DALLO STATO NAZIONALE DEL LAVORO ALLA GLOBALIZZAZIONE DEL CAPITALE – di Luigi Copertino

Dallo Stato nazionale del lavoro alla globalizzazione del capitale

Il Labour in Inghilterra ha perso le elezioni surclassato dai tories proprio sui temi sociali. E’ l’effetto interno della Brexit. Dietro il dibattito intorno ad essa, infatti, si nasconde l’esigenza di protezione sociale espressa dai ceti medi e dalla classe lavoratrice che i conservatori hanno saputo intercettare meglio dei laburisti, nonostante che con Corbyn il Labour fosse tornato su posizioni più di sinistra rispetto all’epoca Blair. Non deve, del resto, meravigliare il fatto che i tories abbiano all’improvviso mostrato un volto, diciamo così, “sociale”. In Inghilterra c’è una antica tradizione conservatrice antiliberista risalente a Benjamin Disraeli. Si tratta del cosiddetto “conservatorismo uninazionale”, una forma di conservatorismo nazionale con ampie aperture sociali, che rappresentò l’ideologia profonda del Tory in diverse fasi della sua storia, per gran parte del XIX secolo, nell’immediato primo dopoguerra e poi anche per tutti gli anni ’50, ’60 e ’70 del XX secolo quando i conservatori difendevano lo Stato sociale introdotto nell’immediato secondo dopoguerra dai laburisti. Neanche con Churchill i conservatori furono integralmente liberisti ed anzi ammiccavano ad un certo interventismo statale “paternalista” in funzione della stabilità sociale attraverso una almeno parziale redistribuzione della ricchezza. Solo con la Thatcher i tories diventarono integralmente neoliberisti, abbandonando il vecchio conservatorismo per un “nuovo conservatorismo” che si riallacciava alle componenti libertarians serpeggianti nel Tory Party sin da quando nel 1912 esso assorbì il partito liberale unionista. Nel 2010, quando era ancora sindaco di Londra, Boris Johnson dichiarò di essere un conservatore uninazionale. Non a caso egli ha  ripreso i temi sociali di questa corrente conservatrice che, oltretutto, ha sempre guardato con diffidenza al progetto di unione europea.

Mentre, dunque, oltremanica prendeva forma la svolta di Johnson, in casa nostra, nel pieno della discussione parlamentare sul Meccanismo Europeo di Stabilità, 32 economisti di sinistra, contrari al Mes, hanno firmato un manifesto-appello rivolto al governo piddino-grillino chiedendo che l’Italia bloccasse, opponendo la sua non adesione, uno strumento finanziario pensato a tutto vantaggio del condominio franco-tedesco in Europa. Senza volerlo questi economisti hanno offerto un incredibile assist a Matteo Salvini il quale, infatti, durante la discussione parlamentare sul tema li ha ampiamente citati mostrando lo scollamento del governo rispetto alla sua cultura politica di provenienza. Per questo i 32 sono dovuti intervenire nuovamente su “Repubblica” per prendere le distanze dal capo della Lega ma al tempo stesso per pungolare ancora una volta il governo sedicente di sinistra affinché fossero fermate le trattative sul “Fondo Salva Stati”.

Quanto è accaduto in questi giorni ha evidenziato il fatto, storicamente certo, per cui il lavoro senza lo Stato resta privo di tutele a fronte delle spinte apolidi che da sempre animano il capitalismo specialmente nella sua versione finanziaria, quella oggi egemone nella fase terminale della modernità in passaggio alla postmodernità.

Guardando alla distanza, sotto un profilo storico, è innegabile che le classi popolari hanno conseguito grandi avanzamenti sociali soltanto all’interno della Stato nazionale mentre esse hanno iniziato ad indietreggiate con la sua destrutturazione. Sembra, tuttavia, che i 32 economisti non siano consapevoli di questo dato storico, salvo forse uno di essi.

Sergio Cesaratto, tra i firmatari del manifesto dei 32 contro il Mes, è forse l’unico tra i suoi colleghi ad aver compreso il ruolo svolto dallo Stato nazionale nella tutela e nell’innalzamento sociale dei ceti meno abbienti. Cesaratto infatti è autore di un piccolo saggio, reperibile sul web e sul suo sito personale, nel quale ha sostenuto, da sinistra, la temeraria tesi per cui bisogna rivalutare Friedrich List, ossia il padre del “Sistema nazionale di economia politica”, assertore nel secolo XIX del dirigismo e del protezionismo contro il liberismo manchesteriano. Per List solo una economia diretta, come quella che ai suoi tempi era in auge nei giovani Stati Uniti d’America (che infatti nascono dirigisti, con Hamilton, e non liberisti) garantisce la crescita organica dell’intero corpo nazionale. Secondo Cesaratto, List ha capito molte cose che sono sfuggite a Karl Marx il quale nutriva un impossibile sogno globalista sebbene di segno proletario. Lo stesso Cesaratto, del resto, è grande amico ed interlocutore dei peronisti, ossia dei fascisti argentini sebbene senza dubbio fascisti di sinistra.

