DEBITO PUBBLICO: COME REGALIAMO I NOSTRI SOLDI AI “MERCATI”

di Michele Rallo

Debito pubblico, spread, mercati… Sono parole ormai entrate nel linguaggio comune, nella nostra vita quotidiana, che giornali e televisioni ci hanno convinto essere parte della nostra esistenza. Così come normale sarebbe – secondo quanto la propaganda subliminale ci suggerisce – che uno Stato subordinasse anche le più elementari esigenze dei suoi cittadini al volere di centri di potere stranieri.

Eppure, fino a non moltissimo tempo fa non era così. Negli anni ’70 il nostro debito pubblico viaggiava attorno al 50% del PIL e, soprattutto, era contratto solo con soggetti italiani. Com’è ancora oggi nel Giappone, che può permettersi un debito pubblico astronomico (il 250% del PIL) solo perché i creditori sono gli stessi giapponesi, che mai si sognerebbero di chiedere al loro governo di strangolare il proprio paese. Cosa, invece, che puntualmente avviene quando il debito pubblico di uno Stato è in mano a stranieri e, in particolare, alla speculazione finanziaria straniera, cioè a quella congerie che pudicamente viene chiamata “i mercati”.

E non solo il nostro debito pubblico era un fatto nostro, direi quasi di politica interna, ma erano previsti anche i meccanismi che impedissero che gli stranieri ne potessero acquisire anche una piccola parte. Quando si tenevano le famose aste dei titoli del debito pubblico ed uno stock di questi non trovava acquirenti, la Banca d’Italia (allora banca di Stato) era obbligata ad acquistare le obbligazioni invendute, che quindi rimanevano nella disponibilità del Tesoro italiano. Cosa che a tutt’oggi – apprendo dal sito di Maurizio Blondet – avviene in Germania, dove la Bundesbank è ancora tenuta ad acquistare i titoli di Stato invenduti, mantenendo così il paese al riparo dalle manovre della speculazione internazionale. E il famigerato spread – lo ricordo – non è altro che il differenziale fra gli interessi che la Germania paga per i suoi “bund” (calmierati dalla Bundesbank) e quelli che noi paghiamo per i nostri buoni del tesoro (decisi invece da “i mercati”).

Nell’arco di solo mezzo secolo – un attimo nella storia di una nazione – il nostro debito pubblico non soltanto è quasi triplicato percentualmente (siamo ad oltre il 130% del PIL) ma, soprattutto, è finito in mani straniere.

Come mai? Purtroppo non è possibile rispondere nello spazio di poche righe. Occorrerebbe fare la storia del sistema bancario pubblico in Italia e quella della sua infausta trasformazione in un sistema privatistico. Non soltanto la Banca d’Italia è ormai “centrale” (è cioè un istituto di diritto pubblico posseduto da privati) ma è stata svincolata da qualunque “influenza” da parte del potere politico. Cosa che avrà probabilmente evitato l’assunzione di qualche raccomandato, ma al prezzo – salatissimo – di privare il governo italiano di qualsiasi autorità nei confronti della istituzione che sovrintende alla politica economica del paese.

Orbene, benché la privatizzazione del sistema bancario italiano sia ufficialmente avvenuta nel 1992, i presupposti della “operazione” risalgono al 1981 e coincidono – guarda caso – proprio con l’abolizione della norma che obbligava la Banca d’Italia (non ancora privatizzata) ad acquistare i titoli del debito pubblico invenduti. Era il famoso “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia, deciso non dal parlamento italiano (che non votò mai quel provvedimento) ma da due singole persone, attraverso un semplice scambio epistolare. Per la precisione: il ministro del Tesoro del tempo “scioglieva” la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico nazionale, e il governatore della predetta Banca d’Italia ringraziava commosso. I due personaggi erano rispettivamente: Beniamino Andreatta, che fu tra l’altro “maestro” di Romano Prodi, l’alfiere della politica delle privatizzazioni; e Carlo Azeglio Ciampi, che sarà poi Ministro, Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica. [con personale soddisfazione ricordo di non averlo votato come Presidente della Repubblica]

Con quello scambio epistolare non soltanto si era avviata di fatto la privatizzazione del sistema bancario italiano, ma si era anche deciso che il nostro debito pubblico sarebbe stato consegnato nelle mani della speculazione finanziaria internazionale, e che i soldi per remunerare quei prestiti sarebbero stati in buona parte sottratti agli italiani (grandi sottoscrittori di BOT) e consegnati agli stranieri. I quali stranieri – effetto collaterale inevitabile – non si sarebbero accontentati dei rendimenti “politici” accettati dalla Banca d’Italia, ma avrebbero preteso interessi più alti, sempre più alti, tali da costringere lo Stato italiano ad indebitarsi sempre di più. La nostra “discesa”, le difficoltà, i problemi occupazionali, i primi richiami alla “austerità” – se andiamo indietro con la memoria – iniziano proprio da quel momento.

La verità è questa. Ieri gli interessi che lo Stato italiano pagava sui suoi debiti erano contenuti, restavano in Italia e servivano a ricompensare la capacità di risparmiare degli italiani. Oggi gli interessi sono incontrollabili; ed in parte cospicua vengono pagati ai “mercati” stranieri, alle grandi banche d’affari, ai colossali fondi d’investimento americani e, magari, a qualche miliardario “filantropo” che – in teoria – potrebbe utilizzare quei denari anche per finanziare l’invasione africana del nostro paese.

In sintesi, in estrema sintesi c’è tutto questo, c’è anche tutto questo dietro la guerra che i mercati e i loro valletti europei si accingono a scatenare contro l’Italia. Il debito pubblico è uno strumento che deve servire a mantenere l’Italia sotto ricatto, avviandola lentamente ma inesorabilmente verso un destino greco. Di conseguenza, il tentativo di utilizzare il debito pubblico proprio per evitare di finire come la Grecia è da lor signori considerato come un atto di guerra, di una guerra di liberazione.

I poteri forti sono nel panico. Devono assolutamente piegarci prima delle elezioni europee del maggio 2019. Altrimenti, l’esempio italiano potrebbe avere un disastroso (per loro) effetto di trascinamento in tutta l’Europa.