L’INFEZIONE AMERICANA. L’IMPERO DEL BENE.

 

Roberto Pecchioli

 

L’America è la nazione più manichea. Un presidente del XX secolo, Woodrow Wilson, affermò che gli Stati Uniti sono il paese più idealista del mondo. Curiosa affermazione in una terra il cui idolo è il successo misurato in dollari, ma l’americano medio è certo di vivere nell’impero del Bene. La definizione di bene è tautologica: corrisponde a ciò che l’America è e fa. Per questo gli Usa sono sempre assai sorpresi di non essere amati come ritengono di meritare in qualità di rappresentanti del bene e del miglior modello di vita, anzi dell’unico positivo, l’american way of life.

La sfera politica è ridotta a un ramo secondario della morale, l’illusoria pretesa di tradurre nella vita collettiva i precetti evangelici. Il Dio che regnava sull’Europa si è reincarnato nell’Asino che fa I-A di Nietzsche, uno strano animale a due teste, una radicata nel sogno americano e l’altra tra le nebbie dell’utopia marxista, riuniti nell’Unico a stelle e strisce dopo il 1989. L’impero del bene, terra promessa delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità unificata di cui New York è la capitale cosmopolita, seduce ma cancella l’anima.

La statua della libertà reca sul piedistallo un’iscrizione che pare il seguito delle beatitudini evangeliche, il più sconcertante messaggio di Cristo: “Recatemi i vostri poveri, i vostri infelici. Tutti coloro che vorrebbero respirare liberamente- I tristi relitti delle vostre rive sovrappopolate. –Inviatemi i senza casa, le vittime della tempesta. La mia fiaccola li guiderà sulla soglia della porta d’oro.” Un annunzio millenarista, le parole di chi si sente investito di una missione redentrice, il “destino manifesto”, ossia la convinzione che gli Stati Uniti abbiano il diritto/dovere di conquistare il mondo per diffondere la loro concezione di libertà e democrazia.

L’imperialismo Usa, iniziato negli anni Venti del XIX secolo al tempo della dottrina Monroe (l’America agli americani) è dunque “buono”, morale, ma soprattutto ovvio ed inevitabile, per la superiorità auto evidente del modo americano di concepire l’esistenza. Già nel XVII secolo William Stoughton, amministratore coloniale del Massachusetts, affermava: “Dio ha selezionato una nazione per inviare un seme scelto nel deserto”. Suprematismo e manicheismo per noi, impero del bene per loro. Il generale Patton, nel discorso ai soldati americani sbarcati in Sicilia nel 1943, ricordò l’approdo negli Usa degli emigranti europei, affermando che coloro che rimasero in patria “non ebbero il coraggio di compiere quel viaggio e per questo continuarono a vivere da schiavi”.

Più agisce la mentalità puritana della terra promessa, simile per alcuni versi all’ebraismo, più la società diventa fiorente, ma al tempo stesso tentatrice, lontana dalle origini. Già Tocqueville osservò la profonda contraddizione americana tra ideali e pratica quotidiana, l’ipocrisia profonda, la cattiva coscienza che viene superata con il trionfo di Sigmund Freud. La metafora psicanalitica è l’alleanza tra i figli per uccidere il padre. “Poi, schiacciati dal crimine e temendo che uno di loro prenda il posto del padre assassinato, stringono un contratto che sancisce legalmente la loro mutua uguaglianza basata sulla rinunzia all’autorità del padre“.  E’ l’immaginifica tesi di Geoffrey Gorer, studioso inglese che applicò la psicanalisi all’antropologia. La dichiarazione d’indipendenza e la costituzione sono i contratti con cui gli americani si garantiscono la liberà e l’uguaglianza in base alla comune rinuncia al privilegio paterno più odiato e invidiato: l’autorità.

