Genova, l’ex Superba: l’Italia di domani.

di Roberto Pecchioli

Fummo quel che voi siete, sarete quel che noi siamo. Così è ancora scritto all’ingresso di qualche vecchio cimitero. Scusandoci per il funebre paragone, tale è la condizione della città di Genova, ex Superba, ex Grande Genova. Allo stesso modo in cui la città ligure fu avanguardia in Italia, dall’unità sino al dopoguerra, da circa mezzo secolo si è trasformata nel laboratorio a cielo aperto che anticipa, in un triste esperimento, il declino nazionale.

Il primo dato, raggelante, è quello sulla popolazione: dal censimento del 1971 – che aveva già registrato segnali negativi iniziati qualche anno prima – ad oggi Genova ha perduto circa 230.000 abitanti. Come se Padova o Messina non esistessero più, inghiottite da un terremoto demografico senza pari. Il comune non raggiunge i 600.000 residenti, e le località limitrofe, quelle che possono essere considerate prima cintura della città non superano i 60.000, più o meno come nel 1971. Il tasso di fertilità delle donne genovesi non arriva allo 0,7 per mille, un terzo di quello necessario ad assicurare il ricambio della popolazione.

Maccaia e“maniman”, le due emme che sono emblema della Superba forse ci hanno messo del proprio, ma sono sempre esistite, anche quando la vecchia Repubblica dominava i mari e faceva da banca ai re di Spagna. La maccaia è quel particolare tempo umido, tendente al caldo, con cielo moderatamente nuvoloso portato dal vento di scirocco. Nella splendida canzone di Paolo Conte Genova per noi , la maccaia è chiamata “scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”; inclina all’inazione ed a lente passeggiate in riva al mare. Maniman, il vero dramma dell’animo genovese, è parola intraducibile, qualcosa come “non si sa mai, chissà se ne vale la pena…”. Esprime il carattere di questa città, un andamento circospetto e guardingo, la paura di fare, osare, rischiare. Per timore di sbagliare- o di rimetterci – si finisce per restare fermi, tanto oggi è maccaia.

Dunque, i genovesi hanno praticamente rinunciato a riprodursi, chissà mai come sarà il futuro, del resto in secoli diversi evitarono di diventare una grande potenza e si limitarono ad un destino da usurai. Costruirono palazzi di bellezza indicibile e ricchezza sconvolgente, i Rolli, ognuno una galleria d’arte. I discendenti delle dinastie della repubblica aristocratica li hanno imitati investendo fortune immense nei palazzi d’abitazione, in genovese gli “sciti”, gli appartamenti. Ricchezza ferma, rendita. La banca principale, la Cassa di Risparmio Carige erede del grande Banco di San Giorgio che aveva in pugno intere dinastie è avviata al fallimento – o ad un drastico ridimensionamento – sepolta da almeno 800 milioni di crediti insoluti e da una dirigenza che ha assaggiato i disagi del carcere cittadino di Marassi. Era un fiore all’occhiello, e partecipa a Banca d’Italia per circa il quattro per cento.

Recentemente, un giornale nazionale rilevava che nella zona dove storicamente nacque e prosperò l’Ansaldo, e con essa fin dalla metà del XIX secolo la grande industria, ci sono una strada a scorrimento veloce ed un centro commerciale. Undicimila operai prima, undicimila immigrati adesso, stipati a Sampierdarena, ex Manchester italiana, dove si formarono la prima pubblica assistenza, le mutualità operaie, socialiste e cattoliche, ed una vivace vita culturale teneva aperti almeno tre teatri di notevole bellezza.

L’Università genovese tradizionalmente eccelleva nell’ingegneria navale, nell’economia e nel diritto marittimo e della navigazione, ma qui insegnarono filosofi come Ugo Spirito e Michele Federico Sciacca e si formarono poeti come Sbarbaro, Eugenio Montale e Giorgio Caproni. Il livornese scrisse liriche bellissime sulla città, e sono splendidi alcuni versi de L’ascensore “Quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo”. L’ascensore che porta a Castelletto, lo spettacolare belvedere dal quale si osserva con stupore la bellezza schiva di Genova, è un altro dei simboli del declino. Era un elegante manufatto di legno intarsiato e specchi lavorati, che portava, davvero, in paradiso. Oggi è un dozzinale ascensore che sa di montacarichi e di umidità.