Il tentativo dei 32 economisti di distanziarsi da Matteo Salvini, che li ha presi ad esempio di una scienza economica onesta e non asservita agli interessi dell’egemonia mercantilista tedesca, appare, alla luce del dato storico, un inutile ed artificioso tentativo retorico. Forse con Salvini, i nostri, non si intenderanno mai – benché un loro collega, anch’egli di sinistra, lo ha fatto fino a farsi eleggere deputato per la Lega, ci riferiamo ad Alberto Bagnai –, e siamo anche noi concordi sul fatto che ci sono molte cose criticabili nel leader leghista e che molti sono i suoi limiti culturali, financo politici. Ma certamente i 32 non possono non fare i conti con il concetto di sovranità nazionale che i sovranisti, pur con tutti i loro limiti (la tanto invocata sovranità deve essere giocata anche contro la Nato, come a noi piacerebbe, oppure no?), hanno innalzato a categoria del Politico. D’altro canto la sovranità nazionale è elemento imprescindibile della sovranità democratica. Essa nasce nel 1789 come bandiera della sinistra, ossia del “terzo stato”, contro la legittimità monarchica. La sinistra fucsia, come la definisce Diego Fusaro, prona ai poteri finanziari mondialisti, triste retaggio dell’utopia internazionalista, sembra averlo completamente dimenticato. Insieme alla sovranità nazionale la sinistra ha conseguentemente dimenticato le ragioni delle classi popolari che, invece, dovunque oggi, in Europa e nel mondo, chiedono, sempre di più, tutele contro l’aggressività della speculazione finanziaria, emancipata dalla globalizzazione la quale l’ha lasciata libera di scatenarsi allo stato puro come un Satana “liberato dalle catene”.

La realtà è che non si può rinunciare alla sovranità nazionale se non la si sostituisce con un contesto confederale di nazioni politicamente poste tutte su un piano di parità, libere ed eguali, anche se differenti in quanto a forza economica. Il che è facile a dirsi ma molto più difficile a farsi, data la tendenza, causata dalle disfunzioni ontologiche del cuore umano, alla prevaricazione del più forte sul più debole. L’attuale assetto dell’Unione Europea è appunto carente di qualsiasi quadro confederale, ovvero politico, ed il vuoto è stato riempito dagli Stati più forti ossia Francia e Germania.

Queste riflessioni di attualità politica ci inducono, per meglio comprendere e spiegare, a ripercorrere la storia dello Stato sociale quale trasformazione necessaria dello Stato nazionale sorto, quest’ultimo, al tempo delle monarchie assolute post-medioevali che, più tardi, la Rivoluzione Francese cambiò in repubbliche.

Un primo dato storico necessario per capire la trasformazione dello Stato nazionale in Stato sociale è la funzione che svolse in tale processo il Sindacato. Non a caso oggi insieme allo Stato nazionale va morendo, o comunque molto indebolendosi, anche il sindacato. Stato e sindacato storicamente sono fenomeni coevi, giacché il secondo nacque come risposta alla Legge Le Chapelier, con la quale nel 1791 la rivoluzione liberale e giacobina (il giacobinismo era soltanto la radicalizzazione delle istanze contrattualiste ed individualiste del liberalismo) dichiarò fuori legge tutte le “coalizioni” intese a raggruppare i cittadini in difesa di comuni interessi. Furono così abolite le antiche corporazioni di arti e mestieri, in parallelo con l’abolizione di tutti gli ordini religiosi. Nasceva in tal modo lo Stato accentrato, espressione della Volontà Generale intesa come somma sinallagmatica delle volontà degli individui uniti dal “contratto sociale”. Era l’illusione rousseviana che fosse possibile la coincidenza diretta e senza mediazioni tra Stato ed individuo. Una illusione tante volte poi tornata nelle filosofie successive. A tal proposito basta soltanto pensare all’attualismo gentiliano che presupponeva l’interiorizzazione da parte del singolo della volontà statale e viceversa l’assorbimento in quella dello Stato della volontà del singolo. Anche nell’attualismo, come nell’utopia di Rousseau, senza autentiche mediazioni sociali giacché nella visione idealista di Gentile corporazioni e sindacati, istituiti dal regime fascista quali organi pubblici, erano soltanto un momento di intermediazione autoritaria per fondere totalitariamente Stato ed individuo. La distruzione degli antichi corpi sociali svolse, naturalmente, il suo ruolo a tutto vantaggio della componente imprenditoriale del nascente capitalismo industriale che così poteva agire e stabilire le sue regole senza alcuna mediazione o concertazione con gli operai, i quali già nel XVIII secolo, in un contesto ancora corporativo nel senso premoderno della parola, andavano organizzandosi in quella sorta di proto-sindacati che erano i “compagnonaggi”. Certo anche gli imprenditori, all’epoca piuttosto padroni in senso arcaico che imprenditori in senso moderno, non potevano fare “coalizioni” – benché poi facevano cartello per monopolizzare il mercato – ma è evidente che nei rapporti di forza all’interno della fabbrica ad avere la meglio era il proprietario, dato che gli scioperi erano vietati e duramente repressi in quanto tentativi di coalizione.