Fecero di più: definirono come principio politico un obiettivo profondamente terreno, privo di ogni afflato comunitario, intrinsecamente soggettivo: la ricerca della felicità.  Dai due pilastri originari, gli americani traggono la convinzione che la loro è l’autentica Terra Promessa, prefigurazione della Cosmopoli futura.  Hanno la missione di esportare il modello universale del bene, la certezza che gli uomini sono tutti uguali e l’autorità è odiosa, nefasta. Non li sfiora mai il dubbio che libertà e uguaglianza siano in larga misura incompatibili. Il loro autentico padre fondatore è Jean Jacques Rousseau, ginevrino cresciuto nel clima del calvinismo.

Il concetto di frontiera, così presente nell’immaginario yankee, non è il limite tra due nazioni, ma il confine provvisorio che separa le terre colonizzate da quelle che lo saranno in futuro. Di qua il bene, la libertà, dall’altra parte non c’è un mondo “altro” dai diversi valori, altri popoli, ma il vuoto. Questo spiega il trattamento delle popolazioni native, distrutte prima con l’”acqua di fuoco”, l’alcolismo, poi ingannate attraverso la legge imposta da loro ( i trattati mai rispettati con gli indiani), infine sbrigativamente cacciate e decimate. Il bene, la civiltà, non accettano limitazioni.

La cultura americana, in particolare il cinema, ha spesso prodotto opere di denuncia. Il paradosso è che esse non scuotono mai il sistema, vengono assorbite, presentate come prove inconfutabili della bontà e liberalità del potere. E’ inconcepibile mettere in discussione l’american way of life. L’impero del bene è anche il regno del calcolo quantitativo. L’homo dollaricus è uniforme, basta che abbia, non che sia. Vale il conto in banca, poco conta in quale modo sia stato conseguito. Possedere denaro non è il segno del successo, “è” il successo, poiché il metro universale è il valore in dollari. Il potere sulle cose assicurato dalla ricchezza è moralmente ammesso, anzi perseguito, senza riguardo al destino degli uomini.

La stessa guerra d’indipendenza non nacque da un afflato di libertà politica o da un forte senso patriottico, ma dalla reazione contro il monopolio accordato alla Compagnia delle Indie sul commercio del tè. Un conservatore di ferro, Henry Adams, analizzando gli aspetti del carattere americano, concluse che “fu la ricerca del profitto e non le lezioni di religione che rese gli uomini più generosi, più tolleranti, più liberali nei rapporti con i loro simili “Singolare teoria del bene, vicina alle tesi economiche di Adam Smith.

Il biblismo sociale americano è palese anche nella simbologia delle banconote, in cui, accanto a segni massonici, compare la scritta In God we trust, noi confidiamo in Dio. Facile è il gioco di parole che sostituisce “gold” oro, a God, Dio. La propagazione del capitalismo messianico Usa ha l’effetto di spogliare la religione dei suoi dogmi, rendendola una semplice norma morale di natura pratica, una giustificazione etica della corsa al profitto. In America prosperano decine di confessioni evangeliche. Non si contano sette e correnti religiose i cui capi sono spesso predicatori televisivi divenuti ricchissimi vendendo il loro prodotto spirituale.

La visione cristiana ha giustificato le guerre americane sin dall’Ottocento. Quella dell’oppio fu presentata da John Quincy Adams, che fu presidente americano, come una giusta reazione allo “scarso spirito commerciale cinese “. Il commercio, per Adams, è fondato sul precetto evangelico di amare il prossimo come se stessi. La guerra metteva termine “a questa enorme offesa ai diritti della natura umana e al primo diritto delle nazioni”. Alcune confessioni americane presentano Gesù come un vincente executive, “l’uomo da invitare a cena a Gerusalemme”. L’influenza delle religioni è misurata con il solito criterio: l’ampiezza del bilancio, la disponibilità di budget.

