CHI TOCCA IL PARADIGMA MUORE! DEMOCRAZIA, EURISMO, ORDOLIBERISMO – di Luigi Copertino

CHI TOCCA IL PARADIGMA MUORE!

DEMOCRAZIA, EURISMO, ORDOLIBERISMO

 

Il fuoco di sbarramento è iniziato. Dal FMI alla Banca d’Italia, dalla Commissione Europea alla Banca Centrale Europea, dalla Corte dei Conti, all’Ufficio Bilancio del Parlamento, dall’Ocse ad altri organismi mondialisti, tutti a sparare contro il Def del governo giallo-verde. Con la complicità del sistema mediatico che fa grancassa alla Voce del Padrone. Le nomenklature globaliste, interne ed esterne, pretendono che il governo, disattendendo la volontà popolare, cambi la manovra di bilancio giudicata troppo espansiva, troppo favorevole ai ceti deboli ed all’autodeterminazione nazionale e dannosa per gli interessi transnazionali dei “mercati finanziari”.

La risposta di Luigi Di Maio ai vertici della Banca d’Italia – “Se Bankitalia non vuole che si cambi la legge Fornero, si candidi e si faccia eleggere” – è indicativa dello scontro in atto tra politica e tecnica, tra democrazia e tecnocrazia. Le caste tecnocratiche transnazionali non hanno in alcun conto la volontà popolare. Per esse la democrazia è soltanto un fastidioso contrattempo, una palla al piede, di cui farebbero, se potessero, volentieri a meno. Ed infatti non potendo abrogarla formalmente sono riuscite, con la complicità per ignavia delle giovani generazioni politiche (quelle che credono di rottamare la vecchia politica ed invece sono soltanto gli utili idioti dei tecnocrati), a svuotarla dall’interno, riducendola a “ludi cartacei”, ad espressione dei desiderata popolari  che, quando non collimano con la volontà e gli interessi della casta tecnocratica, possono essere tranquillamente inascoltati.

La volontà popolare è un fastidioso inciampo per la trionfale marcia globale del Capitale. Ed ormai le tecnocrazia transnazionali lo dicono apertamente per voce di opinion marker stipendiati dall’establishment come Antonio Polito, editorialista del Corsera, o come Antonio Caprarica, noto giornalista di adozione londinese. Nelle loro comparsate televisive questi opinion marker sostengono, senza pudore, che nessun governo, una volta eletto, ha il dovere morale di rispettare gli impegni elettorali se i mercati sono contrari a tali impegni. Un altro giornalisti, che si presenta quale esperti di economia benché di dubbi titoli accademici harvardiani, come Oscar Giannino è sostenitore della tesi per la quale i mercati hanno sempre ragione, sicché la volontà popolare, democraticamente espressa, deve sempre fare un passo indietro di fronte a Sua Maestà il Mercato.

Stiamo parlando di caste sovranazionali, composte da tecnici non eletti, i cui membri conseguono favolosi trattamenti pensionistici intorno ai 50-55 anni ma pretendono per i popoli, la disprezzata plebe “tecnicamente incompetente”, pensioni da fame e concesse in tarda età. Altrimenti come potrebbero, questi farisei che caricano gli altri di pesi che essi non si degnano neanche di toccare con un dito, godere dei loro privilegiati trattamenti, i quali, non dimentichiamolo, derivano dai fondi pubblici versati dagli Stati a detti organismi transnazionali secondo gli accordi costitutivi?

Un problema antico

Il problema del rapporto tra politica e tecnica non è nuovo, anzi è una costante. Esso sussiste almeno dai tempi di Platone. I filosofi della ideale repubblica platonica avrebbero dovuto essere dei “sapienti” ossia, in termini più prosaici, dei “tecnici” con diritto di governo. Platone, tuttavia, pensava a filosofi-re che costituissero una élite aristocratica selezionata sulla base di una iniziazione spirituale capace di metterli in diretto contatto con il mondo celeste delle idee iper-uraniche. Non dunque esperti di economia.

Un tempo il rapporto tra politica e tecnica era regolato in modo che la tecnica, certamente necessaria, fosse se non subordinata quantomeno alla pari con la politica, la quale, poi, in regimi democratici, è espressione della volontà popolare. Volontà che senza dubbio può anche sbagliare – fu sulla base di un “referendum” che Gesù Cristo venne messo in croce – ma perlomeno il popolo paga le conseguenze dei suoi errori. Laddove invece le tecnocrazie, ossia i circoli dei tecnici assurti a potere autoreferenziale, quando sbagliano – e si badi, sbagliano molto più di quanto non si pensi – non pagano mai.

Quando esplose la crisi nel 2008 la regina di Inghilterra chiese pubblicamente  ai tecnici della London School of Economics come mai essi non l’avessero prevista ed anzi avevano promesso decenni di crescita. Nessuno degli esperti rispose. La risposta invece arrivò da altri esperti, quelli che propongono paradigmi scientifici alternativi al dominante. Esperti non mainstream. I quali, invece, la crisi l’avevano prevista e, per quanto riguarda l’euro e l’Ue, con decenni di anticipo avevano sconsigliato una unione monetaria, in particolare se priva di preventiva unione politica, in un continente così variegato per culture e sistemi politici ed economici da non essere affatto un’area monetaria ottimale. Nessuno, però, nelle caste tecnocratiche che contano, quelle globaliste, li ascoltò.