Il sindacalismo nacque per rivendicare, contro lo Stato liberal-giacobino, astratto e centralizzatore, lo spazio che era stato tolto agli antichi corpi intermedi. Durante tutto l’ottocento il dibattito filosofico-politico ruotò intorno al problema della riforma organica dello Stato per il riconoscimento giuridico delle realtà sociali naturali che nuovamente, nonostante le illusioni illuministe, erano risorte in una forma adeguata alla modernità industriale. I frutti di questo dibattito maturarono nel novecento quando lo Stato trovò la via del corporativismo cioè di quel particolare sistema istituzionale che demanda le grandi scelte politiche alla concertazione, guidata dall’Autorità politica, tra organizzazioni sociali, i corpi intermedi, in grado di rappresentare e articolare gli interessi di intere categorie sociali nel quadro di un più alto e complessivo bene comune. Era la via auspicata, all’epoca, da diverse scuole di pensiero – la cattolica, la mazziniana, la nazionalista, la socialista non marxista, la sindacalista-rivoluzionaria –, molto differenti tra loro ma tutte convergenti a favore della riforma corporativa dello Stato moderno.

Le formulazioni pratiche dell’assetto corporativista dello Stato moderno, come del resto le diverse concezioni filosofiche dalle quali esso traeva linfa, furono di tipo molto differente a seconda dei contesti storici e politici, per cui abbiamo conosciuto corporativismi di destra e di sinistra, socialmente più paternalistici o più avanzati, autoritari e democratici, dirigisti ed autogestionari, più favorevoli al capitale o più favorevoli al lavoro. Tutti i diversi corporativismi avevano però lo stesso fine che era quello di evitare la deflagrazione conflittuale dell’unità politica ovvero dello Stato nazionale, forma moderna del Politico. Si trattava di preservare il contesto comunitario di natura quale espressione necessaria dell’uomo come essere essenzialmente politico ed, in quanto tale, inesistente al di fuori della sua innata dimensione sociale. La nostra stessa Costituzione postfascista del 1948 ha un evidente impianto corporativista chiaramente palesato negli articoli iniziali, quelli della prima parte fondamentale, ovvero gli articoli 2 e 3, comma 2, e, poi, in molti altri articoli della seconda parte come il 39, il 46, il 99 ed altri ancora.

Sorto dalla dinamica filosofica e storica della modernità, il corporativismo, quale risoluzione della dialettica Stato-Sindacato, appare oggi travolto dalla liquefazione postmoderna delle identità sociali, ad iniziare dalla famiglia, ossia dal ritorno sulla scena del peggior individualismo nichilista, forse mai scomparso ma semplicemente nascostosi, occultatosi, tra le pieghe del discorso filosofico-politico in attesa che le radici contrattualiste dello Stato moderno ne provocassero il default e consentissero anche la dissoluzione della solidarietà meccanica che esso era riuscito ad implementare in luogo delle antiche solidarietà organiche premoderne.

L’assetto corporativista del rapporto Stato-Sindacato, fatto proprio per molti aspetti dalle democrazie liberali e sociali postbelliche, è attualmente messo pesantemente in discussione dalle trasformazioni tecnologiche digitali e robotiche, dalla riorganizzazione dei modi di produzione che mediante la rivoluzione informatica sono riusciti ad aumentare la produttività ma con sempre meno lavoro umano, ed infine dagli effetti combinati della globalizzazione e dell’integrazione europea. Tutto questo ha aperto la via ad una (contro)offensiva generalizzata da parte del capitale – da patrimoniale e reale diventato vieppiù finanziario e virtuale – contro il lavoro tanto intellettuale che manuale. Diciamo “controffensiva” perché è stata, in fondo, pianificata da ben precise centrali di elaborazione culturale e politica, che sono riuscite a condurre il mondo verso la globalizzazione – si illudono coloro che credono che essa sia il risultato di un processo spontaneo – intesa quale realizzazione dell’antico e ricorrente sogno chiliastico dell’autocostruzione umana del reale. In tal senso è possibile, e lo pensiamo verosimile, che la stessa dinamica della mondializzazione è stata, in qualche modo, subita, perlomeno negli effetti anti-umani, da quella parte dell’imprenditoria, in genere quella medio-piccola, più socialmente sensibile ed aperta verso le esigenze dei dipendenti collaboratori, più legata al territorio ed ad una concezione comunitaria e patrimoniale, piuttosto che finanziaria, dell’impresa. D’altronde, come già rilevava Amintore Fanfani studiando i secoli tardo-medioevali della genesi del capitalismo, quando anche uno solo prende l’iniziativa, infrangendo il quadro culturale e normativo che comprime le pulsioni individualiste ed autoreferenziali, tutti gli altri sono costretti a fare altrettanto se vogliono restare al passo con i tempi e sopravvivere. Sicché una volta aperta la strada, con la globalizzazione, alla più sfrenata concorrenza internazionale, anche quegli Stati o quegli imprenditori che avessero voluto resistere nell’impianto solidarista dell’economia pre-globale non potevano farlo, pena l’uscire dal mercato e fallire.

