L’INDISPENSABILE “MATRIMONIO” TRA IL SOVRANO ED IL BANCHIERE – di Luigi Copertino

L’INDISPENSABILE “MATRIMONIO” TRA IL SOVRANO ED IL BANCHIERE

LA CONOSCENZA STORICA DEI FATTI CONTRO LA CATTIVA DIVULGAZIONE

 

Il populismo della divulgazione

Uno dei problemi maggiori nell’odierno panorama epocale è quello della qualità della divulgazione culturale. Lo scrivente si considera un mero divulgatore di cose che spaziano in un raggio di azione che va dalla spiritualità fino alla storia, passando per filosofia, diritto, politica ed economia. Nel tentativo di fare opera di buona divulgazione – per quanto mi riguarda ispirata ad una scelta di fondo che è quella cristiana ma senza cadere in beceri clericalismi – ho sempre cercato di seguire un criterio di rigore onde evitare la banalizzazione. Purtroppo capita sempre più spesso di imbattersi, al contrario, in una pessima divulgazione che, appunto, banalizza le questioni ed i problemi e, cosa ancora peggiore, da la stura, sull’onda di un chiasso mediatico assordante, all’emergere dell’incompetenza e della faciloneria. Questa cattiva divulgazione spesso proviene da personaggi o circoli che, poi, pretendono di far guerra all’establishment, alle élite, armati soltanto delle loro chiacchiere da bar dello sport.

Il peggior “populismo” è proprio quello dei cattivi divulgatori. Questi – viene a volte da pensare – svolgono la funzione degli utili idioti i quali con la loro incompetenza sostengono le élite che pur contestano. Le élite, infatti, sono costituite da circoli di gente che sa il fatto suo, gente che nei rispettivi campi è ai massimi livelli per competenza e conoscenza scientifica delle questioni. Ma che usano questa loro alta competenza per dominare, schiacciare, accentrare nelle loro mani potere e ricchezza. Chi vuole denunciare o contestare le egemoni consorterie deve pertanto studiare, prepararsi, andare a fondo dei fatti, non abbandonarsi al dilettantismo o al volgare “fakenewsismo”, spesso condito di una becera dietrologia, che, per reazione, finisce per portare acqua alle élite sfoggianti preparazione e competenza e a confronto delle quali i divulgatori “populisti” fanno sovente la figura dei poveracci. Ai quali tutto si può concedere tranne che il governo delle cose umane, se non si vuol finire in una tragedia contornata dal ridicolo

L’oro, la patria, la banca

Prendiamo, ad esempio, l’ultima polemica innescata, senza adeguati strumenti, sulla questione della proprietà delle riserve auree della Banca d’Italia.

Intorno alla Banca d’Italia si è, infatti, scatenata la febbre dell’oro. Il partitino di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, ha avanzato una proposta di legge per nazionalizzare Bankitalia. Una proposta di legge subito  appoggiata dai grillini. Nazionalizzare la Banca Centrale sarebbe cosa buona e giusta. Ma non è così facile. Ci provò già Giulio Tremonti, quando era ministro, ma senza risultati. La nazionalizzazione non fu possibile per via del fatto che la nostra Banca Centrale, insieme a tutte le altre dell’UE, fa parte oggi del sistema Europeo delle Banche Centrali come stabilito dalla normativa europea la quale, con il Trattato di Maastricht, ha sancito l’assoluta indipendenza della Banca Centrale Europea.

In margine alla proposta di Giorgia Meloni è saltata fuori la questione delle riserve auree possedute dalla Banca d’Italia, delle quali è stato chiesto l’uso da parte dello Stato per fini di finanza pubblica. Ad una interrogazione parlamentare, in tal senso, del partito di Fratelli d’Italia, il premier Giuseppe Conte ha risposto che: «La proprietà delle riserve auree nazionali è della Banca d’Italia, ente pubblico che svolge le funzioni di banca centrale della Repubblica Italiana. L’utilizzo della riserva aurea rientra tra le finalità istituzionali della Banca, a tutela del valore della moneta. Un intervento normativo volto a modificare gli assetti della proprietà aurea della Banca d’Italia, ancorché nell’ambito della discrezionalità politica del legislatore nazionale, andrebbe valutato, sul piano della compatibilità, con i principi basilari che regolano l’ordinamento del Sistema Europeo della Banche Centrali».

Analoghe precisazioni, nella trasmissione televisiva di Nicola Porro, ha fatto anche Giovanni Tria, l’attuale ministro per l’economia.

Naturalmente la replica di Conte ha scatenato le reazioni della Meloni e dei suoi che hanno parlato di “tradimento della Patria”. Tutto il dibattito politico e mediatico, in merito, è così diventato surreale tra un diffuso banalismo ed una dilagante ignoranza dei termini della questione. La bagarre è esplosa su un problema, quello della proprietà delle riserve auree, che non ha alcun senso in un’epoca nella quale la moneta non è più convertibile in oro né garantita dalle riserve auree.

Le dichiarazioni di Conte e di Tria, per le quali le riserve auree una funzione valutaria e di tutela del valore della moneta hanno poi aggiunto, nelle intelligenze comuni, confusione a confusione. Intorno ad un presunto ritorno al gold standard si sono, di recente, sollevati parecchi interrogativi. Anche su questo sito, il direttore Maurizio Blondet ha trattato, su sollecitazione di un lettore, la questione sulla base di un articolo del Sole 24Ore (1).

Lo scrivente ha già evidenziato, in una prima risposta, i motivi storici e giuridici per i quali non siamo di fronte a nessun ritorno del tallone aureo (2). La moneta non è un prodotto del mercato ed è moneta solo quella che l’Autorità politica sceglie quale mezzo di adempimento degli obblighi fiscali e di risoluzione contabile dei rapporti tra Essa ed i cittadini, con ciò inducendo in questi ultimi la necessità di approvvigionarsi dello strumento monetario accettato dal Sovrano e, di conseguenza, l’uso di quello stesso strumento nei rapporti tra di essi. Da questo nasce, storicamente, e non da presunti patti o convenzioni o contratti sociali, la “fiducia” che poi, diventa, come evidenziava Giacinto Auriti, il “potere d’acquisto” incorporato nel simbolo monetario – gli auritiani lo chiamano “valore indotto” – che consiste nella capacità legale dello strumento monetario di saldare le partite del dare e dell’avere. Sicché, sotto questo profilo, nulla importa che il simbolo, lo strumento, monetario consista materialmente in metallo prezioso o in carta o, come oggi, in un mero input informatico. Non è la materia di cui è fatto che conferisce valore ossia potere d’acquisto al simbolo monetario. Anzi, la liberazione dal tallone aureo è stata una benedizione per l’umanità, dato che la rarità dell’oro non consente alcuno sviluppo dell’economia ma ha effetti deflazionisti e di austerità.

Giuseppe Conte ha risposto correttamente de iure condito, ossia alla luce del quadro normativo vigente, in ordine alla proprietà delle riserve auree. Esse, oggi, appartengono a Bankitalia e non allo Stato italiano. Ed ha ragione anche quando ha rilevato che un provvedimento normativo nazionale, nei riguardi dei vigenti assetti proprietari, deve vedersela con la sua compatibilità o meno con le regole europee alle quali siamo attualmente soggetti. Naturalmente de iure condendo, ossia in una prospettiva di riforma delle regole nazionali ed europee, sempre che esista la forza e la volontà politica per attuarle, le cose potrebbero assumere ben altra impostazione.

Non è esatta, invece, l’altra affermazione di Conte in relazione alla funzione attuale delle riserve auree. Il fatto che recentemente le Banche Centrali abbiano aumentato le loro riserve auree, probabilmente, ha indotto Conte a rispolverare la vecchia convinzione per le quali esse servirebbe quale garanzia valutaria della moneta. Ma si tratta di una convinzione senza alcun fondamento. E’ dal 1971 che anche ufficialmente le riserve auree non servono più a garantire potere d’acquisto alla moneta. In quell’anno venne a cessare il gold exchange standard sancito nel 1944 a Bretton Woods.

Già la nostra vecchia lira, benché portasse ancora la dicitura che tradiva la sua origine storica cambiaria (“pagabili a vista al portatore”), non era più convertibile in oro da decenni. A maggior ragione, attualmente, l’euro. Chi avesse portato, dopo il 1971, mille lire in Bankitalia o chi portasse oggi cinquanta euro alla Bce, chiedendone la conversione in oro, avrebbe ottenuto, ai tempi della lira, ed otterrebbe oggi, ai tempi dell’euro, tutt’al più il cambio delle sue mille lire con altre mille lire cartacee o dei suoi cinquanta euro con altri cinquanta euro cartacei. La moneta attuale è fiat, creata ex nihilo e senza alcuna garanzia aurea o reale. Il suo valore è soltanto fiduciario. Essa circola perché imposta con il corso legale e perché è l’unico strumento legale di assolvimento degli obblighi fiscali. La moneta trova oggi garanzia esclusivamente nell’Istituzione che funge da garante di ultima istanza, ovvero, nel quadro normativo vigente, la Banca Centrale. Che per questo dovrebbe essere pubblica ma, attualmente, non lo è, se non in apparenza.

La natura giuridica della nostra Banca Centrale – la questione è identica per ogni Banca Centrale oggi esistente – è assai ambigua. Essa è sì, come ha detto il premier, “ente pubblico” ma della specie dei cosiddetti “organismi di diritto pubblico”. Questi, pur esercitando poteri pubblici, possono essere anche a capitale privato, come appunto la Banca d’Italia ed in genere tutte le Banche Centrali. Si tratta in sostanza di un “esercizio privato di pubbliche funzioni”.

