GIOVANI, IGNORANTI – E SODDISFATTI.

 

di Roberto PECCHIOLI

Puntuale come il primo freddo invernale, è arrivata la statistica internazionale dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sugli adolescenti. L’esito non è una sorpresa: in Italia diminuisce progressivamente la capacità dei giovani di leggere, capire un testo di media complessità, riassumerlo e spiegarlo. Cala anche l’abilità nella matematica e nelle discipline scientifiche; il declino è costante negli anni. Ne sanno meno di ieri, più di domani. Tiene il Nord, sprofonda il Sud. Tutto largamente prevedibile, come le conclusioni dell’Istat, pubblicate di recente, sull’inverno demografico: ogni anno un nuovo primato negativo.

Un diffuso settimanale conferma la condizione raggelante dei nostri ragazzi attraverso un’inchiesta che li descrive come dipendenti dal telefonino e dagli apparati elettronici, istintivi, intenti a condividere immagini sconce, a cominciare dalle proprie – si chiama sexting, pare che riguardi il 96 per cento dei millennials– e navigare su siti di violenza e pornografia.

Diciamola tutta: sono i nostri figli e nipoti, non potrebbero essere diversi. Sono come li abbiamo allevati, imitano, peggiorandole, le condotte che osservano, per conformismo, pigrizia, adesione ai folli modelli permissivi dell’ultimo mezzo secolo. Il potere che ci sovrasta – sempre liberale, liberista, libertario e libertino- ha ottenuto il suo scopo: generazioni di zombi, o se preferite di soldatini del consumo, macchine desideranti, soddisfatte dell’estensione indefinita di panem et circenses, nemiche della responsabilità, dell’impegno, indifferenti al domani. Sudditi sciocchi, schiavi paghi di catene invisibili agli occhi, come invisibile è l’essenziale.

Come sempre, la notizia, pardon la news, scivola via come l’acqua di un torrente: una breve lettura, un paio di salotti televisivi con gli immancabili esperti, i mille dottor Spock che, dopo aver creato il problema, ci insegnano come risolverlo. Noia, rapida dissolvenza, si passi al servizio seguente. Le classi dirigenti – formate in genere nella medesima sazia ignoranza – neanche si occupano di leggere i dati. Quanto a provvedere, cambiando le politiche educative, sociali e promuovendo valori diversi dal consumo e dalla libertà senza scopi, buio pesto. In Europa si limitano a cantare Bella Ciao. Forse salutano la sapienza smarrita e segnano un formidabile autogol agli esecrati sovranisti, meglio del povero Comunardo Niccolai.

L’Europa ci fa male,  E canta Bella Ciao, tragga il lettore le sue conclusioni.

Chi scrive sa che “il parlar è indarno”, che la china è troppo avanzata per essere arrestata, ma intende comunque levare la voce, lanciare un messaggio in bottiglia dall’isoletta abbandonata in cui vive con pochi sopravvissuti delle epoche buie di un’umanità bambina divenuta trionfalmente adulta perdendo i pezzi, dimenticando tutto in nome del progresso.  L’educazione dovrebbe preparare una personalità ad essere intimamente indipendente dal giudizio altrui e a fronteggiare nella realtà quelle situazioni in cui bisogna prendersi la responsabilità di tutto e per tutto pagare di persona. Indipendenza, senso critico, principio di responsabilità.

Sapete chi è il bieco reazionario autore degli sgradevoli pensieri citati? Uno scrittore sovietico, Sergei Averincev, per decenni docente nelle università russe durante il comunismo. Lenin fu sintetico e perentorio: studiare, studiare, studiare! Triste conclusione: stavamo meglio quando stavamo peggio.

Sappiamo che almeno la metà dei connazionali non legge ed è analfabeta funzionale. Tuttavia, è assai attiva sulle reti sociali, dove vomita volgarità, insulsaggini, insulti infarciti di svarioni grammaticali e ortografici che avrebbero inorridito i maestri elementari del buio passato non tanto remoto. Se c’è un tema su cui, per motivi opposti ai loro, concordiamo con la sinistra al caviale, è nella sfiducia nella saggezza della maggioranza. L’ignoranza è andata al potere con la sciatteria e la cattiva educazione, travestite da benefica liberazione degli istinti, fuoriuscita dall’ ipocrisia, autenticità. Il maggiore dei poeti biblici, Isaia, descrisse così la decadenza del popolo ebraico: “Darò loro per principi dei ragazzi, e degli effeminati domineranno su di loro.”

