L’Italia non è una repubblica!

di Roberto Pecchioli

L’Italia non è una repubblica. Lo affermiamo senz’altro, a ridosso della ricorrenza del 2 giugno, pomposamente detta Festa della Repubblica. Non intendiamo riferirci a polemiche storiche fuori tempo massimo per l’esito del referendum istituzionale, che pure gettano ombre sulla scelta del 1946. Schede ritrovate a sacchi dopo anni, il voto negato in province intere, brogli tanto clamorosi che i tribunali dell’epoca rifiutarono di proclamare i risultati. Non intendiamo neppure riferirci al ridicolo patriottismo costituzionale, parto della mente di Jurgen Habermas e di altri intellettuali neo illuministi, per i quali l’unico amor di patria ammesso è quello, algido e politico, per le “buone “istituzioni democratiche e rappresentative.
In Italia, banditore della patria “light” politicamente corretta, con i quattro codici in mano e la carta costituzionale, fu Carlo Azeglio Ciampi, uno che l’Italia la vendette a pezzi (privatizzazioni decise sul panfilo Britannia, il divorzio Tesoro- Banca d’Italia, distruzione della lira) e che ha quindi avuto un posto tra i Venerati (o venerabili…) maestri. Non vogliamo neppure infierire- se non altro per non alimentare sofferenze personali – commentando alcune ultime vicende del Bel Paese (peraltro, ha lo stesso nome un gustoso formaggio). Gettiamole lì alla rinfusa, esempi senza pretese di una fine annunciata e non evitabile: il presidente dell’INPS, l’economista alla moda Tito Boeri si felicita per l’emigrazione di molti connazionali. Collaborano alla diminuzione delle spese sociali, sostiene Boeri.
Torna alla mente il romanzo Sostiene Pereira, ed il lavoro di autore di “coccodrilli”, i necrologi giornalistici in morte di personaggi famosi, offerto al giovane ribelle italo lusitano Francesco Monteiro Rossi. Di questo si tratta, di un coccodrillo anticipato, un necrologio o un testamento un po’ abusivo e un po’ no, scritto per conto di un De Cuius, l’Italia, che defunta non è ancora, ma non se la passa certo bene. Boeri ci preferisce espatriati, a noi italiani, e si unisce ad un coro iniziato da un ministro di Stato, Poletti, il rubicondo romagnolo delle cooperative rosse. In contemporanea, un altro ministro, il cattolico Delrio, insiste perché venga approvato lo ius soli, ovvero che sia dichiarato italiano chiunque nasca sotto questo cielo. Bersani, un altro dell’Emilia Romagna, afferma addirittura che si vergognerebbe se tale norma non passasse: apologia del suicidio.
La signora Fedeli, ministro dell’istruzione pubblica dalla scarsa istruzione privata lotta invece affinché sia consentito dare ai figli il nome della madre. Abbattere la patrilinearità senza neppure sostituirla con la linea femminile: a piacere, tanto per distruggere prima il poco che ci resta. Futile battaglia, poi, per un popolo che ha interrotto da tempo la catena generazionale e di figli non ne fa più. L’infezione della denatalità è così potente che anche gli immigrati- anzi i nuovi italiani – cessano di essere prolifici appena messo piede sull’ex sacro suolo. Individualismo dei “diritti”, femminismo, smantellamento delle tradizioni, abrogazione dei diritti sociali, vite precarie: è il mercato misura di tutte le cose. I figli sono un peso, anche per gli ultimi arrivati.
Un concorso pubblico al Ministero di Giustizia è stato sospeso per il ricorso di una cittadina albanese decisa a parteciparvi. Essere italiani non sembra più un requisito per l’accesso a pubbliche funzioni. Il 2 giugno, comunque, si è tenuta la consueta parata militare ai Fori Imperiali. Già qualche giorno prima, in visita ad una delle tante comunità terremotate, Mattarella aveva visto la bandiera nazionale brandita un po’ maldestramente da una simpatica signora di colore, evidentemente una nuova italiana.