Un saggio e prudente sovrano – sia esso un re o una assemblea elettiva – è sempre attento ai consigli dei suoi “filosofi”, dei suoi tecnici. Soprattutto quando ha a disposizione tecnici onesti, mossi da una vissuta etica del bene comune aliena di interessi di parte, come fu nel caso, ad esempio, di Federico Caffè che di sé soleva dire essere più il consigliere del pover’uomo, del semplice cittadino, che del Potere di turno. Senza fare della propria sovranità una costruzione di onnipotenza, il sovrano saggio sa ascoltare i consigli senza abdicare, senza cedere il potere ai consiglieri. La decisione ultima, anche se si discosta dai consigli degli esperti, è sempre del sovrano. Il quale, d’altro canto, deve essere pronto tanto a goderne i frutti quanto a pagarne le conseguenze, anche personalmente. In questo si vede e sta la sovranità quale attributo dell’uomo nel suo contesto politico (subordinato solo al Sacro, non all’economico).

Una questione di paradigmi

Il governo gialloverde ha fatto benissimo ad arruolare nella sua compagine alcun tecnici, da Paolo Savona e Giovanni Tria, ed ad ascoltarli nei limiti insuperabili del mandato popolare ricevuto. Ma lo sbarramento preventivo, il cordone sanitario, con il quale è stato immediatamente circondato dall’establishment indica due cose. La prima è che nell’eurocrazia – la componente dell’establishment globalista più esposta all’azione del governo italiano – si teme fortemente questa Italia gialloverde diventata, improvvisamente, da ossequiosa e solerte vassalla piddina dei diktat “euristi”, un laboratorio politico che deve essere soffocato al più presto onde evitare che il contagio si diffonda oltralpe dove, per le preoccupazioni di Bruxelles e Francoforte, i movimenti sovranisti vanno mietendo sempre più consensi. La seconda, più importante, è che il caso italiano rischia di sovvertire il paradigma vigente.

Perché, come abbiamo già accennato, le caste globaliste sono sì circoli di tecnici, di competenti, di esperti, ma di tecnici e competenti che hanno sposato e portano avanti un ben preciso paradigma politico-economico. Il quale, pur se al suo interno contempla diverse linee e sfumature di scuola, risponde ad un unico sistema di pensiero comunemente noto come “neoliberismo”.

Non abbiamo, pertanto, a che fare con i “filosofi” di Platone, i quali, al contrario, pretendevano di accedere alla contemplazione della Verità sapendo che Essa è Una ed Immutabile. Qui si tratta soltanto di un club globale di ideologi che hanno imposto il proprio paradigma economico come fosse la Verità Unica ed Immutabile scritta nell’Empireo. Ma la Verità, per sua natura, non è riducibile alle cose del mondo – benché con esse abbia comunque a che fare nel senso che l’uomo dovrebbe operare in modo da modellare il mondo su di Essa – mentre i paradigmi economici, come tutte le cose mondane, attengono sempre al relativo, all’opinabile. Per dirla ancora in termini platonici, alla doxa, non all’epistēmē.

Possiamo cristianamente affermare che la Provvidenza, proprio perché i paradigmi ideologici costruiti dall’uomo attengono alla sfera del relativo e non a quella dell’Assoluto, ha provveduto affinché l’umanità avesse a disposizione, per valutare i pretesi paradigmi scientifici, una sorta di cartina di tornasole, un laboratorio sperimentale, che è la storia. Senza cadere in un riduttivo storicismo – perché la storia, checché ne pensavano Hegel, Marx e Gentile, non ha alcun senso immanente (quello trascendente appartiene, per l’appunto, all’Assoluto e qui, al momento, non ce ne occupiamo perché lo faremo in altre sedi) – non possiamo negare che qualsiasi paradigma trova la sua approvazione o bocciatura quando esso viene applicato in concreto. Quindi nel suo inveramento storico.

Orbene, l’esperienza storica una cosa ci dice di sicuro: nessun paradigma scolastico, di pensiero, ha mai trovato un perfetto e massimamente funzionante riscontro pratico e tutti hanno mostrato, in concreto, insieme ad aspetti positivi, fallimenti, lacune, distorsioni, esiti contrari alle aspettative, errori ed a volte anche orrori. Questo vale – a smentita dei cultori della fede neoliberista – anche per il “mercatismo” ossia l’ideologia dominante del Mercato.

Giunta al punto nel quale è, l’umanità avrebbe dovuto già da tempo imparare, dalla sua esperienza storica, che non può affidarsi a nessun paradigma come fosse la Verità assoluta e che, d’altro canto, in ciascuno di essi vi è qualcosa di buono che se assunto quale elemento relativo e messo insieme a quanto di buono c’è negli altri concorrenti paradigmi scientifici può fornire un complesso di soluzioni per i problemi pratici del vivere quotidiano, senza cadere in esaltazioni dogmatiche ossia senza fare di questo o quel paradigma la Verità Intoccabile.

L’eurismo

Torniamo dunque al fuoco di sbarramento alzato contro il governo gialloverde, per dire che in realtà esso, più che aver toccato potenti interessi globali, ha messo in discussione, ha incrinato, benché per il momento all’interno della formale accettazione dello status quo vigente, il paradigma economico vigente nell’Ue e nel mondo unificato dal commercio globale. Questo paradigma dice, in sostanza, che il Mercato è il mondo unico e perfetto del quale non si può pensare nulla di più o di diverso. Non plus ultra! Quasi esso fosse una divinità scesa dal Cielo o la manifestazione di una Volontà Superiore Inderogabile. Il Mercato, per il paradigma dominante, non può mai fallire in quanto capace, per virtù naturale, di autoregolarsi e quindi di ritrovare automaticamente il suo equilibrio – che non per forza deve essere, benché questo viene sottaciuto, un equilibrio socialmente giusto – ogni volta che un qualsiasi fattore, endogeno o esogeno, venga a turbare la sua precedente situazione di equilibrio.

