Cronache di Babilonia ( Europa contro Ungheria)

di Roberto PECCHIOLI

L’Unione Europea si è convertita nella nuova Babilonia, in stridente contraddizione con l’idea di libertà. Lo dimostra il doppio scivolone del cosiddetto parlamento europeo a trazione postsocialista e postdemocristiana. Il voto a favore della direttiva sul diritto d’autore si tradurrà in nuova perdita di libertà e rinnovate censure, mascherate dal rispetto per la proprietà intellettuale. Ancora più sconcertante è la votazione che colpisce l’Ungheria, alla quale la maggioranza europarlamentare vuole applicare, primo caso nella storia comunitaria, le sanzioni previste dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona, detto impropriamente costituzione europea.

E’ un precedente di inaudita gravità. Un parlamento pressoché impotente chiede ai governi, la cui decisione avverrà con l’improbabile maggioranza di quattro quinti, di punire l’Ungheria sino a sottrarle il diritto di voto nelle istituzioni dell’Unione, per aver svolto politiche in materia di immigrazione e difesa del territorio magiaro non gradite alla maggioranza dell’impagliata assemblea dominata dallo stanco asse tra socialisti e popolari, con i liberali di complemento. Un’assemblea priva di potestà legislativa si arroga il diritto di giudicare e punire secondo criteri ideologici un governo liberalmente eletto dai suoi cittadini.

Nella Babilonia europoide è in gioco una nozione essenziale, quella di sovranità. La relazione su cui si è basato il voto di Strasburgo, che ha spaccato il Partito Popolare cui appartiene Orban, è stata redatta da una deputata olandese di ultrasinistra, il che spiega assai bene verso quali esiti l’Unione, con la Commissione alla sua testa, cerchi di trascinare i paesi membri. Si evidenzia altresì l’accanimento con cui l’iniziativa sponsorizzata dallo stesso Juncker intende contrastare il gruppo di Visegrad formato attorno alla Polonia e all’Ungheria, non soltanto in ordine alle politiche migratorie.

A livello istituzionale, la pretesa di distruggere la sovranità nazionale ungherese è gravissima. Nonostante le opposte convinzioni dei responsabili comunitari e delle burocrazie di riferimento, l’Unione Europea non significa né deve significare l’amputazione delle sovranità nazionali dei suoi membri. Si afferma abitualmente nei circoli di potere che i problemi dell’UE derivano dal fatto che i soci mantengono una quota troppo grande di sovranità. E’ invece certo che i problemi hanno cominciato a sorgere allorché, impazzita la via comunitaria dopo il Trattato di Maastricht, si è tentato di instaurare un potere diffuso, a metà strada tra il grigio funzionariato e gli interessi dell’asse franco-tedesco. Nella questione ungherese giocano entrambi i fattori: l’ansia dell’apparato di Bruxelles di utilizzare la crisi dell’UE per accaparrarsi nuove competenze e la necessità francese e tedesca di frenare la crescente influenza del modello di Visegrad, cui guarda parte del governo italiano.

A livello più profondo, strutturare l’Unione come forte unità politica continentale esige la costruzione di un’identità comune. Manifestamente tale identità non esiste. La realtà parla di visioni, interessi, identità distinte, talora complementari, altre volte contrastanti. L’Unione ha tentato di creare a freddo un ethos comune a colpi di bulimia legislativa, intervenendo su questioni di ogni tipo, nel disprezzo del principio di sussidiarietà. Ha mutato in profondità il quadro normativo di 28 Stati, imponendo una gerarchia giuridica che i popoli non hanno mai approvato né i loro governi davvero digerito. La quantità di regolamenti dell’Unione è di parecchie migliaia ogni anno, e si va da questioni essenziali sino alla lunghezza dei profilattici e al calibro dei piselli. Ciò ha imposto una sorta di ordine nuovo alle nazioni europee, necessariamente tecnocratico e burocratico, l’unico in grado di bypassare le specificità di ciascuno. Nessuna unione di popoli si regge però su regolamenti, direttive e raccomandazioni, meno ancora su una moneta affidata a una cupola di banchieri onnipotenti e irresponsabili dinanzi a governi e popoli.

