La morte dei Morti. Antigone non abita più qui.

di Roberto PECCHIOLI

 

Il cimitero genovese di Staglieno non è solo un grande camposanto. E’ un monumento d’arte visitato con stupore dal turismo di massa per i tesori d’arte che tante famiglie hanno voluto nelle loro tombe. Come i palazzi signorili dell’aristocrazia dell’antica repubblica e tante chiese di straordinaria ricchezza, esso testimonia un tratto singolare dell’anima della Superba. Da un lato la sua ritrosia leggendaria, il tenersi tutto dentro, dall’altro l’orgoglio, la bellezza esibita solo all’interno di luoghi privati, intimi, l’imponenza riservata a siti tanto particolari come appunto un cimitero. Un senso della vita alieno da trionfalismi, poiché la campana di Staglieno suona per tutti.

Così, almeno, era fino a qualche decennio fa. Visitare Staglieno nell’anno di grazia 2017, specialmente nel periodo della commemorazione dei defunti, aggiunge dolore alla tristezza del luogo ed alla malinconia della memoria, certifica che davvero siamo alla fine di un ciclo, probabilmente all’ultima tappa di una civiltà grande che fu la nostra. Non solo perché il cimitero appare come un museo d’arte fermo alla prima metà del XX secolo, giacché nessuno più costruisce grandi tombe per sé e la famiglia, ma soprattutto per il progressivo abbandono, la solitudine di interi campi anche tra i più recenti, pochi fiori, tante, tantissime tombe deserte, private anche del conforto di un fiore disseccato, scarsa partecipazione alle cerimonie davanti al grande monumento alla Fede alla confluenza dei viali, sotto la scalinata che conduce alla chiesa. Un tempo, nel periodo iniziale di novembre, la gente riempiva non solo il cimitero, ma anche le strade di accesso, si affollava davanti ai numerosi negozi di fiori, in migliaia percorrevano i viali di quel grande santuario del ricordo.

Nulla di tutto questo. Un’affluenza moderata, i fiorai rimasti sono pochi e chiamano i passanti come i fruttivendoli del mercato. Una visita frettolosa, e via, tutti tornano alle proprie abitudini. Ci sembra la morte dei Morti, certificata dall’ascesa di Halloween, scherzetto o dolcetto, immagini lugubri di mostri in fondo ridicole, al massimo grottesche. Non vogliamo rimpiangere il passato ad ogni costo, ma siamo abbastanza vecchi da ricordare quando il 2 novembre cinema e teatri rimanevano chiusi e la RAI a canale unico trasmetteva solo notiziari e musica classica. Nessuna famiglia trascurava di andare al cimitero con figli al seguito. Chi aveva i propri cari lontani dai luoghi di residenza utilizzava la giornata – allora festiva- per un fugace ritorno nei paesi d’origine, meta la visita al camposanto. Impensabile, anzi incomprensibile nel tempo del mercato misura di tutte le cose.

Chi scrive ricorda tuttora l’impressione profondissima che provò, bambino di forse 10 anni, apprendendo da coetanei figli di profughi istriani che loro non potevano andare al cimitero a trovare i nonni perché gli “s-ciavi” (la Jugoslavia di Tito) non lo permettevano e addirittura che diversi cimiteri erano stati distrutti dopo l’esilio degli italiani. Tutto finito: neppure nei giorni d’inizio novembre si va più a Staglieno. Eppure, non è certo abolito il dolore per la perdita di familiari o amici, e la Morte è sempre lì, muta sorella in attesa.

Quel che è cambiato è il senso generale della vita, la corsa insensata e soggettiva che prescrive la rimozione del dolore, del male, della sofferenza, e, tabù massimo, della morte. Non è solo la secolarizzazione assoluta della nostra società, poiché un senso laico della morte è sempre esistito con la sua nobiltà, né, crediamo, sia unicamente la cattiva coscienza di generazioni che hanno abbandonato la memoria, di cui i defunti sono il simbolo più persistente. Non sapremmo esprimere un giudizio complessivo o formulare diagnosi o prognosi. Sappiamo, siamo certi che è un altro segnale, un sintomo tra i mille di un intera visione del mondo che abbandona il campo, si congeda dalla storia senza fare troppo rumore. Insepolta, o racchiusa in una piccola urna cineraria, come è diventato l’uso più comune per il congedo degli umani.

Antigone non abita più qui. La tragedia di Sofocle rappresentò per oltre due millenni uno degli archetipi più profondi della civiltà nostra. Nel conflitto tra il potere e il sangue, tra la legge e la pietà, vinceva il rispetto, l’umanità, il riscatto del corpo privo di vita, ma ricco di significato ed ancora degno dell’amore dei parenti. Antigone sfidò il re Creonte che aveva ordinato di gettare il cadavere di suo fratello Polinice, sconfitto dopo aver provocato la guerra dei Sette, fuori dalle mura di Tebe, destinato a finire preda degli animali selvatici. La fanciulla seppellì come poté i resti di Polinice, scatenando l’ira del re, accettando le conseguenze tragiche della sua ribellione in nome del sangue e dell’intenso significato morale del suo gesto.

Al contrario, adesso i resti di chi fino ad un attimo prima era un essere umano non sono che detriti ingombranti, rifiuti da smaltire, ingombri, materiali, cose. Tra gli impresari di onoranze funebri c’è chi offre fuochi d’artificio alimentati dalle ceneri del de cuius, dispersione dei resti in mare o dove piaccia agli interessati, ed altre diavolerie di importazione americana. E’ il Mercato, rigorosamente scritto con la maiuscola, unito allo Spettacolo, che non si ferma di fronte a nulla e, dicono, deve continuare.