L’euro, la moneta unica europea, risponde perfettamente a questo paradigma, a questo dogma. Non per caso Edward Luttwak ha parlato, a proposito dell’euro, di “religione monetaria azteca”, con riferimento ai sacrifici umani praticati presso l’antico popolo messicano.

L’“eurismo” sta tentando in tutti i modi di far cadere il governo gialloverde, anche cercando di far leva sulle sue contraddizioni interne che, senza dubbio, ci sono. Carlo Cottarelli, ossia il FMI, ha recentemente presenziato, in “mondo visione”, ad una convention di Forza Italia. Andrea Riccardi, ovvero il cattolico progressista già  ministro del governo austerocratico di Monti (che ha impoverito ancor di più i poveri senza che il buonista Riccardi si ponesse problemi di coscienza) , ha fondato, insieme ad altri, l’ennesimo partitino “civico” che vuole porsi in continuità con la politica del governo piddino di Gentiloni. Le tv di Berlusconi ogni giorno vanno all’assalto del governo gialloverde. Le tv della Rai peggio che mai. Il governo gialloverde sembra non avere il controllo degli apparati pubblici, anche di quelli ministeriali, del cosiddetto Deep State, lo Stato profondo, tutto al servizio dell’ideologia eurista.

Sta prendendo forma lo scontro tra sovranisti populisti ed “euristi”  che nei prossimi mesi si farà  sempre più intenso fino alle elezioni europee di maggio. Se vinceranno gli euristi la gabbia che ora imprigiona i popoli europei si chiuderà per decenni. Se vinceranno i sovranisti la gabbia esploderà ed allora due scenari saranno possibili: o ciascuno per sé  oppure – soluzione da noi auspicata, perché al punto in cui siamo l’attuale Ue è irriformabile – un nuovo inizio verso la costruzione di una autentica Europa, cristiana, di popoli liberi ed eguali. Sul modello “asburgico” di fine ottocento, volendo citare una esperienza, uccisa sul nascere, di pluralismo confederativo del passato.

Preferiamo il termine, inusuale nel dibattito in corso, di “euristi”, per indicare gli oligarchi di Bruxelles ed i loro manutengoli accademici, mediatici, partitici, perché riteniamo che sia un grande errore definire  “europeiste” le forze che sostengono l’attuale status quo eurocratico. Definendole europeiste si regala loro un titolo troppo nobile, che esse non meritano affatto. Non possiamo accettare che gli euristi facciano propria la grande eredità culturale lasciataci dai “padri dell’Europa” intesa come civiltà, da Carlo Magno a Carlo V, da Dante a Petrarca, dall’Aquinate a Carl Schmitt.

E’ stato l’attuale ministro agli affari europei, Paolo Savona, a spiegare, nella sua conferenza stampa dell’8 ottobre scorso, la necessità di una “europeizzazione del cambiamento” ed a farsi portavoce del diffuso e comune bisogno di riforme dell’architettura istituzionale nata dal trattato di Maastricht. L’Unione Europea è un vero e proprio ircocervo, un monstrum. Nell’Europa di Maastricht la politica monetaria, per assecondare le fobie tedesche per l’inflazione, è stata sottratta alla sovranità degli Stati ed affidata ad un istituto central-bancario sovranazionale, a carattere sostanzialmente privatistico, la Banca Centrale Europea, con – attenzione! – la sola mission di sostenere la stabilità della moneta e dei prezzi e non anche,  come accade per tutte le altre banche centrali al mondo, l’occupazione. Agli Stati è riservata, separata da quella monetaria, soltanto la politica fiscale, quella del bilancio e della spesa pubblica, ma “ingabbiata” in parametri senza alcuna base scientifica (il 3% ed il 60% sono stati inventati da oscuri funzionari e non corrispondono ad alcuna istanza scientificamente valida) che, nel tempo, hanno dimostrato tutta la loro rigidità meccanicistica e la loro incapacità di adattamento flessibile a fronte del mutare delle condizioni storiche ed economiche.

Come è stato evidenziato dal 2008: scoppiata la crisi immediatamente tutti i governi al mondo, sostenuti dalle proprie banche centrali, hanno risposto con stimoli fiscali imponenti e provvedimenti anti-ciclici, mentre solo nell’eurozona la BCE ha continuato, dogmaticamente, a restare passiva raccomandando, nella convinzione che il “Santo Mercato” aggiustasse tutto da sé, l’austerità. Fino a quando, di fronte all’evidente replica della realtà ed al rischio di deflagrazione dell’euro, Mario Draghi ha messo un momentanea pezza, rinviando il disastro, mediante un tardivo “quantitative esasing”, ossia un alleggerimento quantitativo. La BCE solo nel 2012 ha iniziato a stampare moneta, cercando con notevoli sforzi, data l’impostazione filo-bancaria dell’architettura europoide, di evitare che tale flusso di denaro rimanesse inerte nelle banche senza raggiungere l’economia reale. Al contempo essa iniziò l’acquisto dei bond del debito pubblico degli Stati in difficoltà ma condizionando – onde ammansire i tedeschi – tali acquisti alle riforme strutturali, ovvero alla demolizione di quel che resta della sovranità e del welfare. Dove si è tentato di non obbedire, di non accettare le condizionalità per l’acquisto da parte di Francoforte del debito pubblico nazionale, ad esempio in Grecia, la BCE di Mario Draghi ha chiuso i rubinetti, lasciando le banche prive di contanti mentre i cittadini, disperati, correvano a ritirare il proprio denaro dai depositi.

