IL RETROPROGRESSISMO

 di Roberto PECCHIOLI

Sanno che cosa possiamo pensare, con quali parole dobbiamo esprimerci, conoscono il Bene e combattono il Male. Sono i forzati del progresso, vivono in una nuvola rosa di buoni sentimenti, tolleranza, giustizia, accoglienza. Crociati laici dell’Amore con la lettera maiuscola, avversari implacabili dell’odio- sempre altrui – sono diventati una malattia sociale degenerativa. Riempiono di melassa i loro otri nel momento stesso in cui impongono nuovi reati d’opinione. Organizzano commissioni parlamentari tese a estirpare l’odio, ovvero un sentimento, prescrivendo, meglio imponendo per legge la corretta agenda interiore del buon cittadino globale. Un saggio amico affermava di preferire i malvagi agli stupidi. I primi possono smettere di fare il male, il cretino è per sempre.

La prevalenza del cretino fu un sapido, profetico best seller degli anni 80 di Fruttero & Lucentini, uno scintillante manuale di autodifesa e offesa contro gli sciocchi. Oltre trent’anni dopo, siamo immersi non nella prevalenza, ma nella dittatura universale di uno speciale tipo antropologico, lo stupido soddisfatto progressista Scrivevano i due autori torinesi: “Una società che egli si compiace di chiamare molto complessa gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per realizzarsi.”

Il problema, drammatico, è che il sedicente progressismo è in realtà il suo contrario, produce veleni a ritmi industriali e si risolve in regresso individuale e collettivo. E’ sotto gli occhi di vuol vedere e ha orecchie per udire. E’ il retroprogressismo, un Giano bifronte che guarda innanzi, ma cammina all’indietro. La sua creatura favorita, la più drammaticamente regressiva, è il politicamente corretto. Nuovi psicoreati vengono repressi da un’efficiente psicopolizia in servizio permanente effettivo, angelici strumenti di coercizione mentale.

Si diffonde una sottocultura dell’offesa, una retorica dolciastra, tossica che impone significati, pensieri, sentimenti e ne proibisce altri. Una programmazione neurolinguistica consapevole del grande valore simbolico delle parole, che si insinua nelle pieghe della coscienza, riformulandola per sensi di colpa, convincendola di una cattiveria interiore da sanare con un linguaggio nuovo, edulcorato sino al diabete mentale. E’ la volgarizzazione postmoderna dell’hegeliana coscienza infelice in lotta per diventare “anima bella”. Il catechismo della correttezza politica è l’ideologia chiave del retroprogressismo, tradotta in morale pubblica obbligatoria, asfissia delle idee, restrizione, censura.

Trascina con sé il disprezzo per qualunque elemento che assicurava coesione sociale, continuità, stabilità. Il progresso incede per obliterazione, rimuovendo ogni traccia come un coscienzioso assassino distrugge gli indizi del delitto. Il suo nemico è nella nostra mente: un sinistro meccanismo di rimozione e decostruzione. Pensiamo alla sostituzione del termine sesso – riservato alla sfera dell’atto materiale, “fare sesso” – con genere. Non abbiamo più un sesso, parola legata alla natura, ma un “genere”, lemma prestato dalla grammatica, che richiama piuttosto la scelta autonoma, l’equivalenza. Uguaglianza ossessiva perseguita come equivalenza, ecco l’insidiosa follia retroprogressista politicamente corretta. Non abbiamo più diritto a esprimere giudizi di merito, stabilire o solo immaginare gerarchie di valore su persone, condotte, idee, civiltà. Preferire, distinguere diventano atti empi da colpire legalmente, rieducando i colpevoli a partire dalle parole, caricate di negatività (esempio: maschilismo), prescritte come buone e corrette (femminismo) o neutralizzate per escludere ogni giudizio implicito (nero, omosessuale, extracomunitario).

