LA CINA FA PAURA (il dirigismo funziona)

di Roberto PECCHIOLI

La Cina è diventata la fabbrica del mondo, ma la sua presenza aggressiva in tutto il pianeta risveglia l’allarme. Pechino ha accelerato la sua politica di influenza globale: in Africa acquista pezzi di economia, controlla regimi e porzioni di territorio in cui fonda città, costruisce infrastrutture, sfrutta risorse energetiche, prepara un futuro prossimo di potenza planetaria egemone. Il Ventunesimo sarà sempre più il secolo del Dragone. Alibaba e Huawei, due giganti tecnologici, sono ormai in grado di competere con i colossi di Silicon Valley. La sua ricerca scientifica, all’insaputa dei ricercatori del resto del mondo, è pervenuta all’inquietante modifica del patrimonio genetico di due gemelline.

La Cina, dopo la storica apertura all’esterno di Deng Xiaoping, si è presto trasformata in opificio universale, ma da circa dieci anni ha accelerato verso l’obiettivo – una novità nella sua lunghissima vicenda storica – di conseguire una presenza determinante a livello globale concentrando gli investimenti nei settori strategici e non solo vendendo prodotti a buon mercato. In ciò è sostenuta da una forte centralizzazione politica, dal dirigismo economico, dal controllo sull’emissione monetaria e gli investimenti. La sua strategia silenziosa, a fuoco lento con una recente netta accelerazione ha investito non solo gli Stati Uniti e l’Africa, trasformata in avamposto strategico, serbatoio energetico, colonia a medio termine per milioni di cinesi, ma anche il Giappone, Singapore e naturalmente l’Unione Europea.

La Cina da tempo non è impegnata solo a garantirsi materie prime ed energia a basso costo per il suo apparato industriale, ma fa molto di più, come dimostra il gigantesco megaprogetto della nuova Via della Seta, volto a costruire una rete di infrastrutture portuali e ferroviarie verso occidente sino all’Atlantico che coinvolgerà anche l’Italia (Trieste e Genova soprattutto). La Cina ha impresso un netto cambio di rotta alla sua politica estera, dapprima concentrata sullo sviluppo economico interno, incominciando a sfidare l’attuale ordine mondiale.

La svolta è più evidente dal 2012, da quando è al potere l’attuale presidente Xi Jinping. L’ americano Hoover Institute, legato al partito repubblicano, ha pubblicato un ponderoso studio sulla presenza cinese negli Stati Uniti. L’elenco degli interessi cinesi in America è lunghissimo, il loro impatto economico assai importante. Comincia a diventare rilevante anche l’aspetto culturale, con 350 mila studenti che seguono corsi di laurea negli Stati Uniti, mentre la madrepatria forma nei suoi atenei giovani africani e asiatici, le future classi dirigenti. Il deficit commerciale americano nei riguardi della Cina è enorme, circa 350 miliardi di dollari annui. Una parte notevole del pesante debito pubblico americano è in mani cinesi, tanto che il vice presidente Mike Pence ha invitato il sistema finanziario americano a rifiutare ulteriori acquisti. Inoltre, molti cinesi emigrano negli Usa acquisendo notevole influenza economica e politica. La strategia della penetrazione del Dragone, lo sappiamo, non risparmia l’Italia, con una rete fittissima di imprese non solo commerciali e artigiane che realizzano una sorta di economia chiusa, circolare con la patria e le aziende dei connazionali residenti.

Lo studio non ha rilevato interventi diretti sulla vita politica e le scelte elettorali americane, ma è preoccupato per la crescente influenza cinese nelle università, nei “pensatoi” (think tanks), l’intenso lavoro di lobby in ogni canale utile per orientare o contrastare decisioni finanziare, economiche, politiche, geostrategiche. Le università cominciano a ricevere pressioni per annullare o sterilizzare gli eventi potenzialmente critici verso il regime cinese, con vere e proprie rappresaglie da parte dell’ambasciata e dei consolati presenti nel paese.

La penetrazione cinese è particolarmente significativa nel settore tecnologico, la chiave per rafforzare il potere economico e la forza militare. Utilizza largamente lo spionaggio industriale e il trasferimento di tecnologie (know how) attraverso l’acquisto di imprese. Gli americani, paladini del libero scambio, non mettono in discussione ufficialmente l’entrata di capitali cinesi nelle loro industrie, ma lamentano l‘impossibilità di distinguere quale parte del capitale è pubblica e quale privata, tenuto conto del ruolo strategico dello Stato, della finanza pubblica e del Partito Comunista.

In effetti l’ircocervo cinese è un enigma difficile da interpretare: comandano i mandarini scelti dal Partito Comunista, i cui vertici hanno in mano lo Stato, il sistema bancario e dirigono l’economia secondo piani decisi dall’alto.  Contemporaneamente, hanno promosso un forte sviluppo del sistema privato. Monta la preoccupazione per la natura opaca delle compagnie cinesi, socie e spesso proprietarie di industrie e grandi infrastrutture anche in Europa. L’ Olaf, l’agenzia antifrode comunitaria, ha confermato l’ampiezza della ben nota pratica della sottofatturazione all’importazione, con il triplo obiettivo di evadere le imposte, praticare concorrenza sleale e regolare parte delle transazioni in patria. I canali privilegiati di ingresso sono il porto greco del Pireo – controllato da società cinesi- quello di Costanza, ma anche Rotterdam e gli approdi del Regno Unito, in cui le indagini hanno provocato sanzioni per due miliardi di euro.

