“I tassi d’interesse li fanno le banche centrali, non i mercati”

Pubblichiamo un post di Sergio Cesaratto, professore ordinario di Politica monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea, Università di Siena, e Antonino Iero, staff Direzione Regolamentazione e Studi Economici gruppo Unipol – Nel pieno della polemica di queste settimane, il commissario europeo Pierre Moscovici ha affermato: “Una manovra che aumenta il debito pubblico che è già 132%, il cui rimborso annuale ammonta a 65 miliardi l’equivalente del bilancio per l’istruzione, e che pesa 1.000 euro a italiano, non è bene per il popolo. È il popolo che paga ed è il popolo che rimborsa. Sono i più vulnerabili” (La Repubblica, 26 ottobre 2018). La ricetta di Moscovici, presentata come puro buon senso dalla maggior parte degli opinionisti, consisterebbe nell’abbattere il debito pubblico per abbattere la mole di interessi. O viceversa? Due cose oltre a tasse e funerale sono certe: le manovre di abbattimento del rapporto fra debito pubblico e PIL sono una fatica di Sisifo, in quanto spesso deprimono il denominatore più che il numeratore. La spesa per interessi non è una “variabile indipendente”, un fattore ineluttabile: i tassi di interesse li fanno le banche centrali e non i mercati, a meno che questi vengano lasciati operare liberamente.

Un altro commentatore, Carlo Bastasin (2018), nel passato spesso molto lucido, ha scritto che alla tesi che l’austerità sia stata responsabile dell’”aumento di circa 33 punti percentuali del debito pubblico tra il 2008 e il 2016, non corrisponde a un’analisi appena approfondita. Sono sufficienti pochi calcoli per verificare che l’aumento del debito è in larghissima parte attribuibile all’incremento della spesa per interessi sul debito stesso. Altri fattori più tecnici (tra cui quasi 4 punti di Pil in aiuti italiani ai Paesi europei in difficoltà) possono aver contribuito, ma è stata la tensione sui tassi d’interesse, causata soprattutto dall’incertezza sulla permanenza dell’Italia nell’euro, a far esplodere il debito”.

Più che con elevatezza del debito, Bastasin sembra prendersela con il timore di una Italexit. Ma il timore dell’Italexit dipende proprio dall’aumento dei tassi, gli spread ormai ben noti anche alla casalinga di Voghera: una volta superata una qualche soglia fatidica – i “pundit” dell’economia nel 2012 parlavano di un rendimento sui decennali al 7%– per un Paese non ha più senso ricorrere ai mercati, ma la solvibilità e la possibilità materiale di pagare stipendi e pensioni potranno essere garantite solo riappropriandosi della stampa della propria moneta. Insomma è tutta, e forse solo, una questione di tassi di interesse – e così è sempre stato, sin dall’origine dell’elevato debito pubblico italiano. Prendendo spunto da Iero (2018a), nell’esercizio che segue quantifichiamo il peso che ha avuto la spesa per interessi rispetto ad altri fattori nello spiegare l’andamento del rapporto debito pubblico e PIL negli scorsi decenni. Ci domanderemo poi se tutto questo è stato il risultato di circostanze ineluttabili, o se l’abnorme peso della spesa per interessi non sia stato il risultato di scelte deliberate o supinamente accettate e condivise.

It’s the interest rate, stupid
Abbiamo allo scopo periodicizzato gli scorsi decenni a seconda del regime di politica economica (Cesaratto 2018; Cesaratto e Zezza 2018a/b). La tabella 1 riporta la sintesi dei vari contributi alla dinamica del rapporto debito pubblico / PIL per ogni periodo e il loro totale nel periodo 1980 – 2017. I numeri esprimono l’aumento (segno positivo) o la diminuzione (segno negativo) del rapporto attribuibile ad ogni variabile nel periodo specificato (l’ultima riga non è altro che il totale di colonna). La tabella 2 esprime la media annua in ciascun periodo (elemento utile in quanto i periodi non contengono il medesimo numero di anni). Per metodologia e fonti rimandiamo a Iero (2018a).

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È il tasso di interesse, bellezza!