La “Grande Trasformazione” sopraggiunge, prima inavvertita e poi inarrestabile, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Fino a quel momento l’assetto corporativista degli Stati democratici ad economia sociale avanzata era stato caratterizzato, pur all’interno di una viva conflittualità sociale, da una alta capacità di redistribuzione della ricchezza prodotta. Quindi il corporativismo – che per quanto riguarda l’Italia era in dinamica e progressiva continuità con l’impianto prebellico silenziosamente, per ovvi motivi di facciata politica, conservato e successivamente sviluppato nei suoi assunti e principi di fondo – funzionava verso sinistra, ossia favoriva l’ascesa delle classi sociali lavoratrici ma anche dei ceti medi. L’“indice del corporativismo” di questo periodo era dato dal combinarsi tra loro di due elementi complementari ossia la misura della contrattazione salariale tra imprenditori e sindacati e la misura della partecipazione politica delle parti sociali ai processi decisionali nell’area delle politiche macroeconomiche, delle politiche sociali e delle politiche del mercato del lavoro.

A partire dalla fine degli anni ’70, e poi con maggior vigore dalla fine degli anni ’80, il corporativismo socialmente avanzato, cresciuto lungo il precedente cinquantennio, inizia a declinare pressato dal nuovo edonismo individualista sopraggiunto con la rivoluzione neoconservatrice di Reagan e della Thatcher. In realtà, però, piuttosto che di estinzione bisogna parlare di trasformazione del corporativismo con un ritorno verso destra o, meglio, un ritorno verso un suo assetto maggiormente rispondente alla esigenze di un capitale che in quel momento iniziava a globalizzarsi e che quindi aveva necessità di svincolarsi dai “lacci” sociali che prima, quando il corporativismo era strettamente legato e funzionale allo Stato nazionale, gli erano stati imposti o che esso aveva saggiamente accettato perché, ancora territorializzato, non poteva fare a meno dell’unità politica statuale e della domanda interna. Infatti, questa trasformazione-involuzione del corporativismo si è imposta parallelamente alla graduale destrutturazione ed indebolimento dello Stato nazionale in via di dissoluzione nel mercato globale.

Nella nuova fase, mentre calava in modo vistoso, per effetto della liquefazione sociale postmoderna già in atto, il trend di densità sindacale, ossia la quota di lavoratori e di imprenditori iscritti ai rispettivi sindacati, i processi di contrattazione e coordinamento salariale tra associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori sono divenuti sempre meno importanti – fino al punto che è ormai messo in discussione lo stesso contratto collettivo nazionale e quindi la sua efficacia erga omnes – per essere, detti processi, sostituiti, come illusoria contrapartita, dall’ammissione dei sindacati, svuotati e sempre più simulacri, alle dinamiche di policy-making neoliberista, in funzione del contenimento del costo del lavoro e dell’accettazione-gestione delle politiche offertiste di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, privato così di efficaci strumenti di difesa contro il ritorno dello strapotere capitalista ma di un capitalismo finanziario e globalisticamente volatile, non più nazionalmente territorializzato.

La globalizzazione, infatti, ha portato ad esiti sostanzialmente differenti rispetto a quelli che hanno caratterizzato il sistema corporativo del passato. Mentre le caratteristiche istituzionali delle relazioni industriali corporative sviluppate, tra alti e bassi, nel XX secolo, ossia la densità identitaria sindacale e la struttura della contrattazione collettiva nazionale e decentrata nel quadro però nazionale, hanno a suo tempo condotto a una maggiore eguaglianza sociale, ad un riavvicinamento anche eticamente giusto della forbice sociale, le trasformazioni dell’assetto corporativista indotte dalla globalizzazione, a partire in particolare dagli anni ’90 ovvero dalla fine del XX secolo, lo hanno reso meno redistributivo rispetto a quello precedente. Se il corporativismo come realizzatosi fino agli anni ’70 ha consentito una crescita della quota dei salari proporzionale al reddito nazionale, quindi con effetti redistributivi verso il lavoro, la sua trasformazione postmoderna, al contrario, tiene ferma la dinamica salariale sicché l’aumento dei salari segue un ritmo sempre minore rispetto all’aumento della produttività, producendosi, di conseguenza, sia a livello nazionale che mondiale, un fenomeno di accumulazione della ricchezza verso l’alto. A causa della globalizzazione, che ha accentuato in modo incontenibile la concorrenza transnazionale, le nuove relazioni industriali, rispetto al corporativismo precedente, non sono più attente alla redistribuzione dell’utile del prodotto sociale ma guardano principalmente alla competitività economica. Non si ha più per finalità la negoziazione redistributiva, che imponga al capitalismo l’equità sociale, ma, al contrario, si favoriscono (contro)riforme di matrice neoliberista anche in Nazioni che, rispetto a quelle anglosassoni, hanno una storia corporativisticamente più forte come quelle dell’Europa continentale.