Teoria quantitativa della moneta

Non può darsi alcuna convivenza politica, tra singoli o gruppi sociali o nazioni, se la politica fiscale e quella monetaria non vanno di pari passo. E’ quel che attualmente accade nell’eurozona in mancanza di luoghi di concertazione tra governi nazionali, commissione europea e banca centrale. L’euro, la moneta unica, invece di unire, come promesso dall’eurocrazia, i popoli, li ha divisi in reciproci odi: tedeschi contro italiani, ungheresi e polacchi contro francesi, francesi contro italiani, spagnoli contro greci e greci contro tutti.

La pretesa di una assoluta indipendenza della Banca Centrale dal Politico è una pretesa fragile frutto di un dogmatismo ideologico le cui radici devono essere cercate nella “teoria quantitativa della moneta”. Tale teoria – considerando la moneta alla stregua di una merce – postula un rapporto di causa/effetto automatico tra aumento della massa monetaria e conseguenziale aumento dei prezzi. Quella della moneta-merce è una prospettiva strabica che proviene dai tempi nei quali la moneta era metallica e che, erronea già in quei tempi, mostra ancor di più la sua fallacia oggi che essa è carta, senza copertura aurea, e sta diventando un mero input informatico.

Secondo la teoria quantitativa gli accrescimenti della massa monetaria precedono l’aumento dei prezzi e quindi determinano l’inflazione. Tuttavia le cose, alla verifica storica, non sembrano stare così. L’inflazione è dovuta a molteplici fattori esogeni. Essa è, in genere, causata da aumento dei costi di produzione (materie prime, tasse, salari) o da un eccesso di domanda di beni a fronte di una offerta carente. Si parla, per l’appunto, di inflazione da costi o di inflazione da domanda. La verifica storica consente di ritenere che la sequenzialità sia esattamente contraria a quella postulata dalla teoria quantitativa. Prima interviene l’aumento dei prezzi e dopo, in conseguenza a detto aumento, cresce, onde rincorrere i prezzi in ascesa, la massa monetaria, ossia la provvista di moneta chiesta da parte di imprese e famiglie, intesa non solo come massa di moneta legale (M1, secondo la nomenclatura adottata dagli economisti) ma anche come massa di moneta bancaria, creata ex nihilo dalle banche quando esse accendono prestiti che funzionano, parallelamente a quella legale, come quasi-moneta (M2).

Infatti, un altro mito (neo)classico da sfatare è quello per il quale i depositi bancari precedono i prestiti. Accade esattamente l’inverso. Sono i prestiti a precedere i depositi dato che le banche, nella loro prassi quotidiana, aprono in continuazione linee di credito allo scoperto, senza cioè copertura in moneta legale. Questa arriverà solo in un momento successivo, quando il prestito concesso allo scoperto, agendo come quasi moneta, avrà messo in moto l’economia, quindi la produzione di beni reali ed infine il loro scambio in moneta legale, o in altra moneta bancaria, la quale finisce a copertura dei prestiti inizialmente concessi allo scoperto.

Va notato che questo della creazione ex nihilo di moneta bancaria è lo stesso identico meccanismo del deficit spending statuale, che Keynes suggeriva agli Stati come strumento anti-ciclico. Quando parla di deficit spending, ossia di spesa pubblica maggiore delle entrate fiscali, Keynes non intende la monetizzazione da parte della banca centrale del fabbisogno di bilancio dello Stato. Questa è una prassi, oggi vietata nell’eurozona, che ha sì reso possibile le politiche keynesiane di spesa pubblica ma non è esattamente quel che nella sua teoria l’economista inglese intende per spesa a deficit. Il deficit spending keynesiano è l’insieme delle promesse di pagamento statali, per beni, opere e servizi pubblici, che, mediante il loro trasferimento da operatore ad operatore, stimola, come fosse moneta legale, il mercato. In un qualsiasi bilancio pubblico la “cassa”, ovvero la massa di moneta legale depositata presso il tesoriere, non ha necessaria corrispondenza – salvo nel caso di pareggio di bilancio – con le attività contabilmente iscritte sul fronte della spesa, ovvero le uscite, nella “competenza”, la quale è soltanto l’astratta contabilizzazione numerica, misurata in valuta legale, delle partite del dare ed avere. Le uscite di competenza, pertanto, possono, in qualsiasi momento, essere superiori all’indistinta massa monetaria reale della cassa. Anche il deficit spending, dunque, funziona come una promessa statuale di pagamento allo scoperto che riavvia l’economia e che viene coperta, in moneta legale, mediante la tassazione, solo a conclusione del ciclo produttivo. Ma – ed è questo un altro indice del carattere bancocentrico dell’Unione Europea – nel regime eurista allo Stato è imposto il pareggio di bilancio ossia è vietato fare quel che invece è riconosciuto liberamente alle banche ovvero creare moneta dal nulla.