I poteri forti ci vogliono ignoranti e soddisfatti, plebi desideranti pronte a scattare al fischio del padrone. Ai giovani hanno propinato Greta, pasionaria ambientale che raggiunge la Spagna su un catamarano per la conferenza sul clima. Una buona causa manipolata per far pagare a tutti i disastri dello sfruttamento ambientale. Per il resto, che i giovani bevano sino all’alcolismo, si impasticchino, vivano nell’attesa dello sballo di fine settimana, si scambino foto porno che alimentano il fiorente mercato della pedofilia, non sappiano più leggere, scrivere e far di conto, come si diceva nell’interminabile medioevo da cui siamo usciti. C’è il computer, basta avere le dita e cliccare sui tasti. Tutto è a portata di digitazione, previo pagamento del favorevole, entusiasmante piano tariffario dei padroni delle reti, per cui la pubblicità mobilita gli idoli giovanili del momento. Il motore di ricerca, Google, porta dell’infinito, si incaricherà di correggere automaticamente gli errori di ortografia dell’utente e fornire la soluzione. Un bellissimo universo pret-a-porter, c’è di che essere soddisfatti, specie se non si hanno mai avuto esempi diversi e neppure si sospetta che ci possa essere un altro modo di vivere.

L’arte? Siamo tutti Bansky, il writer inglese sconosciuto, artista di strada. Di qui strade, stazioni ferroviarie, edifici, vagoni imbrattati ma intoccabili: è arte di strada, perbacco, lo hanno decretato altri esperti a fattura. Non riconosciamo più la bruttezza perché ci siamo assuefatti. I giovani sono le prime vittime per mancanza di alternative. Tocca rivalutare anche l’odiatissimo Edmondo De Amicis, dileggiato negli anni della contestazione. Il punto non è neppure restituire dignità al “buono” Garrone, cui divenne obbligatorio preferire il malvagio deviante Franti. Lo scrittore ligure, in un brano dell’esecrato Cuore, scriveva: l’educazione di un popolo si giudica innanzitutto dal contegno ch’egli tiene per la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la villania nelle case.

La campana suona per te, popolo italiano che hai rifiutato tutto e trasmetti ai tuoi pochi figli il nulla in cui vivi. Il linguaggio che usiamo quotidianamente è sempre più povero, pieno di oscenità, monosillabi, abbreviazioni. La lingua degli SMS e di whatsapp ha raggiunto la strada e, naturalmente, la scuola. Privati delle parole, non riconosciamo i concetti. Lo capì George Orwell, che svelò la mano del potere nel degrado dell’umanità descritto in 1984. La regressione giovanile spaventa, ma non è che il precipitato, l’esito naturale di ciò che (non) riceve come insegnamento, modello, principio. Imparare a memoria, che orrore. Il nozionismo, inutile e dannoso. Certo, non è essenziale ricordare la data della battaglia di Salamina, ma senza nozioni non si impara, soprattutto non si hanno gli strumenti per costruire una propria visione del mondo. Nela cultura scientifica, poi, si batte in ritirata prima di iniziare: senza codici, senza basi, non si può comprendere, né avanzare nella conoscenza. Un grande vantaggio per il potere.

Da sempre l’ignoranza popolare è il nutrimento di chi comanda. La servitù è spesso volontaria (Etienne De la Boétie). Nella versione contemporanea si nutre di un istruito analfabetismo in cui la scuola- strumento e complice del sistema- distribuisce diplomi e lauree a pioggia. Circa il 99 per cento dei candidati supera la maturità dopo aver schivato le bocciature, proibite di fatto nell’istruzione primaria. Nulla di strano che i più non sappiano leggere un testo, ancor meno capirlo, o fare calcoli senza l’aiuto dell’apposita app che ogni smartphone possiede di default. Il linguaggio globish è voluto: fa parte del bagaglio elementare della regressione, in cui meno parole si possiedono, meglio è. Se quelle poche ci proiettano nella globalizzazione attraverso il grottesco anglo americano da ghetto nero, meglio ancora. Il potere si frega le mani: chi non sa e non capisce è il consumatore ideale.

Cancellare ogni identità è il passo successivo. Perduto ogni riferimento comunitario, i più giovani, ammaestrati dal Gatto e la Volpe di sistema (di noi ti puoi fidar, cantava Edoardo Bennato) discendono tutti gli scalini. Affideranno l’autostima e il riconoscimento sociale o del gruppo ai marchi commerciali: possedere capi “firmati” è un’aspirazione molto diffusa, e chi se ne frega se abbigliamento ed accessori somigliano agli abiti laceri e stazzonati dei poverissimi di un tempo. Per possedere prodotti con il magico marchio molti non esitano di fronte al furto, alla svendita di sé fino alla prostituzione.