Questo significa che, con la crisi dello Stato nazionale e del suo assetto corporativo maturato nel XX secolo, il nuovo scenario globale si caratterizza per la redistribuzione del reddito dal lavoro verso il capitale ossia per un aumento della competitività ottenuto tramite compressione dei salari. Questi, infatti, troppo spesso non riescono a recuperare terreno neanche laddove è praticato il salario di produttività dato che la partecipazione agli utili è pensata come marginale “contentino”, quasi un minimale “premio di produttività”, piuttosto che come un meccanismo di effettiva redistribuzione dei profitti verso il basso.

In altri termini, nel periodo che dal 1990 si apre senza più “resistenze corporative”, la riduzione della diseguaglianza è molto inferiore rispetto al trend del periodo precedente, quello iniziato dagli anni ’30 del XX secolo e conclusosi con il 1989. In un tale nuovo contesto un ruolo importante lo ha giocato la minore o maggiore permanenza del “welfare State” legata alle peculiarità culturali e locali di ciascuno Stato nazionale. Le nazioni che sono riuscite, nonostante la deriva globalista, a conservare meglio il loro sistema di welfare, nato dalla collaborazione tra forze sindacali e Stato nazionale, sono anche riuscite a contenere l’aumento della diseguaglianza sociale.

Fino agli anni ‘70/80 del XX secolo il corporativismo costituiva il paradigma vigente in base al quale gli attori politici cercavano la collaborazione tra le contrapposte associazioni sindacali, le “parti sociali”,  per orientare la convivenza nazionale verso un contesto di pacificazione sociale secondo politiche di ispirazione keynesiana volte alla piena occupazione della forza lavoro. Evitando lo scontro radicale che porta alla rottura dell’unità politica nazionale, sia i sindacati imprenditoriali che quelli dei lavoratori mediavano l’uso del reciproco potere di mercato nella determinazione dei salari mentre lo Stato assicurava alle parti sociali una serie di riforme strutturali – espansione della spesa pubblica, sottrazione al mercato dei servizi pubblici et similia – che consentiva il raggiungimento di più alti livelli di eguaglianza nonché la pace sociale.

Un tale assetto corporativo era sostenibile, però, in un quadro politico costruito su basi nazionali come era quello risultante dagli accordi di Bretton Woods che regolavano su scala internazionale, almeno nel mondo occidentale, le compensazioni tra le diverse economie nazionali, in una visione economica stabile e prevalentemente rivolta verso la domanda interna piuttosto che verso il commercio internazionale. C’era equilibrio tra importazioni ed esportazioni e tra produzione per il mercato nazionale e quella per il mercato estero. Il mutamento dello scenario politico e macroeconomico internazionale, successivo alla fine dei predetti “accordi”, ha messo in crisi il corporativismo precedente perché, aprendo alla globalizzazione, ha ristretto la forza contrattuale dei sindacati mentre il capitale, libero di spostarsi dove vuole, ha aumentato quella forza in termini ricattatori.

Con gli anni ’80 si assiste all’egemonia delle politiche monetariste di Reagan e della Thatcher che aumentarono a dismisura i tassi di interesse nell’illusione di contrarre la base monetaria per fermare l’inflazione, la quale però non era monetaria, nonché alla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitali con la rinuncia da parte degli Stati a controllarli. Assolutamente svincolato da ogni controllo politico ma anche da qualsiasi legame territoriale il capitale, in via di finanziarizzazione, poteva a suo piacimento rispettare o meno i contratti collettivi senza che i sindacati potessero opporsi più di tanto perché laddove ci provavano ottenevano come risposta la delocalizzazione industriale e l’abbandono alla disoccupazione dei loro iscritti. Con la stessa logica ricattatoria il capitale iniziò ad imporre contratti al ribasso “prendere o lasciare”.