Non è la quantità di moneta legale in circolazione ha determinarne il valore ed il conseguente potere d’acquisto. Un accrescimento della massa monetaria può influenzare i prezzi solo in modo indiretto ovvero accrescendo la domanda di beni. Tuttavia, nel  caso di inflazione da domanda, l’inflazione si manifesta solo in presenza di una rigidità dell’offerta – c’è più domanda di un bene rispetto a quanto ne è prodotto e quindi il suo prezzo aumenta – e non certo, come sostiene la teoria quantitativa, perché la moneta perde valore in quanto quantitativamente eccessiva, come accade alle merci. Si badi che la moneta perdeva il suo valore a causa dell’inflazione da costi o da domanda, non per la sua quantità in circolazione, anche ai tempi della moneta aurea. Infatti il valore della moneta, in quei tempi, non stava nell’oro – che in quanto raro non era molto usato nelle coniazioni ricorrendosi invece ai metalli più disparati, persino vili, o anche ad altre materie non metalliche, dalle conchiglie alle pelli d’animale, dal legno alle pietre – ma nel valore nominale che ad essa, alla moneta coniata, veniva assegnato dal Sovrano, monarchia o repubblica che fosse.

L’alta inflazione degli anni ’70 del secolo scorso, ad esempio, fu determinata dall’aumento del costo del greggio, causato dal blocco da parte dei paesi produttori, cui – attenzione! – seguì l’aumento della massa monetaria causata della maggior domanda di moneta che proveniva dagli Stati industriali per approvvigionarsi delle ridotte e più costose forniture di petrolio. Nel caso di specie, si trattava di dollari americani (i cosiddetti petroldollari), che furono iniettati sul mercato per inseguire l’aumento del prezzo del greggio. Non fu l’iniezione di liquidità a provocare l’aumento del prezzo del petrolio ma fu questo aumento, dovuto ai contraccolpi del conflitto arabo-israeliano nel Vicino Oriente, a spingere la domanda di moneta e di, conseguenza, le banche centrali a stampare più moneta e le banche ordinarie ad aumentare il livello dei prestiti allo scoperto. Ci sono riscontri grafici e statistici oggettivi di questa sequenzialità durante i due shock petroliferi del 1973 e del 1979. Quindi, in genere, l’accrescimento della massa monetaria (anche sovente in forma di moneta bancaria, non solo legale) segue l’aumento dei prezzi. Non accade il contrario.

Ordoliberismo

La “teoria quantitativa” è un residuato dell’economia liberale classica, riportato immeritamente in vita a partire dagli anni ’80 dal monetarismo di Milton Friedman, e risponde ad una concezione politicamente conservatrice. Essa è parte del bagaglio concettuale di chi perora politiche dal lato dell’offerta, ossia favorevoli ai soli interessi del capitale sia finanziario che industriale. Partendo dall’assunto che la moneta o ha una base aurea che ne controlla automaticamente la quantità oppure deve essere controllata quantitativamente dall’Autorità central-bancaria, la teoria quantitativa svolge il ruolo di cornice concettuale per le politiche, appunto conservatrici, di austerità. Come quelle imposte dall’Unione Europea che è nata sui presupposti, classici e quantitativisti, dell’ordoliberismo tedesco. Presupposti che, con Maastricht, sono stati sottoscritti da tutti gli Stati aderenti alla moneta unica europea.

L’adesione al parametro ordoliberale tedesco avvenne per svariate ragioni. Nel caso della Francia per strategia: Mitterand voleva legare la riunificata Germania, ed il suo forte marco, ad una unità monetaria che permettesse a Parigi di non subire il dominio tedesco. Tuttavia Kohl, furbamente, pose come condizione dell’adesione della Germania all’euro che la moneta unica nascesse sui criteri monetari di Berlino. Nel caso dell’Italia per speranzoso affidamento alla buona sorte nell’auspicio della futura unione politica: i Carli, i Ciampi, i Draghi sapevano quali conseguenze la moneta unica avrebbe avuto sull’Italia, che con essa rinunciava, a fronte della aggressiva concorrenza tedesca, alla protezione fino ad allora assicurata dalla libertà di cambio, e tuttavia sperarono che, dopo l’unione monetaria, sarebbe arrivata quella politica e con essa la condivisione del debito pubblico, non più nazionale ma europeo.

Bisogna, infatti, capire che l’euro, più che una moneta, è una dottrina economica ben precisa, nata in Germania. Stiamo parlando dell’ordoliberismo, una variante “statualista” del liberismo classico che – senza minimamente mettere in discussione tutti i capisaldi della concezione classica, compresa la teoria quantitativa della moneta e l’indipendenza della banca centrale, votata esclusivamente alla stabilità monetaria e dei prezzi – assegna allo Stato, sul presupposto che se si eliminano gli ostacoli al suo corretto funzionamento il mercato è sempre in equilibrio nonché capace di ritrovarlo in caso di shock, il ruolo di garante e custode del meccanismo di funzionamento del libero mercato attraverso opportune normative antitrust, a tutela della concorrenza, ed attraverso politiche di contenimento antiinflazionista dei salari e della massa monetaria.

Secondo la dottrina ordoliberista lo Stato deve dotarsi di una apposita “costituzione economica” che, come primo principio, sancisca il pareggio di bilancio ossia il divieto di spesa pubblica in deficit. In altri termini lo Stato è dall’ordoliberismo concepito soltanto come un regolatore del mercato. Esso non deve essere altro che la “cornice istituzionale” – quasi una sovrastruttura in senso marxiano – del meccanismo di mercato. Solo il mercato, sempre per dirla nei termini marxiani inconsapevolmente fatti propri dagli ordoliberali, per il suo supposto carattere naturale anziché meramente storico, è la struttura fondante, alla quale lo Stato fa da mera intelaiatura sovrastrutturale. Lo Stato, uno Stato – attenzione – forte anche se “cornice del mercato”, è qui chiamato a “pianificare”, attraverso l’opportuna regolazione del suo funzionamento, il mercato.