La Banca d’Italia ha natura formalmente pubblica ma sostanzialmente privatistica. Essa è nata originariamente nel 1893 come ente privato ed è tornata ad esserlo dopo un secolo durante il quale era diventata pubblica. La trasformazione da privata a pubblica intervenne nel 1936, con la Legge Bancaria voluta dal fascismo. Estromesso il capitale privato, a seguito della pubblicizzazione, furono le banche ed assicurazioni pubbliche a dotare la Banca d’Italia del suo capitale costitutivo. Dieci anni prima, nel 1926, essa aveva assunto, sotto stretto controllo governativo, il monopolio dell’emissione monetaria. La moneta all’epoca, in regime di gold standard, era ritenuta garantita dalle riserve auree. Diventata pubblica la Banca d’Italia anche le riserve auree diventarono di proprietà pubblica.

Con la riforma Amato del 1993 l’intero sistema bancario nazionale fu privatizzato ed aperto al mercato internazionale, con la conseguenza che il capitale della Banca d’Italia tornò ad essere privato e perfino esposto a scalate del capitale estero laddove le banche nazionali fossero state acquisite da investitori stranieri. Come, infatti, è puntualmente accaduto. E’ vero che il capitale versato alla Banca Centrale dai “partecipanti”, come sono chiamate le banche socie che capitalizzano Bankitalia, è indisponibile, ossia vincolato per legge alla funzione per la quale è stato versato. Ed è anche vero che per la composizione e la gestione degli organi direttivi dell’Istituto di Emissione valgono regole intese ad impedire inferenze delle banche socie. Tuttavia l’esperienza storica ha insegnato che l’influsso del mercato finanziario privato nella politica delle Banche Centrali è salito in proporzione allo scemare, in nome della loro indipendenza, del controllo dello Stato su di esse.

Attualmente, pertanto, le riserve auree delle Banche Centrali non hanno alcuna funzione di garanzia e stabilità del valore della moneta ma sono soltanto investimenti che esse effettuano per immobilizzare gli utili della loro attività, ossia gli interessi che lucrano prestando denaro alle banche commerciali nella loro funzione di garanti del sistema monetario e creditizio. Un ruolo che esse esercitano, principalmente, attraverso le manovre sul tasso di sconto, ossia il tasso praticato alle banche per ottenere denaro, nella qual cosa consiste innanzitutto la politica monetaria. Con quegli utili le Banche Centrali potrebbero acquistare terre o case ma, per inveterata tradizione storica, acquistano oro ed argento.

La recente tendenza all’accumulo di oro da parte delle Banche centrali e commerciali, segnalata come si è detto da Il Sole 24Ore, è soltanto una precauzione in una fase di estrema volatilità dei titoli di Stato e di forti rischi di default degli Stati che li emettono. In altri termini si sostituiscono, nei bilanci bancari, i titoli del debito pubblico con lingotti d’oro o d’argento come collaterali, ossia come beni di una patrimonializzazione sostitutiva a scopi assicurativi, e non, dunque, quale copertura del valore della moneta legale.

I metalli preziosi nelle riserve, pur non avendo alcuna finzione di sottostante reale della moneta legale in circolazione, sono di proprietà della Banca Centrale, di fatto privatizzata, benché trattasi di beni indisponibili e, quindi, non commercializzabili. Un assurdo, certo. Ma formalmente, rebus sic stantibus, a proposito della proprietà delle riserve auree, ha ragione il premier Conte. Laddove la proposta di legge della Meloni, per la nazionalizzazione del capitale di fondazione della Banca d’Italia,  fosse approvata, il problema della proprietà dell’oro si risolverebbe automaticamente nel senso della sua pubblicizzazione. Ecco perché intorno all’oro di Bankitalia si è sollevata una tempesta in un bicchier d’acqua.

Una storia americana

Nazionalizzare il capitale della Banca d’Italia a poco servirebbe se i suoi organi direttivi, ad iniziare dal governatore, rimanessero del tutto autonomi e sciolti dal Politico ossia liberi dal controllo dell’Autorità Politica. L’esperienza ci ha insegnato che, pur nella separazione, politica monetaria e politica fiscale devono andare di pari passo ed essere concertate.

Un altro esempio di cattiva divulgazione è quella che circola sul tema dei rapporti, storici ed attuali, tra Stato e Banca Centrale.

C’è chi pretende, probabilmente influenzato da idee monetariste, essere un falso il fatto che, in Italia, prima del 1981, la Banca Centrale monetizzasse lo Stato. In realtà , la monetizzazione da parte della Banca Centrale dei bilanci pubblici era una prassi secolare in atto presso tutti gli Stati moderni. Ad eccezione, fino al 1913, degli Stati Uniti d’America dove nemmeno esisteva, per i motivi che diremo, una Banca Centrale.

Secondo la cattiva divulgazione, cui abbiamo fatto riferimento, invece, la monetizzazione da parte di Bankitalia dello Stato italiano avrebbe interessato soltanto un breve periodo e sarebbe stata di contenute quantità. Ma c’è di più. Alcuni di tali cattivi divulgatori asseriscono, più in generale, che mai le Banche Centrali avrebbero svolto funzioni di monetizzazione degli Stati sul cosiddetto mercato primario. Nessuna Banca Centrale al mondo, dunque, secondo tali tesi, avrebbe mai finanziato, in passato, direttamente il bilancio statale. In altri termini, tutta la letteratura storica, politica, giuridica ed economica in tema di rapporti tra Stato e Banca Centrale, sarebbe una barzelletta fondata su presupposti erronei, perché le Banche Centrali da sempre avrebbero acquistato titoli del debito pubblico soltanto sul mercato secondario come ogni altra banca.

In un’epoca, la nostra, nella quale sul web circola il “terrapiattismo” e si organizzano convegni per dimostrare che la terra è piatta e che solo un cattivo complotto ecclesial-galileiano-massonico ha ingannato per quattro secoli l’umanità facendo essa credere che la terra è tonda, non può meravigliare se esista anche la tesi sulla originaria indipendenza delle Banche Centrali.

Leggendo gli interventi di questi pessimi divulgatori si ha l’impressione che essi si riportano ad un’antica polemica tutta americana contro le Banche Centrali. Una polemica della quale si trova eco anche nel “jeffersonismo” di Ezra Pound. Essi, come detto, mettono in discussione il fatto che le Banche Centrali in passato abbiano finanziato lo Stato direttamente e sostengono che detto finanziamento sarebbe da sempre avvenuto soltanto attraverso il mercato ordinario. Le Banche Centrali avrebbero, dunque, indebitato lo Stato come qualsiasi banca commerciale che acquista i titoli di debito pubblico sul cosiddetto “mercato secondario”. A loro giudizio, l’esistenza stessa delle Banche Centrali, sancendo ipso facto la separazione ab origine tra politica fiscale e politica monetaria, dimostrerebbe la mancanza in re ipsa di sovranità monetaria statuale e di controllo dello Stato sulla creazione della moneta, sicché sarebbe improprio e distorsivo, in riferimento alla situazione delineatasi a partire dal decennio ’80 del XX secolo, parlare di “divorzio” tra Stato e Banca Centrale dato che, essi sostengono, in precedenza non vi sarebbe mai stato alcun “matrimonio”.

Dato che essi spesso citano gli eventi della storia bancaria americana, vediamo da vicino cosa in effetti ci racconta quella storia.

Per motivi legati alla guerra di indipendenza del 1775-76, combattuta contro l’Inghilterra, i nascenti Stati Uniti, per tutto il XIX secolo, avversarono l’idea di una “Banca Nazionale”. Nelle colonie americane, prima dell’indipendenza da Londra, la moneta di uso legale era la sterlina britannica emessa, a debito, dalla Banca di Inghilterra, la quale inoltre finanziava anche il mantenimento dell’esercito coloniale inglese. Non a caso, durante la guerra di indipendenza, le colonie emisero una loro moneta, il Continental, che tuttavia ben presto finì per svalutarsi. In una economia ancora agricola, l’eccesso di circolante, benché per fini bellici, ebbe l’effetto di aumentare il reddito disponibile per la spesa e, di conseguenza, la domanda che però non trovava una corrispondente offerta – la terra nel produrre frutti non segue il ritmo frenetico dell’emissione monetaria – provocando aumento dei prezzi e quindi svalutazione della moneta.

Negli Stati Uniti, prima del 1913, furono effettuati due tentativi per creare una Banca Nazionale.

Il primo di questi tentativi fu effettuato da Alexander Hamilton, “padre della patria” e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, appoggiato dal presidente George Washington ma avversato da Thomas Jefferson. Lo scopo cui mirava Hamilton era uno sviluppo dirigistico dell’economia americana mediante emissioni monetarie a bassi tassi di interesse. Il partito avverso alla costituzione di una Banca Nazionale era guidato da Thomas Jefferson che opponeva all’industrialismo di Alexander Hamilton la visione conservatrice di un’America rurale e arcadicamente felice. Jefferson era un latifondista del Sud e viveva della rendita del lavoro dei suoi schiavi.