E’ costante la necessità americana di fornire copertura morale alle guerre. Essi affermano di intervenire – sempre a casa d’altri – non per rivendicare territori o salvaguardare interessi, ma per difendere principi universali, ripristinando il Bene violato da uomini malvagi. Nell’ultimo trentennio, vinta la competizione con l’URSS, gli Usa hanno preso a chiamare operazioni di polizia internazionale le guerre intraprese per allargare il dominio di superpotenza, assicurarsi il controllo delle fonti energetiche e, en passant, mantenere la presa sulle nazioni europee.

La moda, il progresso, l’odiernità sono i miti più seguiti: nulla conta la personalità, non calcolabile in dollari. Vi è posto solo per l’individuo massa, misurabile, intercambiabile, manipolabile, valutabile in “bigliettoni”. L’America è spontaneamente egualitaria poiché il suo unico metro è materiale e finanziario. Conosce solo differenze quantitative, riducibili o rovesciabili se si ha successo. Poiché il denaro di ciascuno vale quanto quello di chiunque altro, adotta un unico criterio, il dollaro, cui aderiscono popolazioni diversissime, protagoniste delle ondate migratorie dai cinque continenti. Per gli americani, a differenza degli europei, la libertà nasce dall’uguaglianza e non riescono a descrivere i due termini se non come sinonimi.

La volgarità è il tratto più evidente del loro carattere, a causa dell’inesistenza di aristocrazie. Un osservatore domandò ad americani colti che cosa significasse distinzione. Non ebbe che silenzi imbarazzati o l’indicazione dello stile “sophisticated “, l’atteggiamento contraffatto, ossia lo scimmiottamento che riduce ogni distinzione alle forme esteriori, artificiose o esagerate, vuote di contenuto. Gli Usa sono “una società in cui il merito di un uomo e la sua superiorità non possono rivelarsi che sotto forma di industria e commercio; le cose migliori (per esempio le funzioni del sacerdote, del magistrato, dello scienziato, del letterato serio) sono l’inverso dello spirito industriale e commerciale, essendo primo dovere di chi vi si dedica non cercare di arricchirsi e non considerare il valore venale di ciò che fa“(Ernest Renan). Concetto incomprensibile laggiù, ma ormai anche nell’Europa americanizzata.

La volgarità si unisce all’incomprensione mista a disprezzo per la singolarità, identificata con l’esercizio di attività poco redditizie. Chi si scopre differente si stende sul lettino dell’analista. Vige un singolare conformismo individualista in cui, “ciascuno vuole la stessa cosa, tutti sono uguali; chiunque è di diverso sentimento se ne va di buon grado al manicomio” (Zarathustra). E non solo in senso figurato, giacché se l’Unione Sovietica internava i dissidenti, gli Usa liberatori gettarono per anni in manicomio il loro maggior poeta, Ezra Pound, colpevole di non condividere il sogno americano.

L’americanismo si è impadronito dell’Europa perfino nel potere straordinario dell’ordine giudiziario. Favorito dal diritto consuetudinario e dal fastidio per il principio legislatore delle costruzioni giuridiche, il tribunale è il luogo in cui si promuovono i cambiamenti sociali. Il potere più pervasivo, insieme con il denaro e le innumerevoli agenzie governative di controllo (CIA, NSA e decine di altre) è la repubblica dei giudici. L’egalitarismo morboso si arresta solo dinanzi alla diseguaglianza del portafogli. Il principio fondamentale, pilastro della teoria comportamentistica, è che se i frutti della società sono cattivi, è perché sono cresciuti in condizioni ambientali negative. Il sistema resta per definizione il migliore mai concepito, la secolarizzazione cosmopolita della Città di Dio.

La volontà tenace è quella di mettere fine alla storia; la politica consiste nell’abolire “il politico”, la cui essenza è il legittimo uso della forza in nome di un principio di autorità moralmente orientato. Il destino manifesto che l’America è certa di possedere la espone alla sorpresa quasi infantile di constatare il rifiuto del modello Usa generosamente” esportato da parte dei destinatari. Non possono comprendere il rigetto dell’impero del bene da parte di popoli intenzionati a rimanere se stessi. L’indignazione determina brevi periodi di isolazionismo e frequenti scoppi di interventismo armato. Il fine del loro contagioso universalismo è l’assorbimento dell’Altro mediante l’imposizione del modello “unico” a taglia americana.

