalla tempesta dimenticò tanto di sé. Innanzitutto i simboli, la bandiera proscritta, chi la impugnava era sempre sospetto di fascismo. Da un lato chi sognava il sole dell’avvenire del comunismo, dall’altro chi si faceva amerikano. Italia non più italiana per oblio. Galli della Loggia parlò di morte della Patria dopo l’8 settembre, io penso che il decesso sia avvenuto dopo, in quel dopoguerra di guelfi e ghibellini i cui modelli erano Urss e Usa. Peppone, italianissimo nonostante tutto, e Moriconi Nando innamorato di tutto ciò che veniva da oltre Oceano. Liberatori, dicono. A prezzo di bombardamenti terribili che fecero ben più morti delle bieche rappresaglie tedesche, chi ricorda i bambini e le maestre della scuola di Gorla, nella Milano capitale dell’antifascismo?

Non so se ci hanno liberato, constato che ci hanno conquistato. Non solo perché, a tre quarti di secolo dalla guerra finita, hanno cento e più basi militari a casa nostra, pagate da noi, ma perché la loro american way of life è diventata la nostra, imitazione per colonizzazione. Abbiamo cambiato lingua, oh yes, testa e valori, denaro, successo, individuo. Abbiamo cambiato pelle, una mutazione che, credo, nessuno delle due parti, tranne gli anti italiani e anti cattolici viscerali del Partito d’Azione, avrebbe voluto o previsto. Si rivolta nella tomba perfino Antonio Gramsci, l’intellettuale che ha forgiato l’egemonia culturale del comunismo nella società italiana, realizzata con la fredda, lungimirante intelligenza di Togliatti.

E’ stato meglio, certo, essere stati servi degli americani che schiavi dei sovietici; quella contrapposizione è però finita da trent’anni e intanto sfilano con le stesse bandiere ogni anno più stinte e fingono di non accorgersi di chi ha vinto davvero. Non solo sul piano militare, giacché non si conosce nessun contributo decisivo dei partigiani alla vittoria sul campo- pochi sui monti, tantissimi in città, a guerra finita, a rivendicare meriti e prebende – ma innanzitutto sul piano simbolico. Ha vinto anche Finocchiaro Aprile, che voleva fare della Sicilia uno stato dell’Unione a stelle e strisce, forse ha trionfato davvero, come sosteneva la propaganda dei vinti, l’oro contro il sangue. Certo ha vinto la divisione perpetua, il lessico grottesco per cui fascista è diventato un insulto multiuso, buono per condannare qualsiasi atto o comportamento che infastidisce i padroni delle parole.

L’Oligarca numero 1

Ogni male del mondo è fascista: in fondo è rassicurante, persino necessario, Emmanuel Goldstein, l’arcinemico inesistente del Grande Fratello. Non scomodiamo René Girard e la teoria del capro espiatorio, ma oggi è fascista persino un’improvvisa diarrea, poiché limita la nostra libertà di movimento e di fare ciò che ci aggrada. Strana sensazione essere il Male: in fondo, è un personaggio indispensabile nell’eterna rappresentazione della vita. Un certo antifascismo verboso, pomposo e istituzionale ci ricorda il quadro impressionista I pilastri della società di George Grosz. Uno beve birra impettito, un altro ha la toga e arringa qualcuno, un altro ostenta denaro, sullo sfondo c’è chi porta una bandiera di cui si vede solo l’asta, a sinistra un bravo borghese ha in testa il pitale. La stessa rappresentazione può valere per il fascismo vacuo, magniloquente e patriottardo. Appunto, ogni verità ufficiale da cui è vietato dissentire diventa caricatura.

Aveva ragione Giorgio Almirante ricordando che l’amore della libertà l’aveva assorbito soffrendo ogni dì persecuzione e disprezzo. Aveva torto invocando pacificazione: quella doveva venire subito, a sangue appena raffreddato. Non ci fu, ancora non c’è, al di là di qualche frettolosa parola di rispetto per i morti pronunciata a mezza bocca. Questa è l’Italia in cui è proibito definire assassinio l’omicidio di Giovanni Gentile, il massimo filosofo del nostro XX secolo, un uomo di quasi settant’anni, e nel quale hanno la medaglia d’oro al valor militare gli autori di attentati sanguinosi.

Eppure, bisogna andare avanti. La saggezza napoletana partorì una canzone del dopoguerra che invocava “scurdammoce ‘o passato, chi ha dato, ha dato, ha dato, chi ha avuto, ha avuto, ha avuto.” Erano ancora tempi in cui gli italiani cantavano, ma quelle parole non hanno scaldato i cuori. E’ tardi per cambiare le cose, lasciamo che festeggino, limitiamoci a non guardare i telegiornali e non ascoltare i notiziari radiofonici. A sera, tutto sarà passato, domani è un altro giorno.

La cosa grottesca, allegria di naufraghi, è che sta passando l’Italia. Tra immigrazione massiccia, aborti, individualismo rampante e nuovi diritti, tutte libertà amerikane, tra pochi anni il 25 aprile sarà finito per cessata nazione. Magra consolazione. Onore e rispetto a chiunque abbia combattuto, sotto qualunque bandiera, animato da un ideale. Meglio, mille volte meglio dei pavidi, dei carrieristi, degli opportunisti, dei cauti. La maggioranza.

 

Il “Messaggio del Procuratore” era basato su un falso.  La frase  messa tra virgolette da   Il Corriere non esiste.