Il lutto, il senso dell’assenza, il dolore per chi abbiamo perduto possono aspettare, e comunque, come ogni espressione morale e spirituale, devono essere rigorosamente confinati nel privato, lontani dallo spazio pubblico, riservato alle luci del varietà, alla pubblicità interrotta dalle ultime notizie, agli affari. Business, as usual, si vantano i pragmatici anglosassoni. Il dubbio, allora, si fa più lancinante: siamo davvero alla fine di un ciclo, come direbbero in India, viviamo nel pieno del Kali yuga, l’ultima oscura fase del declino?   Respingere il culto dei morti, in fin dei conti, è mancare di rispetto a se stessi, ridurre l’umanità e l’esperienza della vita umana ad un accidente, il corpo ad un fardello di cui disfarsi in fretta e dimenticare che è esistito, tutt’al più accettare che diventi un magazzino di ricambio per la chirurgia. Forse c’è qualcosa di ancora più profondo, e ci troviamo nel pieno di una definitiva regressione civile.

Non è vano ricordare i Sepolcri, il capolavoro di un grande poeta romantico, Ugo Foscolo, in cui culto e rispetto per i defunti, e gli stessi luoghi fisici della sepoltura diventano un segno volto ad imitare le azioni dei grandi uomini. Foscolo, tuttavia, va oltre, polemizzando con una legge napoleonica, l’editto di Saint Cloud, che obbligava a seppellire i morti lontano dalle città e dai luoghi abitati. Non è certo un caso che la postmodernità concluda un ciclo iniziato con la Rivoluzione Francese e la sua lugubre Ragione: la morte come un problema di igiene e nettezza urbana, i cimiteri come spreco di aree edificabili.

“Dal dì che nozze, tribunali ed are/diero alle umane belve esser pietose/ di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi/ all’etere maligno ed alle fere/ i miserandi avanzi che Natura / con veci eterne a sensi altri destina”, scrive il poeta, ed è una magistrale lezione di filosofia della storia. Il rispetto per i morti è cominciato con il sorgere della civiltà degli uomini, ne è stato anzi una delle prime e fondamentali manifestazioni, insieme con l’istituto matrimoniale, le leggi e la religione. Corre un brivido, pensando alla decadenza irrimediabile di tutti e tre questi segnali di civiltà. Il matrimonio è ridotto ad un contratto a termine che prescinde persino dal sesso (domani anche dal numero) dei contraenti, la religione è un lontano ricordo del passato, le sue ricorrenze sopravvivono come semplici giorni di vacanza dal lavoro o dalla scuola, le leggi sono manipolate, calpestate, derise, continuamente modificate secondo le cangianti, temporanee maggioranze numeriche legate allo spirito dei tempi.

G.B. Vico, il grande filosofo napoletano della Scienza Nuova scriveva: “Osserviamo tutte le nazioni custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione; tutte contraggono matrimoni solenni; tutte seppelliscono i loro morti. Da queste tre cose cominciò l’umanità; e perciò si devono santissimamente custodire da tutte perché il mondo non si infierisca e rinselvi di nuovo”. Di qui il rigetto del Foscolo per lo “stato di natura” che entusiasmava Rousseau. Esso non significa altro, come capì il Vico, che barbarie e ferinità primitiva. L’uomo realizza se stesso solo nella vita associata e comunitaria, attraverso le tre istituzioni citate e le leggi, nonché nel rispetto della tradizione, attraverso la quale riconosce il senso della continuità della vita e della storia.

Dio di se stesso, schiavo delle pulsioni (il nome moderno che Freud diede agli istinti più bassi), alieno dagli impegni a lungo termine, talmente terrorizzato dalla propria fine da averla rimossa, il civilissimo, illuminato europeo del nostro tempo è impegnato da generazioni a segare tutti i rami l’albero su cui è appollaiato. La “nuova” morte igienizzata e celata corrisponde all’editto di Saint Cloud del Bonaparte: lontana dagli occhi per nasconderla al cuore, allontanarla dal pensiero di un’umanità nuova che ha terrore del Nulla, ma non sa sperare nel totalmente Altro, nell’Oltre. Senza più fede, liberato da tutti quelli che considera tabù di età oscure, divenuto adulto nella modernità dopo millenni di infanzia, come proclama l’orgogliosa Ragione, l’uomo resta ostaggio della morte. Forse perciò la nega con tanto accanimento, e insieme la circonda di nuovi tabù.

Le leggi non fanno eccezione, a cominciare da quelle tributarie. Le spese funerarie sono detraibili in misura assai limitata, ed il governo sta per assoggettarle ad imposta. Tenue simbolo di un residuo rispetto per la morte e la dignità della sepoltura, i costi funerari sono esenti da IVA. Presto cadrà anche questo ultimo velo di reverenza per il passo estremo del nostro cammino umano e dovremo pagare l’imposta sul valore aggiunto anche per i servizi funerari.  Valore aggiunto…

In cambio, possiamo detrarre dall’ imposta sul reddito alcune spese veterinarie. E’ un paragone che strappa un sorriso amaro, e mostra sino a quale punto i valori sono stati invertiti. Davvero, al tempo della morte dei Morti, Antigone non abita più qui. Meglio avrebbe fatto a lasciare che gli animali selvatici dilaniassero i resti del fratello: avrebbe sposato il figlio del re, un giorno sarebbe stata regina.

Non volle essere sovrana in un mondo di belve; pensava che un uomo è un uomo, anche da morto. Duemilacinquecento anni dopo, è un rifiuto da raccolta differenziata: smaltire, pagare l’imposta, dimenticare in fretta, riprendere la corsa a perdifiato. Questa sì che è civiltà!

 

ROBERTO PECCHIOLI