Mentre in precedenza, in un assetto pienamente corporativo, per moderare l’inflazione era necessario raggiungere accordi con un sindacato forte che accettasse una compressione anti-inflattiva dei salari in cambio, però, di tutele sul fronte del welfare, a partire dalla rivoluzione reaganiana si tentò di raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’inflazione attraverso politiche monetarie restrittive pur se al costo di maggiori tassi di disoccupazione. Tuttavia la ricetta monetarista, come alla fine fu costretto ad ammettere lo stesso Milton Friedman, non funzionò, perché la compressione della base monetaria legale – lo chiarì molto bene poi Nicholas Kaldor – produsse soltanto l’aumento della quasi-moneta bancaria, derivante dall’aumento della domanda di prestiti che famiglie ed imprese facevano al sistema bancario. Le politiche monetariste rafforzarono il processo di finanziarizzazione dell’economia provocando l’incontrollata esplosione dei tassi di interesse i quali, al contrario di quanto accade per le merci, a fronte di un’alta domanda di credito, invece di diminuire, aumentano.

In sostanza con la globalizzazione la controparte datoriale non ha più considerato il coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori, nella contrattazione collettiva nazionale e nelle politiche pubbliche, come l’inevitabile costo da pagare o come il saggio atteggiamento da mantenere per la pace sociale e la stabilità economica, quanto piuttosto come una costosa ed inefficiente “rigidità”, un “laccio”dal quale bisognava liberarsi per sostenere la concorrenza transnazionale senza che ciò provocasse, dato il progressivo indebolimento sindacale, grandi conseguenze sul piano della conflittualità sociale.

Ciononostante i governi neoliberali e le confindustrie continuarono a mantenere in vita il sindacato, benché depotenziato, evitando di umiliarlo fino in fondo perché esso risultava ancora utile al fine di costruire e governare il consenso passivo necessario all’accettazione del sacrificio che la globalizzazione stava per imporre ai popoli, ai ceti medi ed alle classi lavoratrici. Infatti la mondializzazione dei mercati nazionali, per la formazione di un unico mercato globale, richiedeva l’imposizione al corpo sociale di politiche che contemplavano non solo la moderazione salariale – questo avveniva in parte anche prima però in cambio di maggior welfare – ma soprattutto ricette, in altri tempi improponibili, come l’abbassamento delle tasse per il capitale ed i ceti più ricchi, la liberalizzazione del mercato del lavoro, la riduzione dei sistemi di welfare. Bisognava in sostanza trasferire il maggior peso economico dal capitale, che liberamente poteva muoversi come voleva, al lavoro ed alla nazione che invece erano naturalmente ed inevitabilmente sedentari. Dal momento che c’era un enorme prezzo da pagare e che a perderci sarebbero stati popoli e lavoratori e che questo comportava il rischio di incontrare fortissime resistenze e generare tensioni sociali, anche potenzialmente eversive, il sindacato depotenziato tornava ancora utile e per questo si è fatto finta per quasi trent’anni di continuare a dialogare con esso. Un dialogo ormai senza più argomenti e contenuti seri tanto tutto era già deciso preventivamente dal quasi assoluto potere ricattatorio del capitale transnazionalizzato. “There is no alternative”, diceva la Thatcher ai suoi critici sindacali e politici.

In tale situazione non c’è stato più spazio per alcuna autentica concertazione sociale, a maggior ragione ora dopo il sopraggiungere della crisi finanziaria del 2008. Questa, con le sue conseguenze, ha dimostrato possibile il superamento non solo del corporativismo del passato ma anche della stessa democrazia. Come è stato evidenziato dall’operato omicida ed impunito della Troika ai danni della Grecia. Le politiche economiche sono oggi decise altrove, non in sede nazionale. Ai sindacati non resta che decidere se firmare egualmente accordi preconfezionati, che in ogni caso saranno comunque attuati autoritariamente, oppure no. I nuovi patti sociali servono soltanto a far digerire la pillola amara ed ai sindacati resta soltanto la possibilità di contrattare i tempi ed i modi della transizione neoliberista e quali categorie devono essere maggiormente colpite da essa.

Questo spiega, alla distanza, il motivo per il quale i sindacati difendono oggi i padri a scapito dei figli e per il quale i loro iscritti diventano, causa il naturale andamento della vita, sempre più anziani senza più alcun ricambio generazionale. E spiega anche la dinamica della (auto)marginalizzazione del sindacato. Infatti, credendo di dotarsi di una sicura base di consenso democratico, i sindacati hanno finito per legittimare l’accettazione di riforme impopolari proprio attraverso il voto e la discussione assembleare. Attualmente, la firma dei nuovi contratti di lavoro segue, in genere, i referendum tra i lavoratori ma questi sono preceduti da assemblee nei luoghi di lavoro nelle quali i leader sindacali, sconfitti sul tavolo delle trattative, cercano, con argomentazioni difensive, di spiegare ai lavoratori i motivi per i quali è necessario accettare le condizioni più restrittive imposte dalla controparte. In tal modo il sindacato mostra di non avere la forza per opporsi alla globalizzazione né quella forza la trova nei partiti della sinistra ex marxista imbevuti, per retaggio appunto marxista – l’unico retaggio marxista loro rimasto! –, dell’utopia internazionalista, e della conseguente retorica, che li ha portati a favorire la mondializzazione a scapito dello Stato nazionale ossia del solo alveo storico-politico nel quale il lavoro era riuscito ad emanciparsi ottenendo sacrosanti diritti sociali.