La prima Banca degli Stati Uniti fu istituita, con voto del Congresso e con un decreto del presidente Washington, il 25 febbraio 1791, con un termine di scadenza ventennale. Essa fu caratterizzata da un regime di proprietà misto pubblico-privato, nel quale lo Stato era azionista di minoranza ma aveva pieni poteri di sorveglianza. La Banca rimborsò i titoli del debito pubblico emessi durante la Guerra di Indipendenza, al loro valore nominale con interessi maturati per il ritardo nei pagamenti, ed accettò i titoli di Stato di nuova emissione. Questi furono accettati come contropartita per l’emissione, a debito, di nuove banconote che divennero il principale mezzo di pagamento a corso forzoso per tutto il Paese. Veniva, in altri termini, perseguita una politica espansionistica del corso forzoso mediante l’emissione di banconote  federali allo scopo di monetizzare il debito pubblico nazionale. In tal modo venne incrementata l’offerta di moneta. L’operazione era evidentemente mossa anche da scopi speculativi, alla stregua di qualsiasi  banca, tanto è vero che  Hamilton si accordò con il governo federale affinché quest’ultimo acquistasse azioni della Banca, per 2 milioni di dollari, tramite capitale prestato a breve termine dalla Banca stessa. Tuttavia, Hamilton perseguiva anche scopi di altra natura perché intendeva guidare gli Stati Uniti verso un vero e proprio nazionalismo economico. Fu estinto il pesante debito ereditato dalla Guerra d’Indipendenza e stabilizzato il prezzo dei titoli governativi. Nacque, con la Banca, un sistema di gestione e controllo dell’indebitamento. Tutto questo fece in modo che il potere del Governo centrale si imponesse sull’autonomia degli Stati confederati e si consolidasse la prassi del credito federale. Hamilton, in tal modo, riuscì a realizzare il suo programma politico federalista, contro i confederalisti alla Jefferson, ponendo le basi per un Governo federale realmente operativo.

La creazione di una unica moneta legale, assicurata dalla fondazione della Banca hamiltoniana, stabilizzò il sistema creditizio della giovane nazione. Ma il fine principale della stabilizzazione monetaria era quello della pianificazione dello sviluppo industriale mediante l’erogazione al governo e ai privati del credito necessario a sostenere gli investimenti di un vasto programma di opere pubbliche infrastrutturali, quali strade, porti, viadotti, canali navigabili, con lo scopo di favorire il riassorbimento della disoccupazione e promuovere il decollo economico del Paese. Se oggi gli Stati Uniti sono l’incarnazione del liberismo, in realtà Essi devono la propria attuale potenza economica al dirigismo protezionistico di Hamilton. Il modello della sua banca era, senza dubbio, la Banca d’Inghilterra, nemica storica degli Stati Uniti, ma diversamente da questa, la Prima Banca americana ebbe il compito statutario di sostenere lo sviluppo economico e la realizzazione di infrastrutture, come anche di svolgere altre funzioni strategiche quali il deposito delle entrate fiscali ed i prestiti a breve termine per coprire fabbisogni finanziari del governo. Furono anche stabilite alcune condizioni di garanzia ad iniziare, come detto, dal mandato a termine per la durata di 22 anni, dal 1791 al 1811 – al termine del quale il Congresso avrebbe dovuto decidere se concedere o meno il rinnovo della concessione –, la limitazione dell’emissione delle banconote, la limitazione della sottoscrizione di debiti per un valore non superiore alla sua capitalizzazione, la privazione del diritto di voto alle azioni acquistate da non americani, forti poteri di controllo da parte del  Segretario del Tesoro.

Hamilton, federalista, si scontrò con la forte opposizione dei suoi nemici politici confederalisti, rappresentanti del ceto agrario ostile al suo nazionalismo economico, capeggiati da James Madison e Thomas Jefferson. Quest’ultimo era Segretario di Stato ed era convinto, nella sua ideologia ruralista, che la Banca operasse nell’esclusivo interesse dei banchieri ed a discapito dei cittadini. Insieme ai rappresentanti degli stati del sud, Jefferson e Madison rivendicarono la libertà localista contro il potere pubblico federale di battere moneta. Essi erano convinti che l’accentramento del potere di emissione monetaria favorisse gli interessi economici degli Stati del  nord a spese del sud agricolo e delle sue banche locali – erano già evidenti tutti i contrasti che meno di un secolo più tardi avrebbero portato alla Guerra di Secessione del 1861-65 – e che violasse i diritti della proprietà privata e il potere del Senato di regolare pesi e misure della moneta metallica. Jefferson era un avversario della moneta cartacea e degli altri strumenti finanziari e titoli di credito.

Alla scadenza della concessione, nel 1811, il mandato non fu rinnovato e la Prima Banca degli Stati Unitì cessò l’attività. Il regime di anarchia che ne conseguì, con l’emissione monetaria esercitata da qualsiasi privato, rese necessario un secondo tentativo di costituire una Banca Nazionale.

La Seconda Banca degli Stati Uniti fu istituita, con le stesse finalità e limitazione della Prima, nel 1816. Anch’essa con un mandato a tempo ventennale. Nel 1836, giunta a scadenza, sotto la presidenza di Andrew Jackson, la concessione non venne rinnovata ponendo fine, momentaneamente, ad ogni altra ipotesi di costituire negli Stati Uniti una Banca Centrale.

Il presidente Jackson era arrivato al potere sostenuto dal ceto dei piccoli farmer dell’Ovest che, in alleanza con gli agrari latifondisti del Sud, costituivano la base sociale del Partito Democratico-Repubblicano successivamente trasformatosi in Partito Democratico, quando l’ala repubblicana confluì, insieme agli antichi federalisti, nel partito Repubblicano. La base sociale che sosteneva Jackson era “populista” ed nemica dell’élite finanziaria e modernizzatrice degli Stati del Nord.

Per questo Jackson sentiva quale proprio dovere politico non rinnovare la concessione della Seconda Banca e da quel momento, per settant’anni, gli Stati Uniti non ebbero una Banca Centrale. Fu, quello, il periodo del cosiddetto “free banking”. Non si pensi, però, che in questo periodo la moneta fosse emessa dallo Stato. L’emendamento costituzionale, difeso a suo tempo da Jefferson, attribuiva al Congresso ogni competenza sui pesi e le misure, compresa la pesatura e la misurazione della moneta. Ma il dinamismo di un’economia in forte fase di espansione aveva sostituito nella prassi quotidiana la banconota al dollaro aureo o d’argento, che spesso compare nella filmografia western. L’emissione monetaria diventò pertanto appannaggio delle banche commerciali. “Libertà bancaria”, “free banking”, significa proprio questo: ciascuno è libero di emettere moneta. Ma, posta questa premessa, è del pari evidente che di questa libertà approfittarono in esclusiva, date le loro competenze professionali, le banche. Il “free banking” consentì ad ogni banca di emettere liberamente sul mercato le sue banconote, la sua moneta cartacea, ossia le sue promesse di pagamento presumibilmente garantite dalle riserve auree, o argentee. Le diverse monete, secondo il paradigma liberista, avrebbero dovuto acquisire valore in base al gioco della domanda e dell’offerta, apprezzandosi o svalutandosi a seconda della fiducia risposta nella banca di emissione, ma, in realtà, l’apprezzamento o la svalutazione avvenivano in virtù delle manovre speculative che innalzavano le quotazioni di una banca abbassando quelle delle concorrenti.

Tutti noi abbiamo una idea del “free banking” attraverso i film western. In essi spesso compare la banca del villaggio di frontiera, puntualmente rapinata, nei cui forzieri i banditi rinvengono non solo i certificati di promesse di pagamento, ossia le banconote di quella banca, ma anche oro ed argento, che per il paradigma aureo del tempo serviva a conferire valore alle banconote di emissione bancaria.

Il periodo del “free banking”, nella narrativa edulcorata delle scuole economiche classiche e neoclassiche, è una sorta di “età dell’oro”. Ad esso si richiamano sia la Scuola Austriaca sia il Monetarismo ma anche la loro versione radicale ovvero l’Anarco-liberismo o Anarco-Capitalismo. Non a caso gli autori che promuovono concezioni monetarie quantitavistiche e mercantiliste hanno sempre portato ad esempio la libertà monetaria del XIX secolo americano. Tra essi ritroviamo Friedrich von Hayek, massimo esponente della Scuola Austriaca, Pascal Salin, esponente della Scuola Austriaca filosoficamente libertario nonché esponente della Mont Pelerin Society, David Friedman, anarco-liberista e figlio di Milton Friedman, Murray N. Rothbard, contrattualista filosofico e principale teorico dell’anarco-capitalismo, Hans-Hermann Hoppe, economista della Scuola Austriaca e filosofo anarco-capitalista, Ron Paul, politico americano della destra repubblicana.

La storia, tuttavia, ci dice che il periodo del “free banking” non fu affatto una arcadia felice, come la dipingono “austriaci”, libertari, liberisti ed anarco-capitalisti, ma al contrario un’età di forte instabilità finanziaria durante la quale gli Stati Uniti furono afflitti da ripetuti “bank panic” con la gente che correva a ritirare il denaro depositato agli sportelli delle banche fallite prima che le loro riserve auree si esaurissero lasciando i ritardatari a bocca asciutta. Bank panic si registrarono nel 1837, nel 1873, nel 1893. Ma fu quello del 1907 a convincere della necessità di una svolta verso la  definitiva istituzione di una Banca centrale.

Accadde che, in assenza di un garante di ultima istanza, l’ennesima crisi di fiducia, alla quale pare abbia contribuito anche il tremendo terremoto di San Francisco nel 1906, paralizzò il sistema di compensazione inter-bancario, auto-gestito dai banchieri privati, che si era formato, nel corso dei decenni della libertà bancaria, onde consentire lo sconto delle banconote-cambiali tra le banche emittenti “libere e private”. Il sistema funzionava attraverso una stanza di compensazione, istituita dalle stesse banche, nella quale i titoli e gli effetti monetari venivano scambiati in modo che ciascuna banca accettasse anche le valute emesse dalle altre banche nella certezza che poteva scontarle a sua volta presso la stanza di compensazione inter-bancaria.