Alla sfilata romana, sguardo corrucciato ed espressione schifata della presidenta Boldrini al passaggio dei militari della Folgore. Poi se l’è cavata – pezo el tacòn del buso- esaltando il servizio civile. Eppure, persino il mite patriottismo repubblicano & costituzionale prevede che la difesa della patria sia “sacro dovere del cittadino”. Tre vocaboli, tre significanti destituiti di significato. Il sacro è ormai bandito anche dalle chiese, tanto che il capo dei gesuiti nega l’esistenza del Diavolo. Chi tentò Gesù nel deserto, forse un bieco reazionario dell’epoca? Le fedi postmoderne sembrano più attente a garantirsi – a colpi di messaggi pubblicitari – l’Otto per mille delle nostre tasse. Il dovere è stato chiuso in cantina, sbaragliato dai più comodi “diritti”, individuali, tanto simili a capricci del signorino viziato, poiché quelli sociali e comunitari sono caduti in disgrazia presso i Mercati. Il cittadino, poi, si presume italiano, perché mai dovrebbe difendere a rischio della pelle la Patria o la Repubblica, o in qualunque altro modo scegliamo di chiamare l’Italia, se ha l’obbligo quotidiano di essere cosmopolita, globale, multiculturale, costruttore di ponti, severo distruttore di muri? Essere italiano non vale neppure per diventare assistente giudiziario al ministero, meglio, molto meglio che la repubblica (loro) la difendano i mercenari, pardon i volontari. Tra i capitani di ventura del XXI secolo, c’è la famigerata Blackwater che arruola soldataglia chiamata pudicamente contractors (in inglese viene tutto meglio), aspettiamo fiduciosi la brigata di Mohammed dalle Bande Nere.
Se sono italiano casualmente, giusto perché mia madre si trovava qui al momento del parto, voglio solo i diritti connessi alla cittadinanza, o resterò l’ultimo sciocco che crede alle parole false dei pifferai di Hamelin della repubblica! Le sue leggi, a partire dalla Costituzione posta nell’empireo dell’estetica (la più bella del mondo, forse della galassia) sono pezzi di carta. Prevalgono, nell’ordine, i voleri dei mercati, i diktat delle oligarchie finanziarie, la volontà del grande alleato Usa che ci occupa militarmente da settant’anni, ma solo per il nostro bene e con il nostro consenso, tanto paghiamo noi a piè di lista, le norme dell’Unione Europea, infine le amicizie e le appartenenze “giuste”.
Un vero e sincero italiano fu Giovanni Giolitti da Mondovì, solida terra di gente con i piedi ben piantati sulla terra: le leggi per gli amici si interpretano, per i nemici si applicano. Quanti dottori della legge, e scribi, e farisei ha la repubblica… Ma l’Italia non è una repubblica. Va scartata l’ipotesi balzana di definirla nazione o addirittura patria, orrore massimo, la terra dei padri, oggi indegni, quando esistono, di trasmettere il proprio cognome. E poi, via, sono parole antiquate degne di tromboni con il monocolo, tipo il babbo nel salotto di Nonna Speranza di Guido Gozzano, tra le vecchie cose di pessimo gusto. Del resto, non aveva torto Samuel Johnson a scrivere che il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni: basta guardarsi in giro, o accendere la TV.
Non è neanche un paese, l’Italia, con la p maiuscola o minuscola è lo stesso. Il proprio paese è una cosa molto seria. E’ la terra che calpestiamo – lo disse il vandeano Charette nemico dei cittadini della rivoluzione – è il campanile che vediamo dall’infanzia e scandisce le ore ed i giorni, è il dialetto, l’inflessione natia, è la gioia dolorosa del ritorno, quando rivedi risenti, annusi, un po’ cambiato, ciò che era tuo e ti è caro. Un paese, poi, è esclusivo: tu non sei di tutto il mondo, ma proprio di Roncobilaccio, di Strangolagalli, macché cittadino del mondo, il paese-che-non-c’è.
L’Italia è un sentimento, una voce, un luogo dell’anima perché ci sei- o ci vorresti essere- con i piedi, le scarpe ed il cervello. Veniamo allora alla promessa iniziale non mantenuta: nessuna nostalgia, ma un necrologio o un coccodrillo, come sui giornali locali: “ne danno il triste annuncio” e poi l’elenco dei parenti in lutto, con l’indicazione del funerale e, talora, l’invito a non portare fiori, ma compiere opere di bene. Anche i popoli muoiono. La data è incerta, liquida avrebbe detto Bauman, ma sicuramente un popolo cessa di esistere quando non si sente più tale. Oswald Spengler ci ha insegnato che anche le civiltà muoiono, solitamente di noia, stanchezza, inedia.
