LA DITTATURA DEL PRESENTE

di Roberto PECCHIOLI

La nostra è un’epoca di falsa democrazia, astratte libertà e concrete dittature. Una di queste, la più sorprendente, è la supremazia dell’odiernità, una vera e propria dittatura del tempo presente. Il pensiero unico materialista conosce e idolatra esclusivamente ciò che appartiene all’oggi, ed è quindi moderno. In altre occasioni, abbiamo rilevato come il vocabolo modernità altro non significhi che “al modo odierno”. E’ un termine utilizzato da sempre con riferimento al presente, ma senza l’enfatizzazione, la carica positiva e idolatrica da cui è circondato da ormai mezzo secolo. La superiorità programmatica di oggi su ieri, postulata e sottintesa come evidente è infatti uno dei mille frutti avvelenati della stagione tossica che chiamiamo Sessantotto.

Da allora, tutto si ridusse all’attualità, all’attimo, trascinando ogni cultura, credenza, costume, storia davanti al tribunale grottesco dell’Eterno Presente. Strano tribunale davvero, privo di una giurisdizionale spaziale o territoriale, ma esclusivamente temporale con scadenza prestabilita alla fine del giorno corrente. L’indomani trascina inevitabilmente il presente nel passato, destituendolo d’importanza; un incantesimo che si scioglie allo scoccare della mezzanotte, come quello di Cenerentola. Una dittatura che rinasce continuamente al nuovo giorno, una Fenice che si rigenera dalle proprie ceneri: post fata resurgo, giacché è moderno ciò che vale oggi e il sole sorge ogni mattina. La vittima più evidente è il passato, gravato dal pregiudizio negativo, tacciato di oscurità e arretratezza, ma il presente, nonostante l’altro mito vigente, quello del progresso, distrugge anche il futuro.

Possiamo constatare ogni giorno il disinteresse per ogni grande progetto, per idee, azioni, realizzazioni che scavalchino il tempo. Vale per l’architettura e l’arte, ma anche per l’economia, teatro unico della rappresentazione moderna. Non solo non si costruisce nulla per i posteri – il Colosseo e la stessa Tour Eiffel non hanno i loro omologhi odierni, ma non si ragiona più a lungo termine. Le politiche non oltrepassano l’oggi, la finanza e il ceo capitalism lavorano per il profitto immediato degli azionisti. Per una schiacciante maggioranza il mondo di ieri e dell’altro ieri è un’imbarazzante infanzia dell’umanità, la memoria si impegna esclusivamente a breve termine.

Capita a chi ha superato la cinquantina di sentirsi chiedere come andassero le cose prima dell’avvento del telefono cellulare. La nostra risposta, invariabilmente, è che Omero, Michelangelo e Einstein diventarono comunque ciò che furono. Oggi non sarebbe neppure immaginabile la querelle des anciens et des modernes che impegnò i migliori ingegni tra il Sei e il Settecento per manifesta inferiorità degli antichi. L’unico futuro ammesso è quello ingabbiato, presentificato dalla previsione. Un tratto peculiare della modernità è la sua ansia di anticipare, prevedere, razionalizzare e neutralizzare il futuro attraverso il calcolo, le probabilità, la statistica e adesso i modelli matematici algoritmici. Dalla meteorologia alla demografia, alla produzione sino alla crescita, altro mito equivoco del presente, nulla sfugge agli schemi destinati a togliere all’avvenire la sua incertezza, detronizzarlo a favore dell’oggi, o ridurlo a una sorta di presente gonfiato, realtà aumentata o corda tesa all’infinito.