Il sistema impone di essere identici, ma anche diversi. La soluzione? Bizzarrie, eccentricità, trasgressioni sempre più finte e ogni volta più eccessive e, splendida moda, il tatuaggio. Con l’inchiostro sul corpo, diventiamo diversi da ogni altro, siamo, per così dire, caratterizzati come unici. Prossima fermata, l’accettazione del codice a barre personale e l’impianto corporeo di chip a radio frequenze. In più, il tatuaggio dà l’imperdibile sensazione post moderna di costruire se stessi, l’autocreazione, ambizione transumana.

Tutto si tiene; l’ignoranza è la premessa. Chi sa, pensa. Chi pensa mette in dubbio, critica, ragiona. Pessimo consumatore, il peggiore cittadino globale. I ragazzi non lo sanno, ma questa è la polpetta avvelenata che consumano ogni giorno sotto forma di permissivismo, libertà “da”, lassismo, scatenamento degli istinti, banalizzazione sessuale, consumo di sé nei paradisi artificiali. Che meraviglia fare “ciò che si vuole”. Peccato davvero non avere più gli strumenti per comprendere che è quel che vuole il potere sovrastante. Non lo sanno, sembra non interessare neppure: ci si lascia vivere, siamo al mondo, divertiamoci. Che cosa sia il divertimento, poi, non si sa.

Posto che il gioco è un aspetto permanente dell’animo dell’homo ludens, da non demonizzare, ma indirizzare, pare che tutto, per le ultime generazioni, ruoti attorno al concetto di vacanza. Il termine significa assenza, transizione; è sempre stato un momento, la fase in cui si prende fiato per continuare la strada. Non può essere un fine, obiettivo della vita. Oltretutto, vivere per la vacanza, ovvero per l’assenza, significa sprecare la vita, destituire di importanza gran parte di essa. Vacanza è diventato abbandonare le occupazioni consuete per scatenarsi in un “altrove” in cui non conta lo spazio. Il tempo è riempito (consumato?) da atti compulsivi, rituali di massa, da fermare fotografandoli e condividendoli, come si dice, sui media sociali. Il premio immediato sono gli attesissimi “mi piace”, il “rinforzo” celato nell’animo è l’invidia altrui. A nostra volta, non ci peritiamo di insultare chi “non ci piace”, liberando un odio intriso di intolleranza, incapacità di riconoscere le ragioni altrui, ignoranza e sguaiataggine.

A scuola, immaginiamo la fatica degli insegnanti seri, la disillusione, la difficoltà di rispondere alla fatidica domanda: a che cosa serve questa materia, questa conoscenza? A nulla, per la mentalità strumentale, una perdita di tempo colossale. Infatti si aboliscono la storia e la geografia (dove sarà Buenos Aires, chi era Mazzini?) ma l’eminente ministro Fioramonti propone l’ora di ambientalismo. Immaginiamo la gioia di molti studenti: un’altra occasione di schiamazzi, possibilità di farsi i fatti propri, attaccarsi all’adorato telefonino, sostituto della famiglia, tramite con l’universo, oggetto transizionale privarsi del quale può sfociare nel dramma.

Ripetiamo: che colpa hanno, se sono come noi li abbiamo de-costruiti? La decostruzione è la prestazione culturale cui ha lavorato con accanimento la classe intellettuale. L’esito è sotto gli occhi, missione compiuta.  L’impresa di demolizione Modernità s.p.a. ha conseguito il suo scopo, fa profitti crescenti, si quota in borsa.

Su un muro della nostra città resiste da tempo un graffito accompagnato da un cuoricino stilizzato. C’è scritto “ti lovvo”. Fa insieme rabbia e tenerezza. L’autore, o autrice, esprime il più bello dei sentimenti, l’amore, nella sua forma totale, adolescenziale, senza se e senza ma. Ma ha bisogno, per esprimerlo, o forse per dimostrare all’amata/o di essere proprio lui, di una parola che non esiste, una grottesca caricatura, un simil inglese (love) scritto all’italiana. E’ la fotografia in chiaroscuro di una generazione allo sbando. Vuole amare e non possiede più le parole per dirlo. Non ha riferimenti, abbiamo tolto, noi, i padri, i punti di riferimento.

Ladri delle nuove generazioni, noncuranti seduti in poltrona, ci lamentiamo perché i figli non sanno più leggere né capire. Vagano alla cieca, armati dello smartphone che abbiamo regalato noi, della carta di credito fornita da noi, dei modelli che noi abbiamo approvato, dell’incultura chiamata liberazione dalla fatica di apprendere, dal fastidio di ragionare con la propria testa, dalla paura di essere o peggio apparire diversi.

Nel Malpensante, Gesualdo Bufalino scriveva che i giovani hanno mangiato i vecchi. Quanto a digerirli…