La scadenza dei popoli è più incerta e mobile rispetto a quella degli yogurt, ma che l’Italia “nostra” sia giunta a scadenza è un fatto. E’ come un matrimonio fallito, la data non è quella del certificato di divorzio, ma il giorno in cui è finito l’amore. Spesso, finisce da una parte sola, ed allora la ferita è più dolorosa, la sofferenza più grande. Poi, spesso ci si rifà una vita, come si usa dire. Dunque, l’Italia non morirà, ma diverrà qualcosa d’altro e diverso, nuova gente, nuovi colori, inevitabilmente nuove visioni della vita. Probabilmente, vorrà avere un nuovo nome. Alessandro Manzoni, nella lirica Marzo 1821, celebrava i primi moti nazionali, invocando l’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor.” Il ciclo è finito, meno di due secoli: game over. Sul trono – monarchico o repubblicano- ci sono poteri lontani ed estranei, e la repubblica è una e indivisibile solo nelle polverose scartoffie costituzionali. Di altari non ce ne sono più, o ce ne sono mille, come ci rivela la dichiarazione dei redditi, che ci permette di sostenere anche la Chiesa del Settimo Giorno.
La lingua, subito dopo essere divenuta patrimonio comune, attraverso la scuola e la televisione, si è imbastardita (si può usare ancora questo verbo sospetto?) per l’imposizione della neolingua anglo tecnocratica e per l’avanzata dei grugniti monosillabici dei messaggini. Anzi, la lingua di Dante non è neppure nominata in Costituzione come lingua ufficiale, in compenso a Bolzano domina il tedesco, ad Aosta il francese, anche se nessuno lo usa nella vita quotidiana ed in Venezia Giulia il Partito Democratico – perno della repubblica democratica progressista e multiculturale– si presenza alle elezioni in forma bilingue, Demokratska Stranka, se vi pare, per rastrellare il voto della piccola minoranza slovena. Ma almeno quelli sono cittadini italiani autoctoni, diversamente dalle masse straniere condotte senza vergogna in fila a votare alle elezioni primarie.
Tutti i comportamenti pubblici vanno nella direzione di avvantaggiare – è la storia invertita – ciò che è estraneo e straniero, persone, idee, valori, modi di essere, rispetto a ciò che è (o meglio era) nostro. E’ tardi per lamentarsi: non abbiamo voluto figli, siamo stati favorevoli ad ogni forma di aborto, pratichiamo volentieri l’eutanasia sui nostri stessi genitori, deridiamo la civiltà in cui siamo nati, abbiamo rinunciato a qualsiasi identità comune, svenduto la nostra sovranità. In caso di attacchi terroristici, organizziamo infiorate ed accendiamo lumini. Di che pasta siamo fatti lo dimostra la fuga di massa dei tifosi da Piazza San Carlo a Torino, con millecinquecento feriti nella calca prodotta da qualche petardo degli immancabili imbecilli. Eutanasia, buona e pietosa morte, è la giusta fine dell’Italia ridotta a repubblica.
Paradossalmente, tuttavia, poiché gli esseri umani hanno istinti di vita, forse l’odio di sé e la preferenza per gli stranieri sono segnali di una tenace speranza, di un riflesso di sopravvivenza. Siamo giunti alla conclusione che gli italiani si sentano così male con se stessi da sperare ormai solo in un trapianto, o in una robusta trasfusione di sangue. Un innesto multiplo, polmoni, fegato, cuore occhi, e poi globuli bianchi, rossi e piastrine. Un‘ uscita da se stessi, una sorta di disperata reincarnazione nell’Altro affinché resti qualcosa di noi. Chissà. In altre occasioni, abbiamo definito la condizione attuale dei popoli europei sindrome della balena spiaggiata. E’ quel fenomeno inspiegabile che porta alcuni cetacei ad arenarsi e morire a terra, lontani dal loro elemento naturale.
James Lovelock e l’ecologia profonda hanno inventato la figura di Gaia, la terra madre, il pianeta visto come un organismo vivente e a suo modo senziente, afflitto dalla superbia e dalla violenza degli uomini. L’Italia, con lo pseudonimo di repubblica, è forse qualcosa di simile. Infastidita dal trattamento ricevuto dai suoi figli attraverso idee, comportamenti e disvalori, magari è decisa a liberarsi di noi. Infine, non l’abbiamo amata o almeno rispettata, abbiamo sfigurato il territorio (il Bel Paese!), l’abbiamo lasciata in mano a classi dirigenti corrotte ed incapaci, noi stessi siamo vissuti nella corruzione, nell’imbroglio, nel feroce perseguimento del tornaconto. Odiamo i doveri, abbiamo preteso tutto come un diritto, senza fatica, al diavolo il sudore, lo sforzo. Adesso, come delfini infelici stanchi del mare, fuggiamo da noi stessi, in un orrore inconscio, un drammatico cupio dissolvi, desiderio di autodisfacimento. Dio toglie il senno a coloro che vuol perdere, Gaia/Italia sembra la conferma dell’antico detto.