Il fallimento di un tentativo di speculazione sul prezzo delle azioni della “United Copper Company”, nel quale erano coinvolte le maggiori banche americane dell’epoca, provocò una corsa agli sportelli da parte del pubblico. Il fallimento dell’operazione speculativa aveva fatto prendere coscienza al pubblico che la scalata borsistica era avvenuta “allo scoperto” ossia senza che le banche detenessero l’effettivo ammontare di denaro investito nell’operazione. L’obbligo della riserva aurea non consentiva, sotto sanzione penale, di stampare moneta oltre l’ammontare delle riserve ed anche se tale obbligo era spesso violato tacitamente non si poteva farlo oltre una certa misura per non far emergere la violazione. Sicché per tentare la scalata alla “United Copper Company” le banche avevano agito allo scoperto. Da qui la crisi di fiducia, quando la gente comprese che i forzieri delle banche non erano affatto così liquidi come essa immaginava.

Il governo americano, che non aveva poteri di emissione monetaria – l’ultimo periodo che aveva esercitato tale potere fu quello della presidenza di Abram Lincoln quando furono emessi i “green backs” per finanziare la guerra di secessione – tentò di arginare la crisi chiamando in causa il più importante banchiere dell’epoca ossia J.P. Morgan. Costui impegnò grandi somme personali e convocò tutti i banchieri sulla piazza convincendoli a mettere sul mercato tutta la liquidità disponibile, compresa quella personale, onde frenare la crisi di sfiducia. Ma questa, pur in parte contenuta, continuò con gravi ripercussioni.

Passato il peggio, negli Stati Uniti si aprì un dibattito sulla necessità di dotarsi di una Banca Centrale, come già esistevano in Europa, che svolgesse funzioni di garante di ultima istanza e gestisse l’emissione monetaria sottraendola alle banche ordinarie. Fu costituita una commissione governativa che si recò oltreoceano per studiare il sistema inglese e tedesco. Nel 1910, presso il “Jekyll Island Club”, al largo della costa della Georgia, si svolse una riunione segreta tra i maggiori banchieri e le autorità governative per pianificare la creazione di una Banca Centrale degli Stati Uniti d’America. Si trattava di non allarmare l’opinione pubblica che, come detto, era sospettosa sin dai tempi della guerra di indipendenza verso l’idea di una Banca Centrale. La relazione della  commissione fu pubblicata nel 1911 e dopo due anni di dibattito nel 1913 il Congresso votò il Federal Reserve Act, immediatamente firmato dal presidente che era all’epoca il democratico Woodrow Wilson. Nacque così il Sistema delle Riserva Federale (Fed) ossia la Banca Centrale degli Stati Uniti, benché essa iniziò ad operare solo nel 1916.

La Fed, si noti, non assunse il nome di Banca Centrale per evitare eccessive ripercussioni presso l’opinione pubblica. Tra gli emendamenti alla Costituzione Americana – gli “emendamenti” sono dichiarazioni di principio basilari allo stesso impianto giuridico costituzionale – vi è, come detto, anche quello per il quale la moneta e le unità di misura sono di competenza esclusiva del Congresso. Un emendamento che, quando fu formulato, era espressione dell’avversione maturata dai coloni americani contro la Banca di Inghilterra, finanziatrice del potere coloniale della Corona inglese, e, per estensione, contro ogni ipotesi di costituire nel nuovo “libero” Stato una Banca Centrale considerata sempre e comunque il covo degli speculatori, uno strumento per indebitare il popolo sovrano che aveva appena conquistato la sua libertà. Esiste, per questo, una ampia letteratura statunitense di eredità jeffersoniana, generalmente conservatrice, che considera la creazione, nel 1913, della Federal Reserve un vero e proprio “tradimento” della Costituzione e della volontà popolare. Da americano, esperto ed addentro alla storia del suo Paese, quando scrisse nel 1935 il suo “Jefferson e Mussolini”, Ezra Pound azzardò un paragone tra il costituente americano ed il dittatore italiano che, in verità, non sta in piedi alla riprova storica dei fatti (3).

La Fed è attualmente la più grande Banca Centrale al mondo. Privata, come tutte le altre. A differenza ad esempio di quelle europee, tra cui la Banca d’Italia, essa nella sua storia non ha mai subito procedimenti di pubblicizzazione o nazionalizzazione, essendo sempre rimasta espressione del club bancario. I suoi critici imputano ad essa una serie di errori storici, tipici dell’inesperienza, compreso quello di persistere in una politica monetaria restrittiva quando nel 1929 esplose devastante la più grande crisi finanziaria del secolo scorso. La crisi del 1929, in effetti, fu amplificata dall’errore di valutazione del Board della Fed dell’epoca, ancora imbevuto di concezione monetarie classiche che lo portarono a considerare, in piena crisi da deflazione, l’emissione monetaria un fattore inflattivo. I critici monetaristi ed i nostalgici della copertura aurea, incuranti del fatto che l’errore del 1929 fu determinato proprio da un errato paradigma scientifico, accusano la Fed di essere un “grande falsario” che stampa moneta non garantita da oro e quindi di provocare inflazione. Si tratta di polemiche conservatrici e liberiste, prive di fondamento scientifico perché trascurano la visuale dal lato della domanda e non comprendono che la sola offerta, e quindi le politiche di austerità per mantenere costanti i prezzi, alla lunga finiscono in recessione e depressione.

Se, in effetti, la separazione della politica fiscale da quella monetaria, per quanto riguarda gli tati Uniti, risale proprio alla fondazione della Fed americana, nel 1913, a seguito del bank panic del 1907, è tuttavia evidente che in precedenza entrambe le politiche non fossero affatto nelle mani dello Stato, che invece, come abbiamo visto, non emetteva moneta, in forma di banconota, ossia nelle forma all’epoca più dinamica e moderna e di maggior quantità, in quanto al suo posto lo facevano le banche commerciali. Successivamente tale separazione è stata perfezionata, in conseguenza della crisi del 1929, dalla ulteriore separazione tra mercato primario e secondario del debito pubblico ma, nel frattempo, la creazione della Fed si era compreso che il settore bancario doveva coordinarsi con lo Stato nell’esercizio della politica monetaria. Negli Stati Uniti la monetizzazione del fabbisogno statuale da parte della Banca Centrale fece la sua prima timida comparsa con i due tentativi ottocenteschi di fondare una Banca degli Stati Uniti ma, poi, diventò prassi prevalente con la nascita della Fed. Se proprio, pertanto, non si vuol parlare, per questa esperienza storica, di “matrimonio” tra Stato e Banca Centrale, certo è che si può parlare comunque di un “fidanzamento” necessitato dai fatti e dagli eventi nefasti conseguenti al “free banking”.

La storia americana è in qualche modo paradigmatica di quella degli altri Stati occidentali benché essa abbia seguito via diverse. In ogni caso laddove esiste una Banca Centrale esiste certamente una separazione tra politica fiscale e politica monetaria ma anche una coordinazione. Poi si tratta di capire quali relazioni governano gli attori di dette politiche, ossia lo Stato e la Banca Centrale e se quindi la relazione è biunivoca o univoca ed in tal ultimo caso se a favore dello Stato o della Banca..

Mercato primario e mercato secondario. Un passaggio storico di non lieve peso.

In effetti – la cosa è del tutto nota a chi conosce bene la materia trattata – in tutti gli Stati industriali avanzati, almeno fino agli anni ’80 che segnarono il momentaneo trionfo del monetarismo, la Banca Centrale era tenuta, a seconda dei casi, per prassi o per gentlemen’s agreement con il Governo oppure per obbligo normativo, ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti sul “mercato primario”. La Banca Centrale non li acquistava in prima battuta direttamente dallo Stato, come pure si sarebbe potuto e qualche volta si è fatto, ma certamente in una fase di prima emissione.

Quello primario era il mercato al quale avevano accesso soltanto istituti bancari ed operatori selezionati ed accreditati dallo Stato e nel quale, un tempo, i titoli governativi venivano messi all’asta ad un tasso di interesse, prefissato ed inderogabile, stabilito dal Ministero del Tesoro. La Banca Centrale monetizzava direttamente lo Stato intervenendo, in via sussidiaria, sul mercato primario in caso di mancanza di acquirenti. I quali, però, per quanto riguardava l’Italia, erano costituiti da banche ordinarie che, secondo la classificazione della Legge Bancaria del 1936, erano “pubbliche” o di “interesse nazionale” e quindi avevano, in qualche modo, il vincolo giuridico di contribuire alla conservazione di un regime di sostenibilità e di equilibrio politico del debito pubblico. Pertanto difficilmente esse potevano ricusare l’acquisto, nelle aste, dei titoli messi in vendita, sul mercato primario, al tasso politico prefissato dal governo, anche se basso e non altamente redditizio. In ogni caso, laddove esse avessero rifiutato l’acquisto dei titoli del debito pubblico, lo Stato poteva sempre contare sulla Banca Centrale, obbligata ad acquistare l’invenduto al tasso politico prestabilito. Questa prassi era da sola sufficiente a calmierare le pretese, in genere esose, del mercato riguardo il tasso di interesse.

