DECRESCITA, L’IDEA “GIUSTA” CHE NON FA SOGNARE

di Roberto Pecchioli

L’idea della decrescita ha sempre esercitato un certo fascino sull’autore di queste note. Depurata dai cascami neo marxisti e dallo sgradevole retrogusto di un moralismo da coscienza infelice, ci è sempre parsa una soluzione interessante ai problemi di un a società drogata di economia, tornaconto, malata di illimitato, grettamente materialista, rosa dall’individualismo. Soprattutto ci hanno regalato speranza dinanzi al trionfante labirinto liberista gli scritti del prete croato americano Ivan Illich, le sue idee sulla lentezza, la convivialità, la società “vernacolare”, ricentrata su se stessa, ri-localizzata, lontana dai ritmi frenetici della crescita dell’avere nell’indifferenza per l’essere.

Per questo ci ha infastidito un articolo apparso di recente sull’Espresso, il periodico più borghese e più progressista che ci sia. L’articolista, uno con il naso dritto, carico di supponenza e malcelato disprezzo intellettuale – Marcello Veneziani parla di razzismo antropologico – si compiaceva del declino della decrescita, che non riesce ad entusiasmare l’immaginario occidentale, consumista per definizione. Come direbbe Serge Latouche, uno dei pensatori di riferimento, la decrescita non è stata capace di ricolonizzare l’immaginario occupato dal consumo, dal mercato, dall’utilitarismo, dalla tecnologia di massa. Riflettendo meglio, tuttavia, dobbiamo dare ragione all’Espresso, sia pure per motivi contrari a quelli esposti.

L’occasione è stata l’illuminate lettura di un importante libro del secondo Novecento, Massa e potere, dell’ebreo bulgaro di lingua tedesca Elias Canetti. Il monumentale testo indaga in profondità il tema cruciale del rapporto tra le masse e il potere. Il merito dell’opera è di non utilizzare il metodo sociologico, o quello storico, ovvero un approccio intellettualistico, filosofico o psicologico, ma di servirsi delle risorse di un’immensa erudizione mitologica, etnografica, antropologica, in cui innumerevoli suggestioni e disparate letture confluiscono in una visione olistica dell’uomo. Canetti si è messo in ascolto di ogni uomo come voce reale, concreta e irripetibile in un’opera frutto di quarant’anni di lavoro.

Il suo verdetto, ricondotto al tema della presente riflessione, è chiaro: alle origini degli istinti della specie ci sono vari sentimenti e suggestioni. Una delle più potenti è quella dell’accrescimento. Dopo aver analizzato i vari tipi di massa, Canetti teorizza che all’origine dei comportamenti umani vi sono varie “mute”, ovvero gruppi di uomini – il termine proviene dal mondo primordiale della caccia – che si formano manifestando il senso di un’unità d’azione indirizzata ad una meta. Oltre alla muta di caccia, di guerra e del lamento (che esprime la reazione del gruppo di fronte alla morte di un suo componente), egli individua la muta dell’accrescimento. L’intenzione che la anima è “perché il gruppo o le entità cui esso è collegato, animali o piante, devono divenire di più.”

Una delle più essenziali qualità della massa di ogni tempo, scopre Canetti, è l’impulso ad aumentare. Nel numero, nella ricchezza, nel territorio, nelle possibilità. Si tratta dunque di una tendenza insopprimibile, un istinto profondo della specie umana. Il potere, l’altro piatto della bilancia dell’indagine, lo ha capito assai bene e si comporta di conseguenza, assecondando per i suoi scopi riflessi e istinti comuni alla stragrande maggioranza degli esseri umani. Di qui la presente fascinazione per la tecnologia, che apparentemente mette tutto a disposizione, il mondo ai nostri piedi, fa scoprire cose sempre nuove, asseconda la nostra smania di accrescimento, per di più con la promessa della “comodità” e della falsa gratuità con la quale cattura le masse, docili al comando del potere.

Crescere è una delle aspirazioni perenni della nostra condizione. Sul terreno economico sociale contemporaneo, dunque, a poco valgono gli avvertimenti, le obiezioni giudiziose, le controindicazioni provenienti da varie parti: vogliamo “crescere”, qualsiasi cosa ciò significhi in concreto. La decrescita diventa quindi una risposta insoddisfacente in quanto limitata all’ambito razionale o addirittura intellettuale, oltreché un’elaborazione specificamente occidentale. Le categorie della sociologia e dell’economia, prevalenti, anzi uniche nell’immaginario meta culturale della porzione di umanità di cui facciamo parte, si rivelano insufficienti anzi inservibili per affrontare i temi cui è connaturata la dimensione mitica, istintuale, antropologica Perciò la decrescita sarebbe una costruzione intellettuale astrusa, insufficiente, incomprensibile. Peggio ancora, giacché l’uomo è carne e sangue, oltreché intelletto, la decrescita non “cattura” in quanto non entusiasma, non fa sognare, non spinge verso una meta, individuale o collettiva.