La Chiesa genovese, nel cui passato spiccano santi e sante, è passata dal grande cardinale Siri ed allo stesso don Gianni Baget Bozzo a celebrare don Andrea Gallo, il defunto prete ultra comunista che ammise di aver fatto abortire alcune donne e che disse di credere nel vangelo di Fabrizio De André. L’ultimo frutto avvelenato del suo sinistro potere è l’attuale sindaco uscente, Marco Doria, che della grande dinastia genovese di cui è rampollo conserva solo il cognome, oltre, naturalmente, ad un rispettabile patrimonio immobiliare.

Basterebbero queste note per allarmare il lettore: capitale del crollo demografico, antesignana della deindustralizzazione dopo essere stata capofila dell’imprenditoria nazionale, travolta da ondate di immigrazione straniera che hanno sfigurato prima il vecchio centro storico, i caruggi, con i nordafricani, poi parti imponenti del Ponente e della Val Polcevera con i sudamericani. Immigrati neppure “sostitutivi”, giacché il tessuto produttivo cittadino è andato degradando da quasi cinquant’anni. Chi ha tentato di proporre qualcosa di nuovo, come l’ “industria pensante” al posto di quella pesante è stato deriso ed è storia di questi mesi l’abbandono di colossi tecnologici come la svedese Ericsson ed il ridimensionamento, in loco, della Marconi. La conseguenza è la fuga dei giovani più dotati , fin dall’Università, poiché molti genovesi benestanti  preferiscono che i loro figli (unici) si laureino altrove.

Lo stesso orgoglio operaio è in rotta: chiudono le industrie, chiudono i battenti le scuole professionali che furono invenzione e vanto della Genova d’antan. Forse non è un caso che il quotidiano locale si chiami Il Secolo XIX. A proposito, se ne stampavano cinque, di giornali, in città. Sopravvive solo il Secolo, che fu dell’Ansaldo e dei Perrone ed è oggi nell’orbita della torinese Stampa. Diffondeva non meno di centotrentamila copie, ora si dibatte tra le 50 e le 60 mila. Il quotidiano cattolico Il Cittadino, tanto caro al cardinal Siri, è un settimanale semiclandestino della Diocesi, sempre meglio dei suoi tristi ultimi anni, in cui era offerto in omaggio ai barbieri, per cui si poteva scegliere, nell’attesa, tra la sua lettura e sfogliare i giornali erotici dell’epoca.

Poi c’è il porto e l’economia del trasporti. Chi ha i capelli bianchi era bambino quando si iniziò a parlare di Terzo Valico, per dotare il porto di un’infrastruttura in grado di accelerare transito e trasporto delle merci. I lavori sono ancora a mezzo, tra contestazioni delle popolazioni locali, contrarie, e finanziamenti che mancano per la debolezza politica della città. Sono lontani i tempi in cui Paolo Emilio Taviani dominava la politica ligure, in consociazione con l’ampia fetta di città socialcomunista, che, comunque, dette personaggi di notevole livello, il sindacalista Novella, Gelasio Adamoli, Pippo Machiavelli, lo stesso Pertini, savonese, che diresse per oltre vent’anni il quotidiano socialista Il Lavoro.

Il porto è stato fatto a fettine, ognuna delle quali in mano ad un terminalista. Lo strapotere dei “camalli”, gli scaricatori della mitica Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie è stato colpito al cuore, ma passare da sette-ottomila soci a settecento è una sconfitta generale. La categoria degli spedizionieri, fiore all’occhiello dell’imprenditoria diffusa, contava sino ad una ventina d’anni fa su almeno cinquecento aziende e migliaia di dipendenti. Una dozzina almeno erano davvero grandi: oggi sono diminuite di due terzi e sono quasi tutte piccolissime, ridotte alla feroce gelosa reciproca, ad una concorrenza al ribasso che può intendere solo chi vive nel regno del “maniman”: sospettosità, paura dell’altro, vecchie ruggini, nessun tentativo di consorziarsi. Risultato, miseria, disoccupazione, e, di recente, il suicidio di un giovane che temeva il licenziamento per un errore nella gestione di una polizza marittima di carico.