Del resto, prima degli anni ’80, anche il mercato secondario – ossia il mercato nel quale, dopo l’emissione sul primario, i titoli di Stato venivano, ed oggi vengono in esclusiva, commercializzati su larga scala tra tutti gli operatori pubblici e privati e non soltanto tra operatori accreditati –, era costituito da acquirenti interni ossia cittadini, imprese nazionali e risparmiatori. Non già, dunque, da hedge funds ed altri fondi di investimento globali, come avviene oggi. Sicché lo Stato, prima della globalizzazione dei mercati, offrendo i suoi titoli sul mercato secondario svolgeva un ruolo di mobilizzatore del risparmio nazionale onde dirigerlo verso scopi di pubblica o di sociale utilità, remunerando i risparmiatori in modo equo ma senza esporsi al vincolo esterno del mercato internazionale e, quindi, alle fluttuazioni ed oscillazioni, in genere ad altissima frequenza, del tasso di interesse reale. In tal modo il debito pubblico, anche quello contratto sul mercato secondario, rimaneva un fatto intra-nazionale, una partita di giro tra lo Stato ed i suoi cittadini, ed era pertanto del tutto gestibile e sostenibile. Non diventava un vincolo esterno e quindi, alla stregua di quanto accade oggi, un vulnus alla sovranità nazionale ossia un fattore di dipendenza finanziaria dall’estero.

La tesi per la quale il “divorzio” tra gli Stati e le Banche Centrali non sarebbe mai avvenuto, per il fatto che mai, in precedenza, sarebbe stato celebrato il “matrimonio”, sicché gli Istituti di Emissione non avrebbero mai monetizzato direttamente il bilancio statale, avendo invece sempre agito soltanto come una qualsiasi banca mediante l’acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato secondario, è  storicamente insostenibile, anche nei riguardi della storia dei rapporti tra Stato e Banca Centrale in Europa ed in Italia..

La vera differenza tra quanto accadeva in passato in tutto l’Occidente – in Italia prima del 1981 – e quanto accade ora, sta soltanto nel fatto che attualmente la Banca Centrale non ha più l’obbligo di acquistare sul mercato primario ciò che rimane invenduto, sicché essa ormai acquista i bond statali, in concorrenza con le banche ordinarie ossia ai tassi correnti di mercato, direttamente sul mercato secondario, oltretutto ora globalizzato. Anzi, lo stesso mercato primario non esiste più, essendo venuta meno la sua ragion d’essere. Non c’è più alcuna vera differenza tra primario e secondario. Esiste soltanto un unico mercato ordinario del debito pubblico.

L’unificazione del mercato del debito pubblico non ha, però, tolto alla Banca Centrale il suo potere di intervento laddove essa decidesse di attuarlo o fosse necessario attuarlo. A differenza delle banche commerciali ordinarie, solo la Banca Centrale ha il potere di creare moneta legale ex nihilo. Attenzione: moneta legale, non moneta bancaria! Questo potere la rende indifferente ai problemi di quadratura del bilancio, laddove invece le banche ordinarie, pur potendo anch’esse creare moneta bancaria ex nihilo, come fanno ogni qual volta accendono un prestito, per la copertura reale, ossia in moneta legale, della moneta bancaria da esse creata, dipendono dalle riserve, dove esistono o siano obbligatorie, o dalla stessa Banca Centrale che ha l’obbligo di sovvenirle erogando ad esse, all’occorrenza, la valuta legale della quale abbisognano.

Il potere di creare moneta legale ex nihilo consente alla Banca Centrale di intervenire teoricamente senza limiti sul mercato del debito pubblico e quindi, acquistando a prezzo contenuto i titoli del debito pubblico, di far scendere i tassi di interesse praticati dal mercato. E’, questa, la tecnica del “quantitative easing”, o “alleggerimento quantitativo”, usata a partire dal 2012 dalla BCE guidata da Mario Draghi onde impedire la deflagrazione dell’euro. La BCE, venendo in soccorso dei titoli del debito pubblico degli Stati in difficoltà perché aggrediti dalla speculazione, causata dalla sfiducia, più o meno motivata o magari indotta, dei mercati e sottoposti, per rifinanziarsi, a tassi di livello insostenibile, ha momentaneamente salvato la moneta unica europea. Ma non ha risolto le cause profonde della crisi di un sistema europeo che non funziona e che prima o poi deflagrerà da solo, a meno che non ritrovi la strada del Politico.

L’acquisto da parte della Banca Centrale dei titoli di Stato invenduti sul mercato primario, pur garantendo al Governo il contenimento del tasso di interesse su livelli bassi, costituiva comunque, senza dubbio, una forma di indebitamento dello Stato. Ma verso la Banca Centrale e non verso i mercati finanziari. Ecco perché laddove la Banca Centrale era pubblica, come in Italia tra il 1936 e il decennio  ’80, il debito pubblico assumeva un carattere soltanto fittizio. Era cioè il debito che un organo dello Stato, il governo, contraeva, in una sorta di partita di giro, con un ente pubblico ossia un ente parte della struttura istituzionale dello Stato stesso.

Sotto il mero profilo contabile, accadeva che formalmente fosse la Banca ad indebitarsi con lo Stato, per via della inveterata prassi per la quale la moneta da essa emessa, in forma di cambiale, ma priva di copertura aurea, veniva iscritta al passivo del suo bilancio, e che contemporaneamente lo Stato vendendo alla Banca Centrale i titoli del debito pubblico, anch’essi iscritti nelle passività del bilancio statale, si indebitasse con essa. In altri termini l’emissione di moneta apriva un passivo sul bilancio della Banca Centrale al quale corrispondeva l’attivo dei titoli del debito pubblico acquistati e, viceversa, l’emissione di titoli di Stato apriva sul bilancio dello Stato un passivo cui corrispondeva l’attivo della moneta legale creata dalla Banca Centrale. Questo meccanismo faceva sì che, in regime a capitale pubblico della Banca Centrale, la coincidenza tra creditore e debitore estingueva giuridicamente, o perlomeno rendeva fittizio, il debito nascente dal rapporto reciprocamente creditizio che sorgeva tra Stato e Banca Centrale. Certamente la Banca Centrale lucrava un interesse sulla sua passività monetaria, il che a ben pensarci è un assurdo giuridico, ma il  tasso praticato restava basso con la conseguenza che, con tale garanzia alle spalle, lo Stato poteva permettersi di rivolgersi al mercato stabilendo esso, e non gli operatori finanziari, a quale tasso di interesse vendere i propri titoli. Va notato, ci torneremo, che, proprio perché lucrare un interesse su una passività è un assurdo giuridico, laddove un giorno si ristabilisse il “matrimonio” vigente un tempo, si dovrebbe sancire l’obbligo per la Banca Centrale di praticare il tasso zero, ossia nessun tasso, sulla moneta emessa a favore dello Stato.

Stato e Banca Centrale in Italia. Dalla lira all’euro: la graduale marginalizzazione dello Stato.

Con la privatizzazione di fatto della Banca d’Italia, negli anni ’90 del XX secolo, lo scenario, che in precedenza aveva contraddistinto i rapporti tra Stato e Banca Centrale, cambiò completamente a tutto vantaggio del mercato ed a tutto svantaggio dello Stato. Da quel momento, venuto progressivamente meno il supporto della Banca Centrale, lo Stato fu costretto a rivolgersi soltanto al mercato finanziario con la conseguenza di non poter fissare esso il tasso di interesse ma di subire gli andamenti di mercato e, quindi, potenzialmente ritrovarsi in una situazione di strangolamento o di fallimento. Da quel momento le entrate fiscali sono state in gran parte devolute al cosiddetto “servizio del debito” ossia al pagamento degli interessi, ora reali, sul debito pubblico contratto con il mercato.

Alla cessazione della monetizzazione da parte della Banca d’Italia si giunse sulla base di una convinzione  errata dal punto di vista storico ed economico. Si ritenne che tale prassi fosse all’origine dell’inflazione la quale, per tutto il dopoguerra ma in particolare a decorrere dagli anni ’70, ebbe un andamento crescente. La tendenza inflattiva era dovuta all’aumento della domanda quale conseguenza dell’aumentato benessere della popolazione sostenuto dalla spesa pubblica. Una tendenza che restò comunque sotto controllo almeno fino agli anni ’70 quando essa ebbe una improvvisa impennata dovuta alle conseguenze del rincaro sul mercato internazionale del greggio quale effetto collaterale delle guerre arabo-israeliane nel Vicino Oriente. Si trattava, dunque, di inflazione da costi, non di inflazione monetaria. Ma la responsabilità fu addebitata all’eccesso di Stato Sociale e, mentre le forze politiche popolari iniziava a perdere terreno, prese sempre più piede un liberismo di ritorno sull’onda del monetarismo di Milton Friedman. Prevalse l’idea che bisognava abbassare i salari ed ridurre quanto più possibile la spesa pubblica.

Il principale strumento a questo scopo fu individuato nel privare lo Stato della sua principale fonte di finanziamento, ossia la monetizzazione del bilancio pubblico da parte della Banca Centrale. Il percorso verso la cosiddetta indipendenza della Banche Centrali fu comune, in quel periodo, a tutto l’Occidente e, per quanto riguarda l’Europa, fu la via che più tardi avrebbe portato all’impostazione ordoliberista dell’Unione Monetaria Europea.

In Italia il “divorzio” fu attuato nel 1981, mediante un semplice scambio epistolare tra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente della sinistra democristiana tecnocratica, quella che con De Mita dialogava con la “Repubblica” di Eugenio Scalfari, intenta a perseguire una politica anti-popolare, ed il governatore della Banca d’Italia dell’epoca Carlo Azeglio Ciampi, esponente del cosiddetto partito d’azione ossia del partito espressione della massoneria di matrice laico-risorgimentale. Essi poterono agire senza delibera parlamentare perché, decaduta in gran parte la normativa di epoca fascista, non sussisteva più alcuna chiara norma che obbligasse la Banca d’Italia ad intervenire sul mercato primario e, tuttavia, la prassi dell’intervento non era mai stata abbandonata.