Crediamo davvero che sia così, purtroppo. Ci aiuta ancora una volta l’opera di Canetti, in particolare il suo romanzo Die Blendung, l’accecamento, il cui titolo, approvato dall’autore, nella versione italiana è Auto da fé. Assai meglio l’originale, giacché la storia è quella di un uomo, il professore viennese Peter Kien, incapace di accettare la dialettica della vita, tumultuosa e imprevedibile, uno che si erge a puro intellettuale, si irrigidisce in una smania classificatoria e ordinatrice simboleggiata da una sterminata biblioteca che lo porterà all’autodistruzione, insieme al rogo dei centomila volumi posseduti. Nella personalità maniacale di Kien, Canetti ritrae la parabola di un mondo capovolto.

E’ l’immagine di una modernità interpretata come lotta dell’uomo contro i limiti e le costrizioni della natura, sino all’odierna sconfitta della biologia (rimozione della morte, negazione del genere naturale ascritto, sessualità contorta e invertita), nessuna limitazione all’attività economica e allo sfruttamento del mondo, consumo nelle varie accezioni del termine). Il processo della produzione è oggetto di una vera e propria venerazione. Scrive Canetti: “la ratifica della produzione affonda così lontano nel tempo che ogni tentativo di collocarla storicamente risulta inadeguato. L’Hybris della produzione risale alla muta di accrescimento”. Torniamo al punto di partenza, ovvero all’istinto di crescita, di sfida, di superamento che distingue il predatore Uomo dalle altre creature.

Sono in molti ad avere messo in guardia l’umanità dalle sue tendenze. Potremmo rinvenire alcune radici delle teorie di decrescita in Lev Tolstoj, John Ruskin, David Thoreau, Fiodor Dostojevsky. Tra i capi politici, spicca il concetto di semplicità volontaria del Mahatma Gandhi, figlio dalla cultura induista. In Italia è curioso ricordare la figura di Enrico Berlinguer, il capo comunista che tentò di dare dignità di programma politico all’idea di austerità, incontrando però l’ostilità dello stesso pubblico cui si rivolgeva. Al consumismo nascente ma già potente, coinvolgente, le masse collettiviste volevano partecipare, pretendevano la loro parte nel processo di accrescimento.

Con il lessico di Canetti, la muta di accrescimento, trasformata in muta di caccia, chiede di risolvere l’ancestrale problema della ripartizione. Un modo suggestivo di porre l’eterna questione sociale; “nei paesi capitalistici balza agli occhi questo aspetto della produzione: questa inarrestata moltiplicazione in ogni direzione. Nei paesi che attribuiscono particolare valore al proletariato, -ove sono impediti grandi accumuli di capitale nella mani di un singolo – i problemi della ripartizione fra tutti si pongono teoricamente sullo stesso piano d’importanza a fianco di quelli dell’accrescimento”. La soluzione post moderna – concentrazione di mezzi e capitali in pochissime mani – crede di risolvere il dilemma attraverso quella che Latouche chiama colonizzazione dell’immaginario.

Coloro che possiedono tutti i mezzi convincono (quasi) tutti gli altri riconducendo l’accrescimento alla dimensione dell’uso, del consumo, della comodità, nella rapida mutazione di gusti, nella disponibilità immediata a pagamento differito. Si impadroniscono delle nostre vite perché occupano la nostra immaginazione, invadono la sfera dei desideri, delle pulsioni, delle tensioni all’accrescimento e del godimento. Siamo loro debitori universali, non solo in termini monetari.

In quest’ottica, il pensiero della decrescita ha molto da dire ma, ammettiamolo, è poco attraente per l’immaginario collettivo, a meno di non cadere in un’oscura pars destruens. La decrescita ha un contenuto morale, l’ambizione di diffondere un desiderio di autolimitazione del consumo, dell’egoismo, delle stesse ambizioni. Tutti concetti invisi all’occidentale postmoderno. L’unica soluzione ammessa diventerebbe allora, anziché reinvestire le energie eccedenti nell’accrescimento, godere nel liberarsene, dissipare, sprecare in perdita a partire dalla propria vita. E’ la folle soluzione alla Georges Bataille, secondo cui non sussiste una tensione all’accrescimento, ma, al contrario, l’urgenza di espellere, scaricare, disperdere le energie eccedenti. Rimedio peggiore del male, poiché conduce alla consunzione, ad un altro estremo, l’assenza di limite nelle esperienze e scelte di vita, assecondare ogni pulsione ed istinto, specie nell’ambito sessuale e nei paradisi artificiali, autentici inferni etici ed esistenziali, in cui unica regola è l’assenza di freni.

