IL PONTE NON C’E’ PIU’! (un genovese)

di Roberto PECCHIOLI

Carlo è un caro amico che il venerdì dà una mano nei lavori casalinghi. Seguivamo sulla TV locale la diretta sulla demolizione del Ponte Morandi. Alle ore 9,37 si è fermato, ha contemplato lo spettacolo dell’implosione- pochi secondi di meraviglia tecnologica – e ha iniziato a canticchiare “il ponte non c’è più”, sull’aria di una vecchia pubblicità dell’olio Sasso. Il ponte non c’è più, o quasi, giacché le sue robuste fondamenta sono ancora lì, ai lati delle due sponde pietrose del torrente Polcevera. Quello che colpisce è l’allegria, quella di Carlo e quella percepita tra la gente, per le strade di Genova, una volta Superba, adesso colonia di Guayaquil, la città ecuadoriana di cui sono originari le migliaia di immigrati sudamericani residenti prevalentemente nei quartieri attorno al ponte. Allegria di naufraghi che si risvegliano da un brutto sogno, come il protagonista del carosello evocato da Carlo, ossessionato dalla pancia che scompare al risveglio. Anche l’olio Sasso, peraltro, antica eccellenza ligure, non c’è più nella storica fabbrica di Imperia.

Sotto il ponte Morandi le case sono state abbandonate e, al di là dei disagi e degli affetti di chi ci ha passato la vita, i proprietari sono stati risarciti con 260 mila euro per ciascun appartamento. Nessuno sul mercato avrebbe ricavato dalla vendita più di un terzo di quella cifra. Meglio per loro, naturalmente, ma intanto non riusciamo davvero a comprendere l’allegria cittadina. Strana nazione, l’Italia, in cui si festeggia non la ricostruzione, ma la demolizione di un manufatto, come glorifichiamo una rovinosa sconfitta bellica perché ci ha liberato di un regime applaudito freneticamente sino a poco prima della caduta. Cattiva coscienza o assenza di spirito civico.

Ricapitoliamo alcune tappe della triste vicenda del nostro ponte di Brooklyn. Ci dissero, a cadaveri ancora da recuperare e seppellire, che si sarebbe potuto ricostruire in nove mesi. Ce ne sono voluti dieci e mezzo per la sola demolizione, eccetto le possenti fondamenta e in attesa del lungo lavoro di rimozione di migliaia di tonnellate di detriti. Ci assicurarono che la società Autostrade (Benetton, per chi è di memoria corta) l’avrebbe pagata cara e i responsabili del crollo sarebbero marciti in galera. I tempi della giustizia sono lunghi, ma conosciamo solo un lungo un elenco di indagati- quasi tutti nomi eccellenti- che, ne siamo certi, ne usciranno bene. Un nostro proverbio avverte: i nesci (gli stupidi) si ammazzano, i re si abbracciano. Quanto al potente gestore, il quotidiano locale ha ospitato una dichiarazione di Salvini il cui succo è: piano con gli attacchi ad Autostrade s.p.a. Per una volta, il giornale non si è esibito nel consueto attacco al ministro dell’Interno, accogliendo le sue parole con religioso rispetto.

Fatto sta che siamo tutti felici per aver assistito in diretta TV all’abbattimento del viadotto. Un segno dei tempi, al di là della professionalità di chi ha realizzato un evento tecnicamente tanto complesso. Una nazione distrutta, una città divenuta un deserto (oltre 250 mila abitanti perduti in poco più di 40 anni, l’età di vita del ponte) non possono che applaudire una distruzione in più. Applausi anche per le soluzioni di viabilità provvisoria realizzate per evitare la paralisi cittadina, il blocco turistico della Liguria e la crisi drammatica dei porti. Peccato che siano state possibili per merito di altri abbattimenti, le enormi aree industriali dismesse di Sampierdarena e Cornigliano. In questa delegazione (a Genova i quartieri periferici si chiamano così) un’ampia strada ha preso il posto dell’ILVA, passata da diecimila dipendenti a meno di mille.

L’area sottostante il ponte caduto è un perfetto esempio di archeologia industriale, adatta come fondale di racconti gotici tra i resti di decine di stabilimenti. Un cimitero del lavoro con un nome su tutti, Mira Lanza, e il ricordo di lunghe fila di autobus carichi di lavoratori che transitavano sotto il ponte diretti verso aziende da tempo chiuse. Un mercato ortofrutticolo semivuoto al posto di una grande azienda di refrattari industriali, un centro commerciale anziché una raffineria del gruppo Garrone, il resto degli stabilimenti è morto di vecchiaia, come la città. Il sindaco, una persona per bene cui il governo ha messo in mano la patata bollente del ponte, davanti alle telecamere ha parlato di rinascita della città. Poi si è accorto di averla detta grossa, poiché non si rinasce distruggendo, si è corretto, auspicando rigenerazione.