Si è dunque tagliato corto, puntando su contenuti etici deboli e su identità prive di senso. L’etica minimalista implica una degradazione dell’etica stessa: senza una concreta concezione del bene e del giusto, ogni valore si degrada in preferenza individuale più o meno transitoria. Hanno respinto qualsiasi tradizione religiosa o morale in quanto giudicate troppo forti, finendo in un relativismo che nega qualsiasi principio forte a guida del percorso comunitario.

Noi possiamo ribadire che l’identità e i valori europei procedono dalla tradizione cristiana, se volete giudeo cristiana e da quella greco latina, Roma, Atene e Gerusalemme, ma è evidente che la deriva delle sedicenti democrazie europee e delle loro classi dirigenti ha poco a vedere con l’idea di ordine, verità e bene che hanno caratterizzato nel corso dei secoli la civiltà europea. Nei fatti, il discorso in linea con la storia e cultura del nostro continente è oggi quello di Orban. Da questo punto di vista, la conclusione è che l’Unione Europea, fuoriuscendo dalla civiltà che l’ha espressa, si è mostrata radicalmente antieuropea in senso morale, civile e culturale.

Per di più, sta rivelando sempre più un volto antidemocratico, o, come preferiscono dire loro, illiberale, giacché tende ad escludere dallo spazio pubblico le idee che non collimano con la visione oligarchica, tecnocratica, materialista delle sue élites autoreferenziali. Fanno fede le questioni della Brexit, le elezioni svedesi, le reazioni dinanzi ai governi polacco, austriaco, ungherese e ora anche italiano. Ciò che essi difendono è una sovrastruttura tecnocratica sostenuta dal decadente duopolio socialista democristiano, il vero partito unico diviso in due correnti, tre con le varie famiglie liberali. Tutto ciò che esce da quella logica è estremismo, populismo, deriva di ultradestra, come traspare dalle dichiarazioni di un politico di seconda fila sconfitto in Francia, il commissario socialista Moscovici, colui che vede in Italia tanti piccoli Mussolini.

Al contrario, quella che è impropriamente chiamata ultradestra, per il poco che vale nel Duemila la segnaletica del secolo passato, è formata prevalentemente da patrioti convinti che lo Stato nazionale sovrano resti un ambito di libertà e sicurezza da mantenere e difendere. E’ convinta che le frontiere debbano essere sicure e difese, è favorevole all’Europa ma non al modello dell’Unione attuale. I suoi programmi economici sono un mix di difesa della proprietà privata diffusa e di persistenza dello Stato sociale, con l’esigenza di riprendere in mano la leva monetaria.  I deprecati estremisti difendono la famiglia, le radici cristiane europee e non mettono in discussione il multipartitismo, anzi, lo reclamano a gran voce oltre le apparenti divisioni funzionali al pensiero unico liberista in economia, libertario e libertino nelle questioni etiche.

La vera deriva, il pericolo reale è la persistenza dei due poli non contrapposti, quello popolare e quello socialdemocratico al servizio dell’oligarchia finanziaria. Il rischio per l’Europa non è l’Ungheria o Visegrad, ma la forma di globalizzazione che stiamo subendo senza difese. Contro di essa si levano le reazioni popolari a cui lorsignori rispondono con la demonizzazione, la richiesta di sanzioni, le imposizioni. Unione Europea come finta libertà e falsa democrazia, ma vera oligarchia. Questo vogliono, questo sono, il contrario della nostra storia. Rivendichiamo il diritto di resistenza dei popoli, Europa ovvero libertà.                                          

                                                                      ROBERTO PECCHIOLI