Il rifiuto della crescita, in quella devastante prospettiva, si trasforma nell’esaurimento della vita per sovraccarico, cortocircuito, dissoluzione. La decrescita è ben altro, e possiede una sua dignità di svolta riflessiva per la ricerca personale e collettiva di una qualità della vita sganciata dall’ossessione per la crescita e dalla corsa alla produzione, al possesso e al consumo di merci. La visione del mondo cui occorre tornare ribalta i paradigmi correnti, togliendo il primato ai fattori economici. L’economia, afferma Latouche, è diventata una religione, dunque si rende necessario un pensiero “laico” che faccia “uscire il martello economico dalla testa”, insieme con la razionalità strumentale utilitarista.

L’universalismo di cui siamo banditori sciocchi è solo una creazione ideologica occidentale, anzi della tribù occidentale tesa ad imporre un imperialismo culturale. In Italia, avremmo forse dovuto ascoltare con maggiore attenzione il grido di Pasolini contro la distruzione della cultura popolare tra gli applausi delle sue vittime. Resta l’incapacità della decrescita di trasformarsi in speranza, simbolo, tensione positiva, proprio per quella sua connotazione apparentemente negativa: il meno al posto del più, il sospetto verso un nuovo che abbatte e travolge, il richiamo al buon senso antico, riciclo, riuso, riparazione, fino alle otto R di Latouche. Tutto giusto, sacrosanto, ma nulla che infiammi i cuori.

L’idea di tornare sui propri passi, riflettere, vivere eticamente non attrae la massa e non fa sognare. I lustrini del circo consumista, ci piaccia o no, ci riescono. Dunque, a credere all’antropologia culturale di Canetti, oltre la sociologia o la psicologia delle masse, non resta che una via: convincere attraverso una consapevole paura situata in un futuro prossimo. Ci prova l’ecologia, al di là di esagerazioni o errori clamorosi come quelli delle previsioni del Club di Roma tra gli anni 60 e 70. Pure, la verità è stata enunciata con forza da economisti e scienziati. Pensiamo a Vladimir Vernadskij, con il suo concetto di noosfera, terza fase dello sviluppo della Terra, in cui l’uomo è divenuto la più importante forza geologica. In economia, spicca Nicholas Georgescu Roegen, che dimostrò come l’economia non tenga conto della fisica, in particolare della termodinamica e dell’entropia, ossia del fatto innegabile che ogni attività produttiva (e naturalmente di consumo) comporta una diminuzione dell’energia disponibile. E’ stato elaborato il concetto di impronta ecologica, la misura dell’eccesso di sfruttamento delle risorse, tanto che per raggiungere lo standard occidentale odierno occorrerebbero risorse di tre, quattro, forse otto pianeti.

L’uomo è stato ricondizionato, fatto oggetto di un immenso progetto di architettura sociale teso a mutarlo dalle fondamenta, renderlo, letteralmente, altro da sé. Non ha ancora perduto l’istinto di sopravvivenza della specie. La paura non è mai un sentimento facile da evocare, è difficilissimo da maneggiare con equilibrio, ma l’accrescimento, il suo istinto di massa diventato concreto perseguimento, noosfera realizzata, quotidianità da incrementare programmaticamente, credenza tanto diffusa da diventare regola esistenziale, si è spinta ad un punto che mette in pericolo la continuità della specie e l’equilibrio della natura di cui siamo parte, nostro malgrado. Come la fisica quantistica comprese attraverso il principio di indeterminazione che l’osservatore è parte del fenomeno osservato, l’uomo deve recuperare un rapporto con l’universo che non sia di solo dominio, ma torni a essere, come sapevano gli uomini di ieri, rispetto e giustificato timore.

L’uomo faustiano chini la testa, e usi finalmente l’orgogliosa ragione per fermarsi. Anche questo è accrescimento. Elias Canetti, dopo aver analizzato i diversi tipi di massa e di “muta”, si concentra sulle dinamiche del potere. Oggi come ieri, le masse obbediscono a dei capi. Il potere è adesso nelle mani di un’oligarchia padrona della scienza, della tecnologia, dei mezzi di produzione. Per la prima volta nella storia, ha mezzi potentissimi per conquistare, penetrare, conoscere, plasmare dall’interno l’immaginario della massa. Non sappiamo come, non basta il richiamo debole della decrescita, ma quel potere va fermato, contrastato, rovesciato. Per questo, serve il risveglio da un sonno prolungato di quelli che Canetti chiama “cristalli di massa”, gruppi di uomini di buona volontà che contribuiscono all’orientamento delle masse. Il loro compito è immane: convincere di qualcosa che appare contro intuitivo, andare contro l’istinto della specie, giacché per avanzare davvero non c’è altra soluzione che tornare sui nostri passi. Crescere, forse, è decrescere.

 ROBERTO PECCHIOLI