Alla fine, emerge un’intollerabile limitazione della libertà, un proibizionismo che nega in radice l’immagine di apertura della mente progressista. Retroprogressismo, appunto. Non è progresso sdegnare la normalità. I genitori non sono più “naturali”, ma biologici, con disprezzo evidente per il termine, che evoca, nei progressisti, un elemento non controllabile, originario, fastidiosamente immutabile. Tutto, nella narrativa retroprogressista, deve essere malleabile, mutevole, intercambiabile. Se l’essere umano di sesso maschile è portato a esibire la forza, mostrare decisione, protezione del territorio e della famiglia, va rieducato. La natura ha agito male, va rimodellata secondo un’idea del bene fatta di equivalenza, assenza di conflitto, dunque di dibattito.

E’ il perfettismo di cui parlava Augusto Del Noce, convertito in costruzionismo per cui non vi sono dati o fatti naturali, tutto è una costruzione sociale e culturale del potere, da smascherare e ribaltare. Neanche si accorgono che esercitano in maniera opposta lo stesso imperio indiscutibile a cui imputano l’oscurità del passato. L’accecamento prosegue negando la verità di ciò che vediamo con gli occhi: maschio e femmina non esistono, la maternità è un’imposizione, il matrimonio non è l’unione tra uomo e donna eccetera. L’uguaglianza a cui erigono altari viene rovesciata nel suo opposto, l’isonomia, la parità davanti alla legge, è derogata nell’insensato principio della preferenza di genere. Colpire una donna, da parte del marito o compagno, è atto più grave del suo opposto e comunque meritevole di una pena più severa rispetto alla violenza commessa su persone dello stesso sesso, pardon genere.

La società civile regredisce clamorosamente, in balia di principi del genere. Sconcerta il disprezzo per ogni identità. E’ ammesso solo un globalismo cosmopolita in cui non esiste neppure più l’umanità, ma la semplice moltitudine. I nuovi valori sono diffusi soprattutto tra i ceti più elevati. Ramiro De Maeztu affermava che solo i ricchi possono permettersi di non avere una Patria. Non dobbiamo più essere qualcosa, uomini, donne, italiani, cinesi, mariti, figli, operai, intellettuali, commercianti. Essere qualcosa significa unirsi in comunità, gruppi sociali, interessi. Il retroprogressismo, ideologia delle oligarchie tese a possedere tutto, anche la mente, scredita diritti sociali e appartenenze in nome dei diritti “civili”, ovvero i capricci, i desideri, i vizi soggettivi e l’uguaglianza nel consumo, il cui limite sta nella disponibilità di denaro. L’unica disuguaglianza ammessa è quella del portafogli.

Poiché da migliaia di anni il miglior modo per dominare è alimentare le divisioni, divulgano il virtuoso mito della concorrenza. Nei fatti, è il mezzo più semplice per mettere gli uni contro gli altri. Risultato? Uomini contro donne, padri contro figli, lavoratori contro disoccupati e poi in lotta per le briciole lanciate dagli iperpadroni. Chi resta indietro è colpevole, non ce l’ha fatta, alla faccia del progresso, dell’uguaglianza e delle anime belle. Sciacalli in pelle d’agnello. Privo di coscienza comunitaria, orfano dei principi ma gonfio di mode, desideri, ambizioni, invidie, il retroprogressista finisce nel narcisismo. Contempla se stesso, l’unico che abbia il diritto di giudicare. Cerca di piacersi, darsi ragione, sfuggire responsabilità e decisioni per non sciuparsi.

L’emozione, la sensazione istantanea, è il grande obiettivo.  L’assenza di principi enfatizza l’emozione, la passione passeggera, la condizione liquida descritta da Zygmunt Bauman. Ciò a cui non pensiamo è che il liquido è alla mercé del recipiente, alto, basso, di qualsiasi forma; il liquido si adatterà all’elemento esterno. Se manca il contenitore, il fluido scorre inevitabilmente verso il basso, si dissipa, evapora. Questo è lo stato della a-società disegnata dal retroprogressismo.