La grande tradizione di porto passeggeri è stata ereditata dal sistema delle crociere, ma, incredibilmente, l’armatore più grande, quello che portò nel mondo il nome di Genova, Costa , ha come terminal Savona ed è comunque in mani straniere. In altre stagioni, Angelo Costa, “Angiulìn”, fu per decenni il presidente di Confindustria nell’Italia che avanzava sino a diventare la quinta potenza industriale.

Allora, Genova era sede europea delle multinazionali petrolifere Shell e Esso, e l’ingegner Cazzaniga, l’amministratore, era tra gli uomini più influenti d’Italia, come l’industriale e finanziere Giamba Parodi, consigliere d’amministrazione di decine di industrie e banche tra cui la Banca d’Italia, il quale lasciò, alla sua morte, una collezione di pittura degna dei grandi musei. Unico cammeo tra tanta paccottiglia, l’Acquario, felice intuizione, occorre dargliene atto, di un politico altrimenti mediocre come Claudio Burlando, ex sindaco e poi ministro e governatore della regione. Tuttavia, l’acquario da solo non può salvare le sorti di una grande città, e nei giorni festivi troppi commercianti, forse per la maccaia, chiudono bottega: tombola.

Il panorama di deindustrializzazione è desolante, non si riesce ad abituarsi al vuoto ed al degrado di tante aree. Reggono i cantieri navali, per merito di commesse pubbliche e delle nuove gigantesche navi da crociera. Dall’area dell’aeroporto è scomparsa la Piaggio, storica azienda che ha trasferito nella zona di Albenga il suo prestigioso settore delle costruzioni aeree. Al mattino, i pullman aziendali trasportano operai e tecnici a oltre ottanta chilometri di distanza, in un’area aeroportuale da cui per anni è atterrato o decollato solo qualche volo privato, oltre ad un deserto volo Roma Albenga, che i maligni chiamavano l’aereo di Scajola, il ministro originario della zona.

Lo stesso aeroporto, che potrebbe essere infrastruttura decisiva per il turismo ligure ed importante supporto delle attività marittime, ha un traffico dai numeri imbarazzanti, inferiori anche agli scali di provincia. Nel recente passato si mormora che siano stati rifiutati colossi del settore cargo e non ebbe migliore accoglienza qualche avance di una Ryanair all’inizio del suo successo. “Maniman”, come sempre. Anche molti consolati delle nazioni più importanti del mondo hanno lasciato Genova, sostituiti dalle legazioni degli Stati d’origine delle comunità immigrate.

In compenso, Genova pullula di centri commerciali e l’aspirazione di troppi giovani qualificati diventa diventarne commessi, e dispone di diversi centri direzionali dai grandi volumi con larghi vuoti e tanti locali invenduti. Restano, quelli sì, i segni di un’antica ricchezza nell’imponenza di alcuni quartieri, la grande bellezza naturale del Golfo e l’arte di secoli. Ne restano colpiti i turisti nei punti panoramici, Castelletto, Carignano, la terrazza della Torre Piacentini, il grattacielo che fu a lungo il più alto d’Italia.

Non rimane che la nostalgia canaglia per una città che ha perduto ogni primato e che si chiamò Superba. Con quel nome, operò per decenni un teatro di varietà finito con gli spogliarelli e poi chiuso, ricavato nei fondi imponenti del più lussuoso albergo genovese, il Columbia dinanzi alla stazione ferroviaria Principe. Anche il Columbia non c’è più, l’edificio è stato riconvertito ad attività universitarie.

Questa è Genova , quella era la Superba: la fotografia in chiaroscura di una nazione che fu e che non è più. Se è vero, come affermano i sociologi, che Genova anticipa di una generazione le tendenze nazionali, venghino, italiani, venghino, facciano un viaggio nel futuro che li aspetta. Abbiamo, tra l’altro, un cimitero monumentale, meta turistica. Si può iniziare da quello, i marmi di ieri , le miserie di oggi. Tra pochi mesi si vota per il sindaco, ma che importa, giustamente, agli altri italiani, e poco interessa, peraltro, anche a tantissimi genovesi. Da mezzo secolo, vincono sempre gli stessi, i ben remunerati esecutori testamentari e becchini di quella che fu una gran città. Evidentemente, questo vogliamo, una lenta agonia per dissanguamento circondati da una bellezza antica che non abbiamo creato né saputo preservare. A Zena ed in tutta Italia.  Così sia.

ROBERTO PECCHIOLI