Incredibile è il destino toccato all’arte. Nelle grandi università anglosassoni, incubatrici di quanto è avvenuto nell’ultimo mezzo secolo, si è arrivati a imprimere bollini rossi sulle opere di Shakespeare, colpevoli, secondo il criterio del politicamente corretto, alternativamente di sessismo, razzismo e di non sappiamo che altro. Il tribunale supremo ha pronunciato la sua sentenza, pure Dante è sospetto, la stessa Bibbia rischia grosso. Nel futuro prossimo, i melomani dovranno rassegnarsi ad un Rigoletto censurato di almeno due arie, Cortigiani vil razza dannata (discriminazione e uso di parola proibita, razza) e La donna è mobile, poiché, “qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier” è sessismo misogino della peggiore specie!

L’unica consolazione è la natura cangiante del tribunale del presente, domani potrebbe a sua volta mutare d’accento e di pensiero. Preoccupa il moralismo d’accatto che destituisce di valore ogni cosa in nome del criterio di attualità, senza neppure domandarsi se i suoi giudizi non verranno revocati in dubbio o derisi dalla giuria successiva. Oggi vigono i totem della tolleranza, dell’identico, dell’Unico. Domani, chissà. Ma l’imperativo categorico, svuotato della moralità di Kant, è quello di un vorace Carpe Diem nel nome di una giovinezza mitizzata – il Rinascimento di Lorenzo il Magnifico, quant’è bella giovinezza, senza più il dubbio (del doman non v’è certezza) – giacché il futuro è screditato quasi quanto il passato, nonostante il mito del progresso.

Domina l’idea di consumo: bruciare in fretta le esperienze, enfatizzare le emozioni, regine dell’Homo Consumens. Nel linguaggio dell’automobilismo sportivo, una vita in formula Indianapolis, giri infiniti alla massima velocità in un circuito simile alla gabbia del criceto.

Ovviamente, perdono importanza tutte le discipline non centrate sul presente, a partire dalla storia, ma anche la geografia, la metafisica, la stessa politica se tenta di interpretare ed indirizzare il mondo secondo idee e progetti. Va forte la sociologia, per la sua natura previsionale, e il sapere scientifico, le scienze della natura di Dilthey per il loro carattere cumulabile. Siamo diventati giganti per il passato lavoro di nani. Si diffonde l’idea che l’uomo sia una tabula rasa da riempire a piacere. L’unico criterio diventa l’attualità, alterata dalle lenti deformate dei valori correnti, tra cui eccelle la rimozione, che nega indirettamente il futuro. Comprendere l’oggi per viverci da protagonisti, da vincenti, diventa quindi basilare.

Tutta la conoscenza deve essere condensata in un sapere-Bignami, sempre più rapido, superficiale e strumentale al fare che ha sostituito l’agire. Di qui la diffusa ignoranza di massa, alimentata da uno specialismo sempre più angusto, la conoscenza settoriale con il paraocchi che fece scrivere a George Bernard Shaw che specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente. La dittatura del presente è insieme arrogante, giacché giudica con il criterio dell’oggi in nome di “ciò che serve” ed ignorante in quanto scarta per principio quanto non si accorda con se stessa. In questo senso è infantile, non vuole crescere, Peter Pan è il suo eroe eponimo, irresponsabile come ogni bambino. Dell’infanzia ha anche il senso di onnipotenza e l’egocentrismo.

L’idolatria del nuovo ricorda il rapido disinteresse del bimbo per il giocattolo con cui si trastullava fino a un attimo prima dell’arrivo di un nuovo balocco. Nuovo è sinonimo di migliore esattamente come oggi è superiore a ieri. Il punto è che il sistema basato sul consumo, autore e beneficiario della rivoluzione presentista, ha necessità di nascondere ciò che è più ovvio nello schema lineare, cioè che domani sarà migliore di oggi. Ci si deve fermare sulla soglia, per non intralciare un cammino che, inevitabilmente, trasformerà in rifiuto ciò che non corrisponde al presente.