Iniziarono con una triade che proclamavano immortale, liberté, egalité, fraternité. Non hanno mai risolto l’arcano di saldare concetti estranei come l’acqua e l’olio, libertà ed uguaglianza. La povera fraternità, in un mondo di atomi identici, è schiacciata da un individualismo rivendicativo, ostile, tanto più animoso, come nella Fattoria degli Animali di Orwell, in quanto ciascuno pretende più uguaglianza di tutti gli altri. Un mondo di offesi permanenti, esilarante se non fosse invivibile. La libertà ha assunto il colore viola del livore. Si è liberi “da”, basta vincoli, niente figli, nessun padre, l’autorità è la bestia nera. Emancipati, liberati, individui assoluti, ovvero sciolti, corriamo all’impazzata. La meta è il viaggio, gli atomi si stancano e finiscono nella condizione di neutroni, particelle con carica pari a zero. Proprio l’obiettivo dei padroni del progressismo regressivo che ci regge. Gran progresso, per le donne liberate dal ruolo di madri imposto dalla società (mah!), potersi liberare senza limiti di cellule fastidiose che sarebbero diventate figli. Non interpelliamo il seminatore indesiderato, una volta detto uomo, non chiamiamo più aborto l’atto da compiere, ma interruzione volontaria di gravidanza. IVG, un acronimo come CGIL, ONU, INPS. E che formidabile progresso poter morire igienicamente (morte degna!) compilando il modulo per l’eutanasia.

Simbolo del retroprogressismo è un attrezzato obitorio con odore di disinfettante, biancheria linda, metallo lucidato, pavimenti a specchio. Sempre di morte si tratta. Anzi di fine vita. Il retroprogressismo, straordinario acrobata, è riuscito nell’impresa di rimuovere la morte. Per l’abolizione, si stanno attrezzando.  In compenso, hanno fatto implodere i pilastri della civiltà umana. Le nozze sono un retaggio dei secoli bui, la religione, che, al di là delle confessioni, è lo sguardo dell’uomo verso l’alto e l’oltre, è diventata una favola a cui non credono per i primi gli uomini di chiesa. Il progresso ha chiarito tutto, svelato le leggi fisiche, impugnato il bastone del dominio della natura.

Strano davvero che si viva nel disordine, nella perdita, nello straniamento e nell’insoddisfazione. Il progresso ha deluso, chissà che l’orgogliosa ragione avesse torto, come ipotizzò Massimo Fini in un libro che lo escluse dalla casta intellettuale. Cianciano di meritocrazia, ma idolatrano un’uguaglianza fatta di mediocrità e disimpegno. Odiano tanto la forza quanto la fortezza, degradando la civilizzazione in volontà d’impotenza. Hanno ucciso il padre, avvilendo il cinquanta per cento dell’umanità, il sesso/genere maschile, additato come violento, malvagio, violentatore seriale, oppressore per destino biologico. Procede la denaturazione dell’essere umano occidentale, cui viene negato qualunque legame con la natura, preclusa la relazione con il passato, l’anelito di identità comunitaria, l’istinto di trascendere se stesso.

Desideri, capricci, vizi ascendono al trono, ma la proibizione cambia soltanto bersaglio. Puoi drogarti nei rave party o nei salotti, ma guai se accendi una sigaretta. L’alcool scorre a fiumi, ma devi evitare le calorie, correre in palestra sul grottesco tappeto mobile. Il sesso è un obbligo sociale, non conta con chi lo fai, reale o virtuale, essenziale è che sia sganciato dalla procreazione e non siano ammessi limiti. Corriamo all’indietro; dopo aver creato tribù, poi comunità, siamo entrati in società: contratto, interesse, possibilità di recesso da qualsiasi legame. Ora regrediamo nel soggettivismo. Dio ha perduto la “d”, infine è morto, ma neppure il progresso se la passa bene. A giudicare dall’espressione della gente, il deserto avanza. Amavamo la nostra gente, la famiglia, eravamo orgogliosi del nostro mestiere. Contrordine, unico amore l’umanità, anzi no, la natura, l’universo, forse è meglio l’indifferenza. Sovrani di un io minimo eterodiretto: puro regresso, primitivismo travestito da liberazione.

Cercavamo la verità, abbiamo solo decifrato leggi scientifiche. Il metodo del dubbio transitato dal pensiero astratto alla quotidianità ha prodotto il relativismo, tutti i gatti sono grigi nella notte. Poi è caduto nel nichilismo, un pensiero per niente debole, in cui l’unica verità è la sua assenza e il significato è il nonsense.  Nave senza nocchiero in gran tempesta, il bersagliato homo sapiens occidentale è a pezzi. In compenso, è primatista di decostruzione, demitizzazione, campione di incredulità, convinto che tutto si equivalga in quanto nulla vale. Amiamo l’identico, ma poiché il bisogno di identità non può essere scacciato, la cerchiamo nelle mode, nelle tribù urbane, nelle sette, nei marchi. Sono qualcuno perché indosso capi firmati, porto mutande con il brand.