Attuato il divorzio, immediatamente, nel volgere di una decina d’anni, il debito pubblico schizzò alle stelle a causa degli alti interessi reali pagati dallo Stato ai mercati. Segno che, in precedenza, non erano proprio marginali le quantità di titoli di Stato acquistati dalla Banca d’Italia, come sostengono i divulgatori maldestri.

Sul sito della Banca d’Italia è presente una interessante ricostruzione storica della genesi e della vita dell’istituto. Essa nacque, come detto, nel 1893 ma assunse il monopolio dell’emissione monetaria soltanto nel 1936. In precedenza l’emissione era appannaggio di alcune banche private: la Banca Romana, il Banco di Napoli, la Banca Toscana, la Banca Nazionale del Regno ed il Banco di Sicilia. Detti istituti emettevano moneta a corso legale su “concessione” dello Stato. Il quale quindi, all’epoca, non aveva una sua Banca Centrale ed emetteva moneta mediante l’appalto dell’emissione al sistema bancario privato. Le banche emittenti, tuttavia, dovevano far parte obbligatoriamente del Consorzio degli istituti di Emissione.

Nel 1888, durante il primo governo di Francesco Crispi, ex garibaldino diventato deputato della destra liberale, scoppiò il cosiddetto scandalo della Banca Romana (4) .

Fu accertato che questa banca, con ampie complicità governative, tra cui quelle dello stesso Crispi, ma in violazione della legge, aveva emesso moneta cartacea in misura superiore ai depositi aurei – allora vigeva il gold standard nella illusoria convinzione che fossero le riserve auree a garantire il valore della moneta circolante – con ammanchi nei suoi bilanci pari alla cifra di nove milioni di lire, che era per l’epoca una somma stratosferica. Emettere cartamoneta in misura superiore alle riserve auree era una prassi di uso comune anche se le leggi dell’epoca la vietavano. L’impossibilità di stabilire un criterio sicuro di proporzionamento della cartamoneta all’oro di riserva e, soprattutto, la spinta di fatto dell’economia che chiedeva maggior liquidità, induceva, nella segreta ma tollerante compiacenza governativa, ad un comportamento per quel tempo illegale che tutti facevano finta di ignorare perché necessario. Poteva, però, capitare, come nel caso della Banca Romana, che le rivalità politiche facessero emergere tale vietato comportamento allo scopo di colpire gli avversari di partito. A beneficiare delle emissioni irregolari della Banca Romana furono molti parlamentari, dignitari di corte, industriali, ex eroi del Risorgimento, massoni di alto rango ed anche prelati curiali. Insomma il solito giro degli amici. Gli amministratori della Banca Romana, il  governatore Bernardo Tanlongo ed il direttore Michele Lazzaroni, furono arrestati. Le loro confessioni aprirono la via allo scandalo che coinvolse il fior fiore dei circoli finanziari e governativi. Tuttavia, more solito, il processo del 1894 si chiuse con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Lo scandalo fu l’occasione per avviare, con la Legge bancaria del 10 agosto 1893 n. 449, il riordino dell’intero sistema bancario nazionale. Si decise di fondare la Banca d’Italia mediante la fusione degli Istituti di Emissione precedenti, compresa la Banca Romana. La Banca d’Italia nasceva quindi, per fusione, quale istituto a capitale privato senza alcun monopolio dell’emissione che avrebbe condiviso, fino al 1926, in regime di concessione amministrativa, con il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia, i quali avevano conservato il privilegio anche dopo il riordino.

«Nel 1906 … – si legge sul sito della Banca d’Italia – si affermò  … definitivamente la sua funzione di banchiere e quindi di consulente del Governo, ruolo che andava ad aggiungersi a quello precedente di tesoriere.  (…). Nel 1907 la Banca d’Italia intervenne efficacemente  per arginare una grave crisi finanziaria, stabilendo la propria funzione di prestatore di ultima istanza (…). Cominciò ad avvertirsi l’opportunità di una funzione di controllo sulle aziende bancarie. Alla vigilia della prima guerra mondiale  la Banca d’Italia  rivestiva una posizione centrale … per il concorso fornito al Tesoro nella gestione del debito pubblico. Nel corso della prima guerra mondiale la Banca sovvenne largamente il Tesoro con il credito diretto …».

Quindi la prassi della monetizzazione da parte della Banca d’Italia verso lo Stato risale quantomeno ai primi anni del XX secolo. Del resto la monetizzazione, a debito, del fabbisogno pubblico è stata la ragione stessa di fondazione delle “Banche Nazionali”, sin dal 1694 anno della fondazione della Banca di Inghilterra che, infatti, nacque proprio per prestare, ad interesse, e quindi indebitare, la Corona. D’altro canto, l’indebitamento dell’Autorità politica da parte della finanza privata era costume molto antico, risalente alla notte dei tempi e noto già in epoca classica. Nel medioevo Papi e Imperatori si finanziavano presso le dinastie familiari bancarie, del tempo, quelle dei Medici, dei Fugger, dei Peruzzi, degli Spannocchi.

Ricordiamo, qui, la realtà storica del patto stretto da sempre tra Sovrano e Banca giusto per disincantare le “romantiche” convinzioni, storicamente infondate, che circolano presso tradizionalisti, di varia scuola, per i quali, prima del 1694, in una Societas Christiana presuntivamente armonica, vigeva, da tutti rispettata, anche in campo monetario la “legge naturale e divina”. In realtà, nella Cristianità premoderna, il prestito ad interesse, vietato dalla Chiesa e dai sommi Dottori di Teologia, come l’Aquinate, veniva tranquillamente praticato per la forza stessa delle esigenze economiche, benché camuffato sotto mille espedienti. Il che almeno denota la capacità della Chiesa di provocare, con i suoi interdetti, un effetto di contenimento etico delle pulsioni speculative e finanziarie.

«Contro ogni vulgata,  – è stato osservato – Stato e mercato sono inestricabilmente connessi proprio nella nascita del mercato finanziario. A differenza di ogni altro mercato, che può chiedere allo Stato di fornirgli il quadro normativo in cui far operare i suoi partecipanti, ma che può, proprio per questo, chiedergli di non fare nient’altro, il mercato finanziario è l’unico mercato che non può esistere senza che lo Stato non continui a presidiarlo, e per di più nella forma ambigua di un controllore che è anche debitore, e, al contempo, di un sovvenzionatore che dipende dai suoi sovvenzionati» (5).

Nel quadro della politica deflazionista del primo governo fascista, ossessionato per motivi di prestigio politico dalla “quota ‘90”, con il Regio-Decreto Legge n. 812 del 6 maggio 1926 (all’epoca i decreti legge avevano forza di legge senza necessità di ratifica parlamentare) la Banca d’Italia, ancora banca privata, acquisisce il monopolio dell’emissione monetaria, che da quel momento è vietato agli altri Istituti bancari. La svolta, quella vera, tuttavia, arrivò dieci anni più tardi con la Legge Bancaria del 1936 elaborata dal massone Alberto Beneduce e dal cattolico Domenico Menichella, con la fondamentale copertura politica di Benito Mussolini, nell’ambito di un’operazione che, insieme alla creazione dell’Iri, salvò l’economia italiana dalle ripercussioni del 1929 americano. La Banca d’Italia fu pubblicizzata. Lo Stato ne assunse integralmente il capitale azionario e regolò rigidamente la formazione ed il ruolo dei suoi organi direttivi, che vennero a dipendere strettamente dal governo. Tuttavia, con saggezza inusitata per una “dittatura”, si stabilì che per l’accesso ai ruoli direttivi della Banca Centrale fossero necessarie specifiche ed alte competenze scientifiche e tecniche, nel settore degli studi di economia e di finanza. Si cercò, in altri termini, di porre tutti i paletti normativi necessari per evitare nomine, politicamente determinate, di incompetenti per sole ragioni di copertura partitica.

Con la nazionalizzazione, la Banca d’Italia cessò di fare operazioni al pubblico, come le era consentito in precedenza quale banca privata, ed operò solo verso le banche commerciali. Divenne, in altri termini, “Banca delle banche”.  La Legge del 1936, che convertiva il Regio Decreto Legge 12 marzo 1936 n. 375, dopo aver sancito all’articolo 3 che «La Banca d’Italia è un Istituto di diritto pubblico» ribadiva all’articolo 20 «La Banca d’Italia, creata con la legge 10 agosto 1893, n. 449, è dichiarata Istituto di diritto pubblico. Il capitale della banca è di trecento milioni di lire ed è rappresentato da trecentomila quote di mille lire ciascuna, interamente versate. Ai fini della tutela del pubblico credito e della continuità di indirizzo dell’Istituto di emissione, le quote di partecipazione al capitale sono nominative e possono appartenere solamente a: a) Casse di risparmio; b) Istituti di credito e banche di diritto pubblico; c) Istituti di previdenza; d) Istituti di assicurazione». Gli enti bancari, assicurativi e previdenziali, chiamati a detenere le quote di partecipazione erano essi stessi, per effetto delle riforme fasciste di quegli anni, enti pubblici.