Sotto un certo profilo, il sindacato si è ritrovato oggi nella stessa situazione della prima fase del fascismo, quella di destra, nella quale il corporativismo funzionava più a favore degli imprenditori, perché il sindacato era vincolato dalle direttive governative ed, oltretutto, era stato sbloccato in sei confederazioni a fronte del mantenimento, fino al 1934, dell’unica confederazione industriale. Il sindacato, in quella situazione, dovette subire l’imposizione di riduzioni salariali necessarie alla politica deflazionista del primo Mussolini, ossessivamente fissato per il raggiungimento a tutti i costi della “quota ‘90” ossia la rivalutazione della lira nei confronti della sterlina, e del suo ministro delle finanze, Alberto De Stefani, in quella fase ancora liberale (successivamente cambiò, in parte, registro), impegnato nel combattere l’inflazione postbellica con tagli della spesa pubblica e riduzione della base monetaria. Le cose, poi, con la crisi del 1929 , iniziarono a cambiare, svoltando verso sinistra (per il fascismo si trattò di un parziale ritorno, rimasto a causa della guerra incompiuto, alle sue radici socialiste). A partire dagli anni ’30 si inaugurò una politica dirigista potenzialmente più aperta alle ragioni del lavoro che, nel dopoguerra, con la democratizzazione postbellica del corporativismo, se non nelle sue forme istituzionali certamente nella sua sostanza e nei suoi principi sociali, grazie alla ritrovata libertà e pluralità di associazione sindacale, rovesciò i rapporti di forza, stante la costrizione statual-nazionale del capitale, in un equilibrio maggiormente e prevalentemente favorevole al lavoro. Poi, appunto, la globalizzazione ha rimesso questo equilibrio in discussione riportando il pendolo dalla parte del capitale, ormai finanziario più che patrimoniale.

Il sindacato, nell’età della globalizzazione, è stato abbandonato, anche ufficialmente, dalla sinistra cosmopolita perché considerato strumento di un’epoca passata e di una realtà sociale di nazioni sovrane non più sussistente e che, in fondo, la sinistra, nel suo internazionalismo, non ha mai del tutto digerito. La sinistra italiana, in particolare, nel momento della sua maggior forza politico-culturale negli anni ‘70, è stata responsabile di una arroganza stupidamente “antifascista” ed “anticattolica”. Essa, negando, all’epoca, il diritto di cittadinanza, e sovente il diritto alla vita, agli altri, impedì migliori alleanze anticapitaliste. Un’arroganza che essa conserva ancora oggi per usarla, però, a favore del globalismo capitalista. La sinistra italiana non saputo proporre nessuna opposizione alla rivincita del capitale perché ha fatto sue le ricette neoliberiste. Essa ha indotto i lavoratori ed i ceti medi a credere alle favole neoliberiste come quella per cui la disoccupazione sarebbe dovuta all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. In tal modo mentre cantava “Bella ciao!” preparava il terreno per le “riforme strutturali” ossia le politiche dal lato dell’offerta, che in Italia hanno trovato la loro concretizzazione massima con i governi di Mario Monti e di Matteo Renzi sostenuti dal principale partito del centrosinistra. La sinistra, non solo quella italiana, si è prostata al capitale finanziario, collaborando con esso per governare i processi di ristrutturazione transnazionale. Il  blairismo, cui si ispirano il Pd ed Italia Viva di Matteo Renzi, ad esempio, è portatore di una cultura liberale che fa leva sul sostegno alle “opportunità individuali” nel quadro di una “open society” popperiana e sorosiana. La sinistra è ormai un vuoto simulacro, essa è il nulla politico. Non è un caso se privo di contenuti forti è il movimento prodiano delle “sardine” che in questi mesi, con il plauso di tutti i media e di personaggi come Mario Monti, è stato ad arte scatenato contro il pericolo sovranista. Nella realtà dei fatti, tuttavia, il sovranismo è attualmente l’unica difesa dei ceti medi e delle classi lavoratrici contro l’aggressione della finanza apolide e globalista, ma la sinistra lo avversa perché essa è la portatrice degli interessi del capitale transnazionale.