Nella prospettiva ordoliberale allo Stato è espressamente vietato qualsiasi intervento in economia che non sia di tipo esclusivamente regolativo onde evitare inceppamenti nel funzionamento del mercato. Gli ordoliberisti più “statualisti”, come Alfred Müller Arnach, ammettono interventi dello Stato ma solo  se “conformi al mercato”. Come, ad esempio, i trasferimenti di denaro pubblico medianti voucher e non mediante la spesa pubblica diretta dello Stato.

Appartiene al novero delle proposte ordoliberali anche il cosiddetto “reddito minimo garantito” che esiste, non a caso, in Germania, in Francia e in quasi tutti i Paesi europei. Ed è raccomandato da ben precise direttive dell’Unione Europea. Quel che va apprestandosi ad introdurre anche in Italia il governo gialloverde è appunto il reddito minimo garantito benché sotto l’improprio ed erroneo nome di “reddito di cittadinanza”. Quest’ultimo, caldeggiato dalla sinistra radicale ed antagonista in una prospettica utopica di fine del lavoro, infatti, è altra cosa: il reddito minimo garantito è dato solo ai disoccupati ed è condizionato alla formazione professionale ed all’accettazione delle occasioni di lavoro offerte, laddove invece il reddito di cittadinanza, in senso proprio, è dato a tutti, ricchi e poveri e senza condizioni, ossia senza formazione professionale, solo in virtù dell’essere cittadini. Il reddito minimo garantito è una proposta in origine ordoliberale perché esso è, in realtà, visto in un’ottica “offertista”, ossia dal lato del capitale, è funzionale quale calmiere delle tensioni sociali. In un’ottica economica dal lato dell’offerta esso serve ad evitare che la disoccupazione inceppi il meccanismo di mercato e, al contempo, a scaricare sull’erario pubblico tutti i costi sociali della formazione professionale dei disoccupati, impedendo che detti costi ricadano sul capitale. Anzi  mettendo a sua disposizione una offerta di lavoro, magari qualificato, senza che esso abbia minimamente contribuito alla spesa per la sua formazione, se non per via fiscale e non anche per via di specifica cooperazione finanziaria in un quadro di responsabilità sociale dell’impresa.

Questa intelaiatura statualista, rivendicata dall’ordoliberismo, ha fatto in modo che a suo proposito si parlasse, troppo enfaticamente, di “interventismo liberale”. Il suo “statualismo di cornice” è una eredità dell’epoca di nascita di tale scuola e dal clima culturale, impregnato di hegelismo, nel quale essa si è formata. Infatti, benché quasi tutti i suoi esponenti fossero cristiani, è innegabile che la loro impostazione teoretica non risentisse dell’hegelismo egemone nella cultura germanica. L’apporto, poi, più protestante che cattolico, benché non sia mancato neanche questo, all’ordoliberismo è significativamente indicativo dell’influsso idealistico nella cultura degli ordoliberali, dato che le premesse della filosofia hegeliana sono tutte già in Lutero.

L’ordoliberismo nasce, negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, dal pensiero di alcuni studiosi dell’Università tedesca di Friburgo, come il già citato Müller Arnach ed altri tra i quali Walter Eucken e Ludwig Erhard, quale risposta liberale alla crisi del liberismo classico. Crisi che fu imputata dagli ordoliberali al fatto che il liberismo classico, trascurando il necessario ruolo dello Stato quale cornice istituzionale regolatrice della concorrenza, aveva lasciato che, a causa di uno sregolato laissez faire, si generassero gli oligopoli e si  inceppasse così il corretto funzionamento del mercato. Lo Stato, sostenevano i teorici di Friburgo, imponendo normative antimonopolistiche, era appunto chiamato a ripristinare il buon funzionamento del mercato.

In genere viene taciuto, dai suoi cultori, il fatto che l’ordoliberismo, nella temperie tedesca degli anni tra le due guerre mondiali, rappresentò l’ala destra della “Rivoluzione Conservatrice”, il movimento intellettuale, politico e, poi, anche di massa, che consentì la riaffermazione nazionale della Germania sconfitta nel 1918 e la cui ala più a sinistra, oltre lo stesso nazionalsocialismo, era la corrente nazional-bolscevica. Molti ordoliberali, infatti, inizialmente applaudirono, quali fiancheggiatori di destra, all’avanzata nazista – non avendo compreso subito il carattere dirigista ed interventista della politica economica propugnata dal nazionalsocialismo – ed anche dopo che il regime si era consolidato continuarono ad intrattenere rapporti con i suoi esponenti più conservatori, quindi meno ideologicamente indottrinati, nell’auspicio di una futura svolta liberista del potere nazista. All’ordoliberismo, quale dottrina economica del dopoguerra, guardavano i congiurati dell’operazione Valchiria, ossia il tenente colonnello Claus von Stauffeberg e gli altri generali conservatori della Wehrmacht, quando tentarono il 20 luglio 1944 di assassinare Hitler.