Il dibattito si è esteso in Germania e Francia, dove l’allarme delle autorità è crescente, per quanto espressa prevalentemente in incontri riservati e sedi confidenziali, e riguarda la penetrazione cinese in settori strategici. Si sta ripristinando l’antico sistema delle autorizzazioni ministeriali preventive per l’importazione e l’esportazione di determinati prodotti, un meccanismo considerato un residuo protezionista del passato, ma che è concordato a Bruxelles e verrà presumibilmente esteso in ambiti come la proprietà intellettuale e i mezzi di comunicazione.

La preoccupazione ha scosso la mercantilista Germania nell’anno 2017 dopo l’acquisto da parte cinese di Kuka, uno dei massimi produttori mondiali di robot. Un affare da circa 4,5 miliardi di euro in un comparto decisivo per la ricerca e la sicurezza, destinato a improntare le politiche industriali e del lavoro dei prossimi decenni. Ciò che preoccupa è la mancanza di reciprocità, principio base delle relazioni commerciali. Le barriere in entrata nell’economia cinese, le cui imprese sono finanziate con denaro pubblico e se ne infischiano delle “sacre” regole del mercato, sono tali da impedire l’accesso per le imprese europee e americane sgradite, i cui investimenti spesso falliscono per gli ostacoli di varia natura frapposti dalle autorità del Dragone. Il paradosso è che, con la presidenza Trump e il suo approccio protezionista, la Cina si è adesso erta a sostenitrice del libero commercio privo di dazi e divieti che viola sistematicamente in casa propria.

Le reazioni sono timide e balbettanti; il gigante asiatico è troppo forte, troppo importante per l’economia globale e non si può prenderlo di petto. E’ un socio scomodo ma dal quale non si può prescindere, lo dimostra il silenzio sui diritti umani violati, mancanza di libertà di pensiero e di religione, come sa bene la Chiesa cattolica. Il profumo degli affari fa chiudere gli occhi e tappare le orecchie, specialmente nei paesi il cui debito sovrano è finanziato dall’imponente avanzo commerciale cinese.

La nuova aggressiva posizione cinese è al centro della globalizzazione, ne mette in luce le contraddizioni e sta diventando un brodo di coltura delle reazioni dell’opinione pubblica internazionale. Ciononostante, e non sarebbe potuto capitare diversamente, il dossier cinese è stato del tutto ignorato a Buenos Aires nelle conclusioni del G20, un organismo internazionale allargato messo in piedi, nel suo disegno attuale, per spegnere i fuochi della grande recessione iniziata dieci anni fa, diventato una retorica vetrina di leaders politici senza alcuna funzione reale, l’apparenza di un inesistente multilateralismo.

L’aggressività economica cinese è uno dei grandi temi della globalizzazione e dà nuovo alimento alle reazioni “populiste” già innescate contro l’austerità imposta dal neoliberismo occidentale. Su questo gli americani ovviamente tacciono, preferendo esortare il concorrente asiatico a “recuperare la sua neutralità nel quadro geostrategico mondiale”. Pia illusione di chi ha sbagliato clamorosamente le previsioni strategiche aprendo le porte del commercio mondiale alla Cina e vuole continuare a controllare e dominare lo scenario mondiale. La radice delle rivendicazioni sovraniste, nonché la crescente richiesta di protezionismo economico, si trova precisamente nella necessità di recuperare lo spazio strappato a colpi di disarmo daziario in nome del libero scambio, con la richiesta di meno immigrazione, più controlli alla frontiera e maggiori barriere finanziarie e tecnologiche.

Non va sottovalutato il ruolo dell’aggressivo nazionalismo economico cinese, che ha lanciato con clamore il MIC 25 (made in China 2025) per promuovere i suoi prodotti di punta e proteggere le sue imprese dalla concorrenza sul mercato interno dopo avere approfittato largamente delle liberalizzazioni tariffarie disposte dal WTO per estendere la sua presenza nei mercati internazionali. Una politica che non è estranea all’inverno della recessione internazionale in arrivo, poiché il commercio non è equilibrato se le regole del gioco, fiscali, ambientali, lavorative, sono ingiuste e unilaterali come la manipolazione del valore dello yuan, la valuta cinese. Alcuni economisti suggeriscono l’attivazione di un protezionismo intelligente, fatto di barriere giuridiche extra doganali, capace altresì di disincentivare l’utilizzo degli avanzi di bilancio per fini di influenza politica, un problema che riguarda la Cina, e in Europa coinvolge la Germania.

La lotta tra la grande potenza finanziaria, economica e tecnologica americana e il suo avversario orientale ha un campo di battaglia grande quanto il pianeta. La globalizzazione libero scambista è squilibrata, non funziona, impoverisce una parte crescente del mondo. Rende l’Europa una periferia senza prospettive, non garantisce libertà, benessere, sviluppo. Non sono in gioco solo i dazi, la finanza e la tecnologia, ma un assetto del mondo che divide l’umanità in prede e predatori.

ROBERTO PECCHIOLI