L’individualismo scade nel soggettivismo e precipita nella pozzanghera del bizzarro, dell’estremo. Non c’è più forma, così esaltiamo l’informe, l’eccessivo: purché sia nuovo, inusitato. Scriveva il Marino: è del poeta il fin la meraviglia. Dopo la meraviglia, sperimentiamo la trasgressione come modello di comportamento. Sotto il vestito, spente le luci del varietà, il nulla. L’arte si risolve in happening, creatività priva di centro, estranea alla bellezza, indefinibile poiché vige il divieto di giudizio.  La moltitudine, gregge indocile solo in apparenza, ama l’informe, il rizoma, esalta la quantità, si inebria di sorpresa, non di bellezza.

Le è sottratto anche l’amore per ciò che è proprio. Eravamo nomadi, nei secoli siamo diventati stanziali, con una famiglia, credenze, valori condivisi dentro comunità riconosciute. Torniamo zingari, viandanti solitari in cerca di emozioni nuove: bagaglio, legami, sentimenti ingombrano il cammino. Non ci interessa possedere qualcosa, una casa, un territorio, nemmeno degli oggetti da trasmettere ai figli, se ne abbiamo. Possiamo noleggiare qualsiasi cosa, domani anche l’automobile, un’abitazione provvisoria, gli apparati elettronici, metafora di generazioni in affitto, marionette di oscuri feudatari.

Qualcuno è proprietario di tutto, delle nostre vite, di quel che rimane delle nostre coscienze. Che importa, è così comodo. Sono padroni persino dei nostri quattrini, saldi nelle mani di chi comanda, disposto a restituirceli in modica quantità via carta di credito. A suo giudizio, se gli pare. Tutti progressi di cui andare fieri. Vincono le streghe di Macbeth. Predissero la rovina all’ambizioso tane di Cawdor, pronunciando nella tragedia dell’antitesi frasi apparentemente prive di senso. “Quando la battaglia sarà perduta e vinta”, “bello è il brutto, e brutto è il bello.” Viviamo il tempo dell’antitesi: ritmi, dissonanze anziché armonie sono la colonna sonora del presente. La famiglia muore, ma ne appaiono mille diverse; si disprezzano i legami, ma si riesuma la poligamia dei primitivi, ribattezzata poliamore, poiché le parole devono essere positive, narcotiche. Il pansessualismo si esibisce dovunque, ma diventiamo sterili, per scelta gay (allegra, giuliva!), deresponsabilizzazione, egoismo, immaturità, comodità.

Declina il reale, sale il virtuale. Moltitudine fa rima con solitudine; l’antidoto è lo sballo, storditi per non pensare. L’autorità repelle, ma non siamo mai stati tanto manipolati dall’alto, anzi da remoto, soldatini programmati per fare di buona voglia ciò che impone Matrix. La verità non esiste, contano l’approvazione, l’apparenza, l’opinione liquida, la sensazione. Domani è un altro giorno, si vedrà, faremo e penseremo quello che ci verrà imposto da un potere morbido, avvolgente, le cui prigioni hanno sbarre virtuali più solide di quelle materiali. Anche i sentimenti perdono terreno. Adesso pretendiamo empatia, emozione forte, adrenalina. Non siamo più comunità e nemmeno società, ma polveri sottili di folla decaduta a massa.

Immersi nel progresso, con i paraocchi degli animali da soma, andiamo “avanti”. La ritirata strategica maschera Caporetto, inverando la lapidaria sentenza di Charles Baudelaire: progressivo decadimento dell’anima, progressivo predominio della materia. O forse aveva ragione Max Weber, che attribuiva la popolarità inarrestabile dell’idea di progresso al bisogno di offrire un destino all’uomo svuotato di contenuto religioso. Missione compiuta e fallita, il progresso è regresso, avanti è indietro. La  battaglia è vinta e perduta: le streghe di Macbeth.