In quanto attento, nel quadro di uno Stato forte che ponga le regole del perfetto funzionamento del meccanismo di mercato, all’Ordine Economico Nazionale, l’ordoliberismo si presenta come una dottrina a suo modo nazionalista. Il suo è un “nazional-patriottismo economico” che assegna allo Stato tutto il potere necessario per imbrigliare i sindacati in nome della collaborazione nazionale e porre la condizioni istituzionali nelle quali al capitale è assicurata una marcata libertà di manovra, nel mentre lo Stato si adopera a contenere le tensioni sociali mediante politiche sociali pensate in termini di supporto per il mercato. Il nazionalismo ordoliberale è il nazionalismo del capitale, delle classi egemoni che non vogliono affatto venire a patti con il lavoro e con le classi popolari ed i ceti medi. Non è un nazionalismo di popolo, non auspica un patriottismo sociale o addirittura socialista ma, al contrario, guarda al naturale e buon sentimento patrio, innato in ogni uomo, anche nei lavoratori, come ad una leva da usare per minimizzare le pretese di redistribuzione sociale della ricchezza.

Il “nazionalismo economico” – ossia il nazionalismo di classe dei ceti superiori, il nazionalismo del capitale industriale-finanziario – propugnato dall’ordoliberismo concorre a meglio far comprendere il suo carattere “statualista”, lo Stato a servizio del Mercato e del Capitale, ed i motivi per i quali esso non poteva che formarsi nel clima culturale della Germania luterano-hegeliana. Alfred Müller Arnach, negli anni ’20, simpatizzava pubblicamente con l’Italia di Mussolini. Era, quella, l’Italia del fascismo deviato verso il compromesso con i fiancheggiatori di destra, dai liberali nazionali ai nazionalisti di Rocco. La stessa simpatia il teorico ordoliberale non avrebbe mai potuto avere per il fascismo di sinistra dei Bottai, dei Panunzio, degli Spirito, dei Cianetti, dei Bombacci e dello stesso Mussolini o per quello del programma socialista del ’19 e della Carta socializzatrice di Verona del 1943 o, ancora, per il fiumanesimo dannunziano e deambrisiano della Carta del Carnaro del 1920.

L’ideologia del nazionalismo tedesco (e francese)

L’ordoliberismo è comunemente conosciuto come “economia sociale di mercato” ma, in realtà, è una concezione di tipo liberal-conservatore che auspica politiche dal solo lato dell’offerta, ossia politiche d’austerità e di contenimento del livello di remunerazione del lavoro. Come ogni politica conservatrice, esso alla lunga porta diritto verso la deflazione e la depressione economica. I fatti dell’eurozona lo hanno ancora una volta apertamente dimostrato in questi ultimi anni.

L’euro, dunque, risponde a questa visione dell’economia che è alla base dell’egemonia nazionale tedesca, o franco-tedesca, sul resto d’Europa. Motivo per il quale la Germania difende a denti stretti lo status quo eurocratico costruito intorno al suo nazionalismo economico e garante del suo mercantilismo aggressivo, in particolare verso le economie euro-mediterranee ridotte a proprie colonie. La Germania non vuole alcuna confederazione europea, che significherebbe mettere in comune il debito sovrano mediante gli eurobond, ma pretende che nessuno Stato vassallo esca dalla moneta unica riappropriandosi così della propria libertà di cambio monetario per fare concorrenza, mediante opportune svalutazioni, ai prodotti tedeschi.

L’Unione Europea è, attualmente, la copertura istituzionale del nazionalismo tedesco e del nazionalismo francese, che lo segue a ruota. Sono questi e soltanto questi gli unici nazionalismi realmente pericolosi e distruttivi nell’attuale scenario europeo. Nazionalismi conservatori, “nazionalismi del capitale apolide” (quello che, per dirla con il Pio XI della “Quadragesimo Anno” del 1931, la Patria è il luogo dove si sta bene ovvero il luogo dei buoni affari) e non del lavoro, delle élite finanziario-industriali e non del popolo, dell’offerta e non della domanda. Francia e Germania, dopo essersi sanguinosamente combattute per due volte sui campi di battaglia nel 1914-18 e nel 1939-45, hanno compreso che dovevano unire i reciproci nazionalismi per assicurarsi un condominio sul resto del continente.

I tanto vituperati sovranismi, i tanto bistrattati populismi, sono soltanto reazioni difensive, immunitarie, di fronte all’egemonia del capitale franco-tedesco votato alla conquista transnazionale degli altri popoli. I sovranismi rappresentano un tentativo di fronteggiare questo dominio neocoloniale intra-europeo. L’eurocrazia, a guida franco-tedesca, ne è perfettamente cosciente anche se, come la nomenklatura sovietica, è incapace di riformarsi perché ogni cambiamento nell’architettura istituzionale dell’Unione Europea, nel senso ad esempio indicato da Paolo Savona, significherebbe la fine dell’egemonia di Berlino e di Parigi. Londra, che lo ha capito, ha fatto Brexit. Probabilmente l’inizio del disfacimento dell’Unione Europea, un disfacimento che potrebbe durare anche a lungo, sarà segnato dal probabile ingresso nel prossimo parlamento europeo, in misura ampia, dei partiti sovranisti. Anche nel caso in cui essi non raggiungessero la maggioranza. Non sarà, forse, l’internazionale dei sovranismi auspicata da Bannon, perché le differenza tra essi sono a volte abissali, ma certamente sarà una presenza alquanto rumorosa.