Sono curiosi l’entusiasmo e l’attesa spasmodica che circonda la messa sul mercato di nuovi apparati tecnologici dotati di una funzionalità in più rispetto al modello precedente, le code chilometriche, la gioia estenuata di chi ha conquistato a caro prezzo e con fatica fisica l’oggetto del desiderio. Stranamente, pochissimi si chiedono come mai avessero atteso con altrettanto fremito il modello precedente, così obsoleto, poco efficace, giudicato ora addirittura brutto. Ma nella dittatura del presente una delle leggi fondamentali è che ci piace esclusivamente ciò che ci viene fatto piacere (oggi).

Un altro elemento dell’odiernità è la sua natura totalitaria in senso giuridico. Abolito o fortemente affievolito il concetto di giusto, ci resta ciò che è legale. In base al criterio dominante del momento, lo spirito dei tempi, vale quello che la legge vigente impone o permette.  Chi si oppone è fuori dal tempo, una condizione pericolosa, giacché il conformismo filisteo è un altro elemento della dittatura. Il presente è un signore ricco di pretese, esige una vita tutta di corsa, detesta il silenzio. I suoi sudditi hanno orrore del vuoto (horror vacui), devono sempre fare qualcosa per riempire il tempo (si dice ingannare il tempo, ma è il contrario), avendo tutto sotto controllo, prevedendo, anzi, come si dice adesso, gestendo le situazioni. Horror fati, terrore del destino, dell’imprevedibile, di ciò che esula dal quotidiano e eccede i modelli statistici.

Tutto deve fluire, nella può rimanere stabile. Eraclito, il filosofo greco del Panta Rei, tutto scorre, è il vero ideologo della dittatura del passo di corsa. Ci si identifica con l’acqua che scorre e non è mai la stessa. L’uomo dell’eterno presente accetta di essere una goccia, evitando accuratamente di porsi le domande di senso. Dove andrà quella goccia e da dove viene per lui sono domande oziose. Si diventa molecole di un anello in una catena senza neppure più la dignità di sentirsi alienati. Gli unici quesiti ammessi sono quelli a cui la razionalità scientifica può fornire una risposta in termini di validità, che è categoria distinta dalla verità. Conta ciò che funziona. Il suddito del presente è arretrato rispetto all’Esserci di Heidegger. Si contenta di un presenzialismo in cui è il fondale della rappresentazione, una figurina che appare per un attimo nel boccascena e poi scompare.

Essenziale è avere e fare tutto e subito. Dioniso sconfigge Apollo, l’ordine e la forma, in un crescendo che ricorda un’opera poetica di fine Seicento, il Bacco in Toscana di Francesco Redi “Si ravvolge e si consuma, e quaggiù Tempo si chiama; e bevendo e ribevendo iI pensier mandiamo in bando”. Si volgarizza l’antica massima, riempi il bicchier che è vuoto, vuota il bicchier che è pieno. Chi si ferma è perduto, chi corre entrerà nell’inquadratura, nel frame, godrà del gioioso attimo presente, afferrato in movimento come la fune di una seggiovia. Ma è una corsa disperata per sfuggire al Nulla che incombe.

Gli anglosassoni considerano Ludwig Wittgenstein, logico, ingegnere di formazione, il maggiore filosofo del Novecento. Il pensatore viennese fornì una straordinaria copertura al discredito del pensiero non scientifico. Nessuna speculazione è permessa dal suo sistema: è la fine non solo della metafisica, ma dell’homo viator, il viandante dell’esistenza in cerca di verità, più avido di domande che di risposte. La sua opera capitale si intitolò significativamente Tractatus Logico Philosophicus. Il brano più celebre è il seguente: “il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi. Dunque proposizioni della scienza naturale, dunque qualcosa che con la filosofia non ha niente a che fare; e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe (…) l’unico rigorosamente corretto. Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.”