Vogliamo credergli, io sono nato qui e non saprei vivere altrove, i genovesi – noi pochi rimasti, noi una volta felici- sono attaccati a questo pezzo di terra scoscesa come le patelle agli scogli, ma le prospettive non sono allegre. Dal crollo del ponte, abbiamo perduto anche la Ericsson, multinazionale informatica, le cui torri sovrastanti l’aeroporto (scalo cui si accede con una viabilità da terzo mondo) saranno oggetto di un’ennesima ristrutturazione e speculazione. Le grandi opere di cui abbiamo bisogno come dell’aria – Terzo valico, ne parlano da almeno mezzo secolo – e Gronda (la tangenziale che non c’è, unica tra le grandi città italiane) sono ancora lontane.

In compenso, Genova è stata velocissima ad accettare il progetto del nuovo ponte, bell’e pronto presso lo studio di Renzo Piano. A detta di architetti esperti, è il meno attraente tra quelli visti, ma in un colpo solo il buon Bucci ha zittito ogni polemica politica. Piano, acclamata archistar ultraottantenne, è genovese, così il ponte non sarà “foresto”, è vicino alla sinistra che ha saccheggiato questa città per oltre quarant’anni con la complicità delle sue famiglie più potenti (élites non lo sono, oligarchie nemmeno, solo gruppi di opportunisti nemici del rischio) ed è anche senatore a vita. Tombola. Ci saranno quarantatré stralli, uno per ogni morto nel crollo, così la coscienza è tacitata. Il progettista Morandi, al termine della carriera, segnalò i problemi della pila numero 9, ma chi ascolta un vecchio superato dal progresso tecnologico; qualunque lavoratore edile avrebbe potuto spiegare l’usura speciale delle costruzioni vicine al mare e ogni automobilista ha avvertito le vibrazioni di un manufatto sul quale transitavano da decenni le merci movimentate da tre porti, milioni di contenitori all’anno. Ma nessuno è responsabile e i costi, non c’è dubbio, sono e saranno a carico del contribuente.

Marco Bucci, primo sindaco di centrodestra da mezzo secolo e più, parla di rigenerazione. Per ora, si tratta di una volonterosa dichiarazione d’intenti in una città dove quel poco che cambia è in peggio o affonda nel ridicolo. Di recente è cambiato il nome di un casello autostradale: gli abitanti della delegazione di Prà non volevano che l’uscita, situata nel loro territorio, avesse il nome della vicina Voltri, su cui insiste un grande terminal portuale. L’attesa riforma del nome è stata fatta tra gli applausi. Prà, patria del saporito basilico con cui facciamo il pesto, è stata vendicata e il casello porta il suo nome. Questa sì che è rigenerazione. La promessa più recente assicura che il nuovo ponte, i cui lavori inizieranno dopo la cauta rimozione delle macerie, tra le quali forse ci sono polveri pericolose, sarà inaugurato la prossima primavera. Speriamo davvero: forse ci riusciranno, fondi governativi permettendo, per la concomitanza con le elezioni regionali del 2020. L’agenda della rigenerazione è scandita dai tempi della politica politicante locale, la quale ha visto decine di protagonisti condannati qualche settimana fa per malversazione di fondi. Poche polemiche, tante braccia allargate: c’erano tutti, destra, centro e sinistra.

L’altra sera, uscito alla ricerca di un po’ di refrigerio nel giugno rovente, in pochi minuti ho contato quattro giovani uomini, certamente provvisti di diplomi e lauree, correre in bicicletta per consegnare cibo di strada fornito dalle multinazionali del settore. Rischio, pochi soldi, nessuna qualificazione. Questo è il destino dei nostri ragazzi, sindaco Bucci. La rigenerazione non passa per un ponte demolito tra gli applausi di un pubblico di bocca buona, e neppure per la festa vera, quella sì giusta, per l’inaugurazione dell’opera ricostruita, ma per una Genova e un ‘Italia che non siano più matrigne con i loro figli, che non disperdano il patrimonio di conoscenza, lavoro, cultura, fantasia e bellezza lasciato dai padri. Non abbiamo bisogno di fattorini in bicicletta al servizio delle piattaforme multinazionali, sanguisughe del terzo millennio, ma di attivare le tante intelligenze come quelle capaci di buttar giù un ponte in sette secondi senza feriti e danni collaterali. Facciamo presto, però, o Genova morirà d’inedia e con lei tante altre parti di questa Patria che fa tanta rabbia.

Forse i più sinceri sono stati i tifosi delle due squadre cittadine, che, in barba a rinascita e rigenerazione, si sono invitati a vicenda con messaggi “virali” a radunarsi sotto il ponte “per cominciare nel migliore dei modi la prossima stagione calcistica “ovvero diventare parte integrante delle macerie. Il padre Dante sapeva già tutto e non lo mandò a dire: “Ahi genovesi, uomini diversi / da ogne costume e pien d’ogne magagna / perché non siete voi del mondo spersi?”