La relazione ministeriale accompagnatrice della legge spiegava che «oltre allo sconto alle aziende di credito, all’istituto di emissione vengono conservate le operazioni di anticipazione anche a privati su titoli di Stato» laddove l’inciso “anche a privati” stava a significare che le anticipazioni, come da prassi corrente, avvenivano innanzitutto nei confronti dello Stato all’atto dell’emissione dei titoli del debito pubblico. Data la sua importanza, è bene riportare integralmente il passaggio della relazione ministeriale alla quale ci riferiamo, perché in esso è chiaramente spiegato che si voleva finalmente porre fine  all’era nella quale lo Stato si finanziava per benevola concessione di banchieri privati monopolisti del privilegio dell’emissione monetaria.

«Come primo atto della riforma dell’Istituto di emissione – è dunque detto nella Relazione –, esso viene dichiarato Istituto di diritto pubblico. L’Istituto di emissione, ente di diritto privato, è ormai, nello Stato corporativo, una sopravvivenza non più giustificabile. Esso stava a rappresentare nella sua origine il banchiere privato che aveva fatto prestiti allo Stato o al Principe e che, a poco a poco, quale corrispettivo dell’aiuto prestato, aveva ottenuto il privilegio di battere moneta. Oggi l’esercizio di questa attività da parte del privato non ha più alcun serio contenuto di intrapresa economica e la partecipazione del privato all’Istituto di emissione non ha quindi più giustificazione. Tanto vale dunque disinteressare, puramente e semplicemente il capitale privato, tutelandone, come è giusto, i diritti acquisiti, ed affermare che la Banca d’Italia è un ente di diritto pubblico, sottraendo pertanto le azioni di essa alla circolazione fra enti non qualificati. Così il provvedimento dispone che le attuali azioni siano rimborsate al prezzo di lire 1.300 (milletrecento) cadauna corrispondente al capitale ed alle riserve di bilancio dell’ente, e che un nuovo capitale di lire 300 milioni sia sottoscritto da Casse di risparmio, Istituti di credito e Banche di diritto pubblico, Istituti di previdenza, ed Istituti di assicurazione. Si apporta altresì una innovazione nella costituzione degli organi amministrativi dell’Istituto. In armonia con la sua natura di ente di diritto pubblico le funzioni che nella Banca d’Italia spettavano alla assemblea dei soci vengono in parte deferite alla Corporazione della previdenza e del credito, cui è demandata la nomina di tre dei quindici membri del Consiglio superiore dell’Istituto, mentre gli altri dodici vengono nominati dalle assemblee generali dei soci presso le sedi della Banca e cioè da rappresentanti degli Enti sopra menzionati. La funzione eminentemente tecnica di “banca delle banche ” che l’Istituto di emissione deve assumere nella economia bancaria moderna è chiaramente espressa dalla limitazione delle operazioni di sconto (il cosiddetto risconto) a contropartite costituite esclusivamente da Aziende ed Istituti di credito. Cessano così, con i necessari temperamenti previsti dallo stesso articolo per le operazioni in corso, le operazioni di sconto diretto e cioè proprio quelle operazioni per le quali avveniva la deplorata interferenza tra Aziende di credito ordinario ed Istituto di emissione. Oltre lo sconto alle aziende di credito, all’Istituto di emissione vengono conservate le operazioni di anticipazione anche a privati su titoli di Stato e su altri ammessi per legge speciale. Le nuove disposizioni danno una diversa fisionomia all’Istituto di emissione, per il quale è necessaria una revisione delle disposizioni statutarie che ora ne regolano l’attività. A tal fine si prevede l’approvazione, per decreto Reale, di un nuovo testo di Statuto».

L’impianto normativo stabilito dalla Legge del 1936, per il nostro Istituto di Emissione, non cambiò nella sostanza nel dopoguerra, salvo qualche adattamento formale nel linguaggio per via del nuovo clima politico. Si sostituì ogni riferimento “corporativo” benché nulla cambiasse in concreto dato che la stessa Costituzione del 1948 nacque facendo tesoro dell’esperienza corporativista degli anni ’30, semplicemente democratizzandola, e dato che quasi tutta la legislazione sociale e l’architettura istituzionale del fascismo venne mantenuta, per essere poi definitivamente smontata solo a partire dagli anni ’80 con l’inizio delle privatizzazioni.

In altri termini, nel 1936 fu conservata la prassi, già precedentemente affermatasi, che ora trovava una più moderna normazione, della monetizzazione diretta della Banca Centrale verso lo Stato. La differenza stava nel fatto che mentre prima la Banca d’Italia, quale banca privata, svolgeva operazione anche al pubblico, dal 1936 essa Iniziò ad erogare credito soltanto allo Stato ed alle banche commerciali, che nel frattempo venivano pubblicizzate anch’esse.

Subito dopo la Legge Bancaria del 1936 intervenne una più specifica legislazione per regolare il supporto della Banca d’Italia nella monetizzazione dello Stato, come ci viene ancora una volta spiegato nella sezione storica del sito di Bankitalia, dove possiamo leggere: «Alla fine del 1936 la svalutazione della lira, lungamente attesa, favorì la ripresa economica ed il riequilibrio dei conti con l’estero. Contemporaneamente, per effetto di un semplice decreto ministeriale, fu rimosso ogni limite alla possibilità dello Stato di finanziarsi per mezzo di debiti verso la Banca centrale».

E’ da notare il riferimento alla fine della politica deflazionista che inizialmente, sotto il liberale Alberto De Stefani, ministro delle finanze negli anni ‘20, il governo fascista adottò. Con l’inizio negli anni ’30 il fascismo iniziò il viaggio di ritorno verso le sue originarie posizioni socialiste attraverso una nuova politica interventista, sul tipo keynesiano, monetariamente e fiscalmente espansiva, intesa a battere la deflazione esplosa con la crisi del 1929.

Ed è significativo, per comprendere la svolta degli anni ’30, che a chiusura della pagina dedicata a questo periodo, il sito di Bankitalia commenti così: «l’autonomia di quest’ultima (della Banca d’Italia) toccò il punto più basso». Un tale commento è, infatti, rivelatore del diverso paradigma che è ora egemone in Bankitalia ossia quello che impone l’assoluta indipendenza della Banca Centrale per favorire le politiche ordoliberiste dell’Unione Europea.

La Banca d’Italia ha gradualmente acquisito detta indipendenza solo nel tardo dopoguerra ed è riuscita a consolidarla soltanto a partire dal 1981. Poi con il sopraggiungere della moneta unica europea e l’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht, la Banca d’Italia è diventata parte del Sistema Europeo delle Banche Centrali che ha dato vita alla Banca Centrale Europea del tutto indipendente, come sancisce l’articolo 107 del Trattato, dai governi nazionali e dalla Commissione Europea.

La storia, dunque, ci dice che il rapporto tra l’Autorità politica e gli operatori bancari è stato sempre molto stretto anche prima che nascessero le Banche Centrali. Poi tale rapporto si è rafforzato con la comparsa della Banche Centrali a partire da quella inglese nel 1694. Un rapporto di reciproca convenienza. In tal modo i Sovrani, le Aristocrazie e le Repubbliche, comprese quelle democratiche, ottenevano finanziamenti per le opere pubbliche e per le guerre indebitandosi con le Banche Nazionali e queste campavano sulla rendita lucrata sul debito pubblico. Con l’affermarsi di una coscienza sociale più moderna e l’emergere delle istanze popolari, gli Stati hanno spostato i rapporti di forza a proprio vantaggio pubblicizzando le Banche Centrali. La prassi di sostenere il debito pubblico da parte delle “Banche Nazionali”, come in origine erano denominate le attuali Banche Centrali, c’è sempre stata. Non sempre tale prassi era normata in modo preciso ma è stata costantemente utilizzata nel corso dei secoli altrimenti tutto il castello sarebbe venuto giù. Con danno anche dei banchieri che pertanto avevano ogni interesse a “collaborare” con i governi ossia a finanziarli, indebitandoli ma al tempo stesso subendone le pressioni.

Quello tra il Sovrano ed il Banchiere è sempre stato un rapporto di reciproca utilità, spesso conflittuale e con esiti alterni in quanto ad egemonia e prevalenza nei rapporti di forza, ma senza dubbio necessitato ed insostituibile. O stanno in piedi insieme o cadono entrambi giù. Il Banchiere non ha mai agito per generosità, spirito di socialità o senso dell’umana solidarietà, ma soltanto per convenienza, ed il Sovrano, altrettanto, ha usato i servigi del Banchiere per la sua politica, quale che essa fosse. Proprio per questo l’attuale situazione di indipendenza bancaria e separazione assoluta tra politica monetaria e politica fiscale non solo è nei fatti impossibile, come ha dimostrato proprio la crisi dell’euro con un Draghi che è stato costretto al quantitative easing per salvare l’euro, ma oltretutto espone il sistema stesso, nato come si è visto dalla “complicità” tra Stato e Banca, al pericolo di “cedimento strutturale” (6).

Tutto questo è talmente vero che anche quando, con il sopraggiungere delle concezioni monetariste e neoliberiste, la politica monetaria è stata irrigidita, la prassi del finanziamento da parte della Banca Centrale del fabbisogno monetario statuale non è affatto andata del tutto perduta ma semplicemente, nell’impossibilità normativa di operare sul mercato primario, le Banche Centrali hanno spostato l’ambito della propria azione sul mercato secondario, che è diventato ben presto, a causa delle privatizzazioni e della globalizzazione, l’unico mercato per il debito pubblico.

In conclusione. Tornare al “matrimonio”, perfezionarlo e renderlo indissolubile, per liberare i popoli.