In effetti, lasciamo a chi ci sostituirà un sacco di problemi irrisolti. In ogni testamento, ci sono attivi e passivi. Sarà prudente che i nuovi italiani accettino l’eredità con beneficio d’inventario. Fatti i conti, accoglieranno o meno il lascito. Un quarto abbondante del territorio – il suolo di cui offriamo il diritto, lo ius, è in mano alla criminalità mafiosa, debiti ne abbiamo a iosa. Il lavoro manca, specie se qualificato, ed intanto esportiamo cervelli e professionalità ed importiamo braccia o bocche da sfamare. La delinquenza è fortissima, e l’assassino serbo Igor il Russo disse chiaro e tondo di stare in Italia perché qui si può fare il bello ed il cattivo tempo. Lo zingaro, no il rom, anzi il nomade che ha carbonizzato tre ragazzine aveva trascorso una vacanza di soli 20 giorni in carcere, arrestato per la vicenda della rapina mortale ad una povera giovane cinese. Insomma, l’Italia di cui lasciamo le consegne non è granché. Sarà la repubblica, l’eccesso di libertà, la democrazia o la cultura di massa, ma da poveri ed ignoranti le cose andavano meglio, o meno peggio, ma sembra che non si possa dire. Era un bel posto per nascere e vivere l’Italia, avevamo le toppe ai calzoni e non ci facevamo la doccia così spesso, le ingiustizie non mancavano. Epperò, arte, bellezza, fede, un senso della vita inimitabile e diverso in ognuno dei mille campanili. Ne farete minareti, o attrazioni turistiche, o quel che vorrete: sarà casa vostra, noi vi abbiamo chiamato, invocato, cari nuovi italiani concittadini nostri. Connazionali no, questo non lo sarete, ma sono brontolii di vecchi.
Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo democratico, dirigente televisivo berlusconiano, fa un po’ di conti. Servono, dice, otto milioni di nuovi immigrati in pochi anni. Temiamo che abbia ragione, in termini contabili: la natura – ed i bilanci- hanno orrore del vuoto. Nell’immediato, chi pagherà le nostre smagrite pensioni, chi cambierà i nostri pannoloni, chi zapperà una terra tanto bassa, specie per signorine e signorini viziati in carriera? Dopo, che ci importa, la classe dirigente di oggi sarà morta, come le generazioni del boom economico e demografico. Nei testamenti, giustamente si può disporre dei propri beni, ma non indicarne l’uso. Fatene quel che volete dell’Italia, ve la consegniamo usata, e, come certe compravendite di beni di seconda mano, la formula è “vista e piaciuta nello stato in cui si trova”.
Saranno fatti vostri, ed è lo scherzo peggiore che potessimo farvi, noi, le uniche generazioni della storia disinteressate a ciò che verrà dopo. Ovvio, senza figli, cade la prospettiva, si interrompe la trasmissione, après moi le déluge, dopo di me il diluvio, come disse Luigi XV di Francia alla sua favorita, la marchesa di Pompadour. Siamo cittadini del nulla, e i posteri, che cosa hanno fatto per noi i posteri (Groucho Marx, il più credibile con quel cognome). Si arrangino, l’Italia” nostra”, munita dei conforti religiosi, sta morendo e, per prudenza, ha ricevuto i sacramenti. Dio non esiste, ma non si sa mai.
Intanto, ne sorge una nuova, l’ibridazione è in corso, l’esperimento è interessante. Eppure, lasciateci dire che era tanto bella quella di prima, sono tutte belle le mamme del mondo! Nessun figlio ha mai chiamato repubblica sua madre, e questa è una spiegazione. Dicono con sussiego che l’Italia sono la repubblica, le sue leggi, le istituzioni. Se così è, nessun dolore, nessuna lacrima o rimpianto, che l’agonia sia composta e soprattutto breve. Il timore è che gli italiani di domani ci malediranno, probabilmente in un’altra lingua, ma lo faranno, quando scopriranno che abbiamo lasciato loro solo una repubblica.
In un’altra vita, era l’Italia, e, poiché non siamo britannici, non potremo neppure lasciare un epitaffio con scritto “right or wrong, my country”: giusta o sbagliata, la mia patria.

ROBERTO PECCHIOLI