Ovvero, tacere sull’essenziale, invisibile agli occhi, poiché nessuna domanda di significato può essere soddisfatta. Un grande riduzionismo, un elegante paraocchi per un’umanità votata all’immediato, al misurabile, in corsa su binario unico: obbligatorio attenersi a ciò che può essere trattato con gli strumenti della ragione calcolante. Il prezzo è la riduzione dell’uomo a scimmia di Dio, che vive il presente come eternità surrogata. Ma il presente deve essere necessariamente riempito, ingrandito, colmato affinché siano elusi i grandi temi, in un tempo lineare, una sequenza di puntini, espellendo il senso ciclico, imitazione dell’eterno, il tempo dei contadini di Jacques Le Goff incompatibile con la fretta, la velocità, la compressione ansiosa che ci avvolge.

Il tempo ciclico evoca il ritorno, (dopo un raccolto ne viene un altro), ma anche il differimento, la capacità di attendere, lo sforzo, il rispetto del ritmo della natura. Non è adatto a noi, forzati a vivere e sperimentare tutto, subito, detestando la fatica, la gradualità, la via impervia. E’ d’obbligo mordere la vita in ogni momento, senza lasciar cadere una goccia del frutto. Lontana è l’epoca di Ruzante “per ogni gaudenza, ci vuole sofferenza”. Basta la carta di credito e una connessione veloce.

La vita rapida e compressa assomiglia al gesto di chi sul computer, “zippa” i files per occupare meno spazio nella memoria. Il presente zippato (l’icona è un torchio che schiaccia) impone la fretta, la concisione, la rinuncia sistematica alla profondità. Al tempo degli apparati elettronici, perfino i gestori dei siti di approfondimento raccomandano: scrivi poco, la gente ha fretta, non legge più di una cartella. In televisione, anche gli ospiti di rilievo vengono interrotti se sforano i tempi, con quella parola, tassativo, che annuncia la pubblicità sovrana. Pubblicità, la fabbrica del desiderio e del presente che abbatte le frontiere del passato, ci invita ad affrettarci nel consumo, soddisfare la nuova smania indotta dal messaggio.

Anche nel consumo occorre fare presto. Il nuovo sta per invecchiare e non si può rinviare. Eppure, la caratteristica dell’uomo è essere l’unica creatura capace di differire, procrastinare, tenere sotto controllo l’istinto. La dittatura del presente non vuole, dobbiamo regredire allo stadio infantile, i desideri e le pulsioni vengono spinte a manifestarsi senza limite, accelerate e consumate al di fuori di ogni giudizio morale. A differenza dell’animale, l’uomo non è mai davvero sazio, ma per volontà del Creatore non può rinunciare ad attribuire alle sue azioni significato, senso, direzione.

Il fondatore dell’antropologia filosofica, Arnold Gehlen definì l’uomo l’essere pressoché privo di istinti, ma in possesso di una straordinaria qualità che lo rende unico, l’esonero, ossia la capacità di conoscere e riconoscere, esentandosi dall’immediato. L’uomo, esperendo il mondo, lo concentra in simboli, fino ad acquistare visione panoramica e capacità di disporre. In tale processo conquista il controllo su una molteplicità di azioni, esonerandosi dall’istintualità materiale. Il mondo è per lui un campo di sorprese infinite, un ordito dove passato, presente e futuro si integrano organicamente. L’interiorità umana è aperta al mondo. Ciò significa investita di esperienze, impressioni, intuizioni, ciascuna delle quali fa crescere una tensione, un’aspirazione verso l’alto. Per un altro verso significa che la vita delle pulsioni e dei bisogni umani racchiude valori lontani, immagini del passato, un tendere verso ciò che è assente, anelare a situazioni e circostanze future.

La riduzione dell’uomo al suo presente è una delle modalità attraverso cui lo si abbassa a schiavo dell’effimero, non più creatura chiamata all’eterno, ma grumo di materia destinato a esaurire se stesso nel gesto compulsivo di fare senza agire, esistere senza essere, guardare senza vedere. Un animale senza storia, senz’anima, estraneo a Dio, straniero anche a se stesso.

Roberto PECCHIOLI