Gli idoli adorati negli Usa sono i feticci della loro civilizzazione trasposti sulla scena del mondo. Creso era condannato a trasformare in oro tutto ciò che toccava, il destino americano è far deperire ogni civiltà che investono, sino alla dissoluzione nel modello liberal libertario globale e nella forma merce. Accolgono la specificità solo come folklore residuo, di cui organizzano il commercio turistico. Disneyland è il loro ideale. Da qualche parte hanno costruito una Venezia disanimata ad uso di visitatori frettolosi armati di macchina fotografica, una rapida visita e il riassunto storico in cinque righe. L’americanismo uccide l’anima dei popoli in quanto nasce esso stesso da un assassinio, l’oblio delle culture d’origine delle popolazioni immigrate.

Approdato in un immenso paese ricco e pressoché vuoto – chi c’era è stato sloggiato con le spicce, ucciso o confinato nelle riserve- l’americano ha la convinzione che la ricchezza sia inesauribile, una cornucopia come quella della dea Atalanta. Crede perciò al progresso indefinito, visto come accumulo di beni materiali. Poiché ama il consumo, sperpera con gioia il denaro e con indifferenza le risorse della natura, animato dall’ottimismo istintivo di chi è certo che per tutto si troverà una soluzione, che ogni cosa andrà per il meglio. L’attimo fuggente è per l’America il centro della vita, unito alla convinzione che domani sarà inevitabilmente meglio di oggi. Ciò produce indifferenza per il passato, ai suoi occhi sprovvisto di senso, muto, giacché ammettere la possibilità che ieri sia stato meglio di oggi è in contraddizione con il progresso. La stessa indifferenza è riservata al futuro, semplice successione di istanti che verranno.

Il positivista francese Auguste Comte scrisse che “l’umanità è formata più da morti che da vivi”. Non vi è affermazione più incomprensibile allo spirito americano, la cui mistica è quella dello spazio, non del tempo. Interessato ai beni e non agli uomini, mette lo spazio in prospettiva, in attesa di poterlo sfruttare. E’ il mito della frontiera. Per gli americani, soprattutto, il loro non è un paese come gli altri, ma la prefigurazione di una perfetta repubblica universale, Babilonia destinata a realizzare la felicità, ovvero l’american way of life.

La minaccia che grava sul mondo è il mondialismo attraverso l’americanizzazione del pianeta. Per l’Europa – ridotta a grottesca caricatura di se stessa-, per il Terzo e Quarto Mondo si tratta di una minaccia di morte collettiva, la fine di ogni civiltà diversa, delle differenze che danno senso alla presenza umana. Quando ancora era viva l’alternativa comunista, Jean Cau espresse una verità bruciante: “nell’ordine dei colonialismi, è prima di tutto non essendo americani oggi che non saremo russi domani. “Un appello inascoltato al tempo del progressismo alla Coca Cola, nell’Europa che, smarrita se stessa, si è incagliata nell’accoglienza acritica di tutto il male proveniente dall’impero del bene: musica, moda, lingua, adorazione del denaro, primato della tecnica, positivismo giuridico, sottocultura omosessualista, neo femminismo rancoroso, pedagogia anti autoritaria, behaviorismo, pragmatismo disincarnato, promozione della massa, pornografia, architettura disumanizzante, falsa arte.

Un infernale meccanismo di dominio che merita una riflessione a parte, nel solco della disincantata intuizione di Aléxis de Tocqueville: “un potere assoluto, particolareggiato, regolare, dolce e previdente che cerca di bloccare irrevocabilmente gli uomini all’infanzia; ha piacere che i cittadini siano contenti, che non pensino se non a essere contenti. Si adopera per la loro felicità, ma vuole essere l’unico agente e il solo arbitro”. L’impero del Bene.  2. (continua)