Le ambiguità del sovranismo

Quella dei sovranismi non potrà essere una “internazionale” perché essi sono caratterizzati da una estrema varietà di posizioni politiche, trasversali lungo lo schieramento destra-sinistra. Nessuna internazionale sovranista sarà possibile almeno fino a quando il sovranismo non taglierà ogni ponte con prospettive politiche conservatrici e neoliberiste che troppo continuano a condizionarlo, per finalmente approdare ad un identitarismo di popolo, sociale o addirittura socialista, nemico del capitale apolide che, come nel caso francese e tedesco, si nasconde dietro il “patriottismo economico”.

Abbiamo, infatti, sulla scena europea populismi liberisti come quello dell’Afd tedesca e populismi sociali come quello del Front National della Le Pen in fase di riconversione neogollista. Sovranismi “conservative” come il partito di Nicholas Farage e sovranismi nazional-cristiani come quelli dell’est europeo ex sovietico, Polonia innanzitutto ma anche il partito di Orban in Ungheria sospeso tra il popolarismo che guarda al centro ed un sovranismo molto ambiguo nelle sue politiche economiche tendenti a favorire l’offerta e, contraddittoriamente con il patriottismo, l’afflusso e quindi la dipendenza nazionale dai capitali esteri. Ed ancora, sovranismi di sinistra come quello di France Insoumise di Mélenchon, che ha rotto con “Sinistra Europea” accusandola di essere pro-austerità, o il portoghese Bloco de Esquerda o i nostri 5Stelle e sovranismi, come l’italiana Fratelli d’Italia, eredi dell’esperienza storica del fascismo sociale ma troppo attratti dalle sirene conservatrici dell’alleanza di centro destra. Sovranismi in sospensione tra secessionismo da heimat regionalista e nouvelle vague nazionale come quello della Lega di Salvini e sovranismi dichiaratamente  socialisti nazionalisti come quello di Casapound. Sovranisti sono, a modo loro, anche gli indipendentisti catalani o scozzesi o bavaresi mentre in Spagna stanno riconquistando ampi spazi politici gli eredi del falangismo originario, fortemente sindacalista, che trova sponda persino nel suo antagonista di sinistra ossia Podemos. Le recenti elezioni svedesi, poi, hanno visto emergere una destra sovranista, alquanto liberista in economia, ma anche una sinistra sovranista mentre in Grecia i transfughi di Syriza hanno dato vita ad una sinistra nazionalista che fa concorrenza elettorale, tra gli stessi ceti sociali massacrati dalla Troika, alla neonazista Alba Dorata.

Insomma il panorama del sovranismo è vario ed ambiguo mentre il futuro dell’Unione Europea è pieno di incognite. Siamo in un momento storicamente molto interessante. Lo scenario peggiore, però, sarebbe – ed è il pericolo che corrono maggiormente i sovranismi che si autocollocano a destra o nel centrodestra – quello nel quale il sovranismo, per le sue molte incertezze ed ambiguità, diventasse omologo, benché su scala nazionale, alle politiche conservatrici, quelle in chiave di sola offerta. Il rincorrere vecchie ricette monetariste come la flat tax, guardare sempre alle esigenze di flessibilità del lavoro invocate dagli imprenditori e mai alle necessità, ai fini di rilancio della domanda e quindi dell’economia, della tutela e stabilità del lavoro, non prendere di petto il problema della ripubblicizzazione e rinazionalizzazione del debito sovrano, possono essere fatali a quei sovranismi che non vogliano limitarsi a recitare il ruolo di un liberismo in chiave populista e magari anche protezionista, alla Trump per intenderci.

Mentre il sovranismo è alle prese con le sue finora non risolte contraddizioni, assistiamo al contempo ai contorsionismi epocali di una sinistra in preda al panico per la concorrenza subita, tra le classi popolari, dagli emergenti populismi e che, di conseguenza, si fa incantare dall’alternativa transnazionale federalista. Syriza ci ha provato e si è visto come è andata a finire. Se l’alternativa non è nel nazionalismo chiuso ed aggressivo , essa non è neanche nel transnazionalismo. La sinistra deve iniziare a capire che anche l’operaio ha una patria e che i lavoratori – pena il diventare lo strumento del globalismo capitalista – non possono ripudiare la propria identità nazionale mentre rivendicano il giusto salario in nome della redistribuzione sociale della ricchezza ossia togliendo al profitto, al capitale, quanto esso ha negli ultimi quarant’anni, in marcia verso la globalizzazione, sottratto al lavoro. La sinistra sovranista, quella alla Mèlenchon, sembra averlo capito ma è minoritaria perché la globalizzazione funge, a sinistra, come un surrogato del perduto internazionalismo marxista.

L’unica alternativa all’“eurismo” in Europa – ed in genere alla globalizzazione nel mondo – alla lunga è nelle nazionalità, nelle identità popolari, nelle loro radici anche spirituali e religiose. Tuttavia esse da sole non bastano. Dopo averle ristabilite bisogna, poi, tenere unite le nazioni senza negarle. Questo obiettivo – anche in tal caso abbiamo l’esperienza storica che lo attesta – sarà però possibile soltanto nel quadro di una superiore modalità di convivenza tra popoli che solo un modello “imperiale”, come l’Europa ne ha già conosciuti nella sua storia, può garantire. Senza  pensare, naturalmente, alla restaurazione degli antichi troni. Stiamo parlando di un modello, quasi di un archetipo, non di nostalgie monarchiche o dinastiche.

Luigi Copertino