Resta, il problema, innanzitutto spirituale ed etico, dell’indebitamento degli Stati, e dunque di conseguenza dei popoli, all’atto dell’emissione della moneta, che per definizione è un bene comune e che pertanto non dovrebbe essere sottoposta al peso degli interessi in fase di emissione (diverso è il caso dei prestiti sul mercato tra privati). Tale problema, tuttavia, che si può risolvere soltanto pareggiando a tasso zero, ossia senza applicazione del tasso di interesse, il reciproco dare ed avere, in termini di moneta da un lato e di titoli di Stato dall’altro, tra Stato e Banca Centrale, presuppone sempre e comunque l’esistenza, che ora manca, di una Banca Centrale pubblica – non privata – monopolista, sotto stretto controllo statale, della emissione della moneta. Questa è l’unica via per realizzare, senza cadere nell’inconcludenza o nel ridicolo tipico del dilettante, la cosiddetta “proprietà popolare della moneta”.

I titoli di Stato, tanto se acquistati, come un tempo, sul primario quanto, come oggi, sul secondario, sono sempre e comunque titoli di indebitamento dello Stato. Questo rilievo è indiscutibile, assolutamente vero. L’obiettivo ultimo di chi punta alla liberazione monetaria dei popoli dalla attuale sudditanza alle logiche speculative di mercato deve essere quello di giungere finalmente alla moneta senza debito all’atto dell’emissione, secondo diversi paradigmi concettuali, come, ad esempio, quello proposto da Giacinto Auriti. Tuttavia, fermo rimanendo, il predetto obiettivo ultimo e finale, al quale non si deve rinunciare, è possibile convergere verso la liberazione monetaria dei popoli e iniziare a destrutturare il sistema attuale, che sancisce l’egemonia della Finanza speculativa ed apolide sugli Stati e sull’economia reale, ripercorrendo a ritroso la dinamica storica che ha portato al passaggio tra i due diversi scenari, quello precedente il decennio ’80 e quello successivo.

Nel primo di questi scenari, quello precedente agli anni ’80, come si è visto, lo Stato era protetto dallo scudo anti-speculativo di una Banca Centrale che acquistava, ad un sostenibile e politicamente prefissato tasso di interesse, i bond governativi invenduti sul mercato primario, il cui accesso riservato soltanto alle banche ordinarie pubbliche, o comunque sotto controllo pubblico, che difficilmente avrebbero potuto esimersi dall’acquisto dei titoli di Stato al tasso politico stabilito, costituiva una ulteriore garanzia. Nel secondo scenario, l’attuale, quello scudo protettivo non sussiste più sicché lo Stato, in considerazione anche della intervenuta globalizzazione del mercato secondario, è alla mercé del vincolo esterno ossia delle pulsioni speculative dei “mercati finanziari”. Il “matrimonio”, contrariamente a quanto sostenuto da certuni, esisteva prima del decennio ‘80 ed era costituito dallo scudo protettivo al quale abbiamo testé accennato. Sicché è del tutto legittimo e sensato parlare, di “divorzio” dopo gli anni ottanta.

Non è, quindi, indifferente, sotto il profilo della liberazione monetaria dei popoli, che sia nuovamente celebrato il “matrimonio” nelle forme già storicamente conosciute in passato. Se, poi, al nuovo matrimonio seguisse, in attuazione, come detto, del paradigma auritiano, anche una emissione monetaria senza alcun tasso di interesse a carico dello Stato – cosa possibile laddove la Banca Centrale acquistasse direttamente o al residuo invenduto i titolo di Stato a tasso zero –, l’operazione “matrimonio” troverebbe il suo definitivo suggello.

Luigi Copertino

 

NOTE

  1. Maurizio Blondet “Se torna il gold standard non abbiamo niente da metterci” in Blondet&Friends 26.02.2019; Alessandro Plateroti “Banche, il ritorno del gold standard: l’oro nei bilanci diventa moneta” in Sole 24Ore del 25.02.2019.
  2. Luigi Copertino “Non è l’oro a dare valore alla moneta, è lo Stato” in Blondet&Friends 27.02.2019.
  3. “Jefferson e Mussolini” è tra i libri di Ezra Pound quello storicamente più sbagliato. Il poeta americano si sentiva erede della tradizione jeffersoniana americana. Anche Milton Friedman, con il suo monetarismo, benché politicamente agli antipodi di Pound, è stato un epigono del filone jeffersoniano, generalmente conservatore. Thomas Jefferson, come detto, era un latifondista del Sud che viveva della rendita dei suoi latifondi a conduzione schiavistica. Sognava un’America arcadicamente felice ed in un certo senso è stato un anticipatore dell’ideologia della “decrescita felice”. Per questo si opponeva alla costituzione nella giovane repubblica americana di una Banca Centrale considerata come il covo degli speculatori, e degli indebitatori, i quali avrebbero industrializzato la nazione corrompendola con l’ immoralismo proprio della civiltà urbana moderna. Pertanto egli difendeva l’esclusivo diritto governativo a stabilire l’unità di misura monetaria, previsto dagli emendamenti alla Costituzione, ma anche il “free banking”, il libero esercizio dell’attività bancaria ossia il diritto individuale di ciascuno ad emettere moneta. Diritto che in America fu lungamente riconosciuto: lo stesso nonno di Ezra Pound era un falegname che emetteva buoni d’acquisto garantiti dal legno immagazzinato. Ciò che spinse Pound a paragonare Mussolini a Jefferson fu il ruralismo fascista, quello della campagna autarchica del grano: una delle anime del fascismo opposta ma complementare al futurismo, come opposti ma complementari furono negli anni ’30 le esperienze letterarie di “Strapaese” e di “Stracittà”. In realtà, il regime di Mussolini seguì una strada diversa da quella jeffersoniana. Pubblicizzò e mise sotto stretto controllo l’intero settore bancario della nazione e nazionalizzò la Banca Centrale, allo scopo di dotare lo Stato degli strumenti monetari e creditizi per guidare dirigisticamente lo sviluppo dell’economia italiana. Gli effetti positivi di tale scelta furono ancor più evidenti nel dopoguerra. In altri termini, Mussolini seguì piuttosto la strada indicata da Alexander Hamilton, la bestia nera di Thomas Jefferson. Hamilton, per sostenere la crescita dell’economia americana a bassi tassi di interesse, guardò al modello della Banca d’Inghilterra anche se con finalità non speculative ma di sostegno e sviluppo dell’industrializzazione e modernizzazione del Paese. Certamente, quella di Hamilton era una banca privata, mentre la Banca d’Italia, con la Legge bancaria del 1936, fu nazionalizzata, e tuttavia il modello di politica monetaria era molto simile. Sicché piuttosto che “Jefferson e Mussolini” Ezra Pound avrebbe dovuto scrivere un “Hamilton e Mussolini”.
  4. La Banca Romana riacquistò il suo nome originario con la Breccia di Porta Pia e la fine dello Stato Pontificio. Essa era nata nel 1834, con tale denominazione, per opera di alcuni banchieri franco-belgi ma era poi diventata, nel 1850, Banca dello Stato Pontificio. Gregorio XVI aveva concesso all’Istituto il privilegio dell’emissione di carta moneta fiduciaria nello Stato della Chiesa. Nel 1841 il banchiere Agostino Feoli, con l’appoggio della Cassa di Risparmio di Roma, acquisì il controllo della Banca Romana. Nel 1848 tuttavia a seguito di una crisi di liquidità, con tanto di corsa agli sportelli, il Governo pontificio decise la sospensione per tre mesi, poi rinnovata più volte, della convertibilità in oro delle banconote emesse dalla Banca ed il loro corso forzoso. Per sostenere la fiducia popolare nelle emissioni, nel frattempo limitati a soli 800.000 scudi, fu stabilita la loro convertibilità in Buoni del Tesoro garantiti da ipoteca sui beni ecclesiastici (un po’ come si fece durante la Rivoluzione francese con la fallimentare esperienza degli assegnati). Nel 1849, durante la Repubblica Romana, il governo rivoluzionario di Mazzini e Saffi ordinò alla Banca Romana di stampare moneta per 1,5 milioni di scudi. Il restaurato Governo pontificio annullò tali emissioni indennizzando i possessori della moneta repubblicana con titoli di Stato papali di pari valore. L’iniziale idea di determinare il fallimento dell’Istituto, allo scopo di non riconoscere il debito contratto dalla Repubblica mazziniana, fu presto abbandonata per le ricadute gravi che essa avrebbe avuto. Il Governo papale si decise, allora, nell’ambito di un complessivo piano di ristrutturazione, per l’incorporazione della Banca Romana nel nuovo Istituto di Emissione denominato Banca dello Stato Pontificio. La quale, come detto, dopo Porta Pia tornò all’originario nome di Banca Romana continuando a svolgere le funzioni di banca di emissione anche per lo Stato italiano.
  5. Massimo Amato e Luca Fantacci “La fine della finanza”, Donzelli, 2009, Roma, pag. 259.
  6. Nel 1982, subito dopo il “divorzio” – che comunque fu graduale dato che lo Stato mantenne aperto il suo conto di tesoreria, presso Bankitalia, almeno fino al 1993 – il Tesoro non fu nell’immediato in grado di rientrare dallo scoperto sicché divenne, con urgenza, necessaria una anticipazione straordinaria da parte della Banca d’Italia che il Parlamento votò per un importo di ottomila miliardi di lire per dodici mesi al tasso agevolato dell’un per cento. Negli anni successivi, gli stanziamenti straordinari, resisi necessari a causa del divorzio, aumentarono fino a raggiungere le cifra di 70 miliardi di lire. Tutto questo dimostra quanto sia impossibile e in pratica rischioso, per gli stessi banchieri, il “divorzio” tra lo Stato a la Banca Centrale.