Il “Washington Consensus”, ovvero il nuovo paradigma neoliberista della globalizzazione oggi dominante, succeduto a quello di “Bretton Woods”, non potrà essere superato senza un mutamento epocale dello scenario macroeconomico interno ed internazionale. Dato che nulla al momento fa presagire tale cambiamento epocale, lo scenario per i popoli resta fosco. La crisi finanziaria globale del 2008 aveva concesso una possibilità per arrivare ad una nuova regolamentazione della finanza che contemplasse nuovi controlli sui movimenti di capitale onde riterritorializzarlo e tornare alla prevalenza della domanda interna. All’apice della crisi c’è stato un momento, quando le grandi banche d’affari erano sull’orlo dell’abisso e chiedevano di essere salvate, nel quale gli Stati hanno avuto la possibilità di intervenire imponendo nuove regole ed un nuovo paradigma. Ma i governi, non culturalmente all’altezza, hanno salvato le grandi banche lasciando che esse tornassero tranquillamente a speculare come nulla fosse successo.

C’è stata la possibilità, tra il 2008 ed il 2013, di attuare riforme strutturali della finanza internazionale che ne riducessero fortemente il ruolo economico e la capacità di influire sui processi politici a tutti i livelli. Allo scopo sarebbe stato necessario elaborare una sorta di “jus publicum” inter-statuale, una concertazione regolativa condivisa, che riportasse gli Stati ad un ruolo cardine nelle politiche economiche mondiali sottraendo alla finanza l’egemonia che oggi possiede. Ma nulla di tutto questo è stato fatto e la crisi è stata pagata dai popoli, alcuni, come quello greco, persino scuoiati Un’occasione, dunque, non sfruttata adeguatamente, tanto che oggi il tentativo di superare i guasti della globalizzazione lo sta facendo, con l’appoggio della working class e del ceto medio americano, Donald Trump ma, purtroppo, in uno scenario ambiguo perché inteso a riproporre, nello scontro di civiltà con Russia e Cina, il progetto neoconservatore di un “Nuovo Secolo Americano” benché in versione sovranista e non più globalista.

L’Europa, vincolata ad un dogmatico ordoliberismo sancito, per volontà franco-tedesca, dal  Trattato di Maastricht e da una moneta unica, senza confederazione politica, amministrata da una Banca Centrale che non svolge istituzionalmente il ruolo di prestatore e garante di ultima istanza, si è ritrovata nella morsa dell’austerità la quale ha definitivamente fatto tramontare l’idea stessa di Europa dei popoli. Del resto ad ogni ipotesi di ristrutturazione dell’attuale assetto europeo si oppongono Francia e Germania, le quali hanno tutto l’interesse a mantenere in posizione di vassallaggio le altre componenti nazionali dell’Unione, ad iniziare dal terzo ed incomodo concorrente che è l’Italia. Parigi e Berlino, legate dal patto di Aquisgrana nella tutela bilaterale dei reciproci e convergenti interessi nazionali, guardano all’Europa soltanto nella misura in cui essa è utile a salvare, addossandone il peso finanziario a tutti gli altri europei – a questo servono il Mes e l’unione bancaria –, le loro banche esposte con i debiti privati diventati, a causa della crisi, inesigibili e con il rischio di deflagrazione dei derivati che hanno in pancia.

Non c’è, dunque, altra soluzione, a nostro giudizio, che tornare indietro, deglobalizzare il mondo. Infatti, se, da un lato, quella dello “Stato Mondiale”, che, in modo analogo a quanto fece a suo tempo lo Stato nazionale a livello locale, costringa il capitale mondializzato a mediare con il lavoro egualmente internazionalizzato, è e resta una utopia, dall’altro lato reale e concreto, non utopico, è  il mercato globale che ha provocato la transnazionalizzazione del capitale ponendolo nelle condizioni storiche di poter giocare la sua partita senza opposizioni. Tuttavia – la crisi del 2008 è stata solo il primo avvertimento al quale seguiranno altre tremende scosse telluriche – la globalizzazione del capitale ha dimostrato che le politiche offertiste, a scapito della domanda, in particolare di quella interna, alla lunga non funzionano. Sicché lo scenario di pace perpetua, di fine della storia e di benessere universale promesso dalla globalizzazione non può che rovesciarsi, sta già accadendo, nella instabilità economica globale, nell’aumento della povertà, nel deflagrare di nuovi conflitti bellici e di nuove tensioni internazionali nello scontro di civiltà in atto.

Per questo, prima o poi – speriamo prima piuttosto che poi, perché dopo c’è solo il peggio –, ciascun popolo dovrà tornare a guardare a sé stesso, a lavorare per sé stesso e non per i mercati globali, stabilendo con gli altri popoli intese di pace, plurilaterali a seconda dei reciproci rapporti preferenziali. Intese a largo raggio su basi statuali ed inter-statuali, come fu nell’Europa uscita dalla Pace di Vestfalia (1648) ma con la chiara consapevolezza, che invece nel XVII secolo si era  persa, per la quale l’universalità, la “cattolicità”, è sì, senza dubbio, una realtà ma soltanto sul piano soprannaturale dello Spirito. Secondo l’antico adagio per il quale “Gratiam naturam supponit, non tollit sed perficit”.

Luigi Copertino