Il Bel Paese là dove ‘YES’ suona

di Roberto Pecchioli

E’ stato un duro week end: per fortuna ho potuto assistere alla finale della Champions League in streaming, poiché non sono abbonato alla Pay-tv. Alcuni amici mi hanno chiesto la mia opinione sul job act e sulle agenzie di rating. Ho risposto che la prima follia è stata accettare il fiscal compact. Un mio parente è candidato sindaco , ed aspetta con ansia l’election day. Mi ha chiamato sullo smartphone, e gli ho risposto con un SMS (short message system). Poi sono uscito per prenotare delle analisi mediche, ma ho dimenticato la card per pagare il ticket all’Azienda sanitaria. Alla messa domenicale, il curato, giustamente, ha tuonato contro la stepchild adoption e la teoria del gender, pur riconoscendo cautamente i diritti gay . In ufficio, ho dovuto fare da tutor ad un collega che sta svolgendo training on the job e , nel pomeriggio, si è dedicato all’ e-learning. Non ho avuto il tempo di controllare sul computer le email della mia casella di posta elettronica. Dai media, ho appreso le news , tra una fiction sulla mafia e innumerevoli spot pubblicitari.

In poche righe di nonsense ( ahi, ahi, ahi !) ho utilizzato circa venticinque termini estranei alla lingua italiana, due dei quali – tutor e media – sono tratti da una meravigliosa lingua morta , il latino, che è la madre dell’italiano e la levatrice della nostra civiltà, ma vengono spesso pronunciati all’americana, “tiutor” e “midia” per ignoranza di molti,  poiché si dà per scontato che la parole nuove vengano tutte dalla Merica, il paese del sogno, anzi dell’American Dream, che ha prodotto quella cosa pessima ed appiccicosa chiamata american way of life, il modo americano di vivere – e di imporre agli altri.

Ogni anno, la fiorentina Accademia della Crusca, solitaria Fortezza Bastiani a difesa della lingua italiana, registra centinaia di nuovi lemmi, e sono molti quelli di ascendenza inglese. Le lingue sono vive proprio perché cambiano, e si adattano alle realtà che cambiano. Ad esempio, se noi oggi citiamo la “legge delle guarentigie”, molti italiani fanno fatica a capire che guarentigia è il termine giuridico ottocentesco per garanzia e che , nello specifico, si tratta della norma a tutela delle prerogative del papato dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Un idioma cambia e non ci si può chiudere in difesa , chiamare tenzone un combattimento o fantesca una giovane domestica.

Il nostro idioma muta più di altri, giacché la storia comune  ha fatto sì che l’italiano fosse soprattutto una lingua letteraria e veicolare per i colti da Trento alla Sicilia durante secoli, ma che divenisse effettivamente la lingua di tutti gli italiani da meno di un secolo . Durante la prima guerra mondiale, molti soldati, poveri contadini gettati nella bufera, non capivano gli ordini degli ufficiali, pronunciati in italiano e, per converso, la marina del nemico austriaco aveva come lingua franca proprio l’italiano, poiché la maggior parte degli equipaggi erano triestini, istriani e dalmati, ed ignoravano il tedesco, lingua dell’impero.

Il punto è che l’italiano rischia seriamente di scomparire, attaccato frontalmente dall’inglese tecnologico ed economico di importazione americana , accolto in maniera pigra, acritica, talora francamente ridicola, dai giornalisti e dagli operatori dell’informazione, che impongono decine, centinaia di termini che ogni altro popolo traduce tranquillamente nella propria lingua. Per rimanere alla più stretta attualità, i francesi stanno manifestando contro la “loi du travail”, fotocopia della nostra, che noi chiamiamo jobs act, e chi scrive chiama ironicamente Giobatta, in Liguria diminutivo di Giovanni Battista.

Centinaia e centinaia di milioni di francofoni, ispanofoni  e di lingua portoghese definiscono il computer “ordinatore”, e nessuno, tranne gli italioti, si sogna di nominare Champions League la nuova Coppa dei Campioni, giacché Lega dei Campioni è traduzione semplicissima ed egregia. Quanto al fine settimana, rari inguaribili puristi evitano come la peste il week end, e credo che solo il presidente dell’Accademia della Crusca sia disposto a chiamare, come è corretto, facsimile il fax, essendo la voce universalmente riconosciuta una semplice contrazione. Quanto al ticket, se scrivo biglietto, scontrino, tagliando, contromarca indico dei buoni sinonimi, ma non convincerò mai le Aziende Sanitarie. Chiamare Patto di Stabilità il fiscal compact , o affievolimento quantitativo il quantitative easing delle banche centrali è impresa vana, anzi espone il locutore alla ridicolizzazione. Uno strip tease è senz’altro più arrapante di un semplice spogliarello, un bond vale più di un buono del tesoro e, certamente, un fallimento è più grave di un default, così come un marchio industriale è meno attrattivo di un brand.

In un vecchio film, Maurizio Arena interpretava il ruolo di un ladruncolo cacciato di casa dalla compagna (o partner ?) che, disperato, urla alla donna: “Il nostro è più di un matrimonio, è un more uxorio!”   Per i non romanisti, nel senso del diritto romano, convivenza di tipo matrimoniale.  Ad un livello più alto, è famosa la risposta di Fra Cristoforo al buon converso Galdino, che si stupiva dell’accoglienza in convento di Agnese e Lucia , “omnia munda mundis” , tutto è puro per chi è puro, al che il fraticello, probabilmente illetterato, resplicò “Basta, lei ne sa più di me. “ Ma era latino. Oggi è facile osservare come, al di là della mutevolezza e della naturale plasticità di ogni parlata, l’introduzione di vocaboli stranieri  abbia una serie di motivazioni, tutte molto negative, diverse dalla logica dei tempi.

Da un lato, c’è l’esibizionismo dei falsi colti , il provincialismo tipicamente nostro che aspira sempre a conformarsi a modelli altrui, in ossequio all’antica esterofilia nazionale, gemella del più sciocco servilismo. Usare le parole straniere in qualche ambiente “fa fino” , ma in realtà altro non prova se non la condizione di colonizzati di troppi connazionali. Purtroppo, colonizzati felici o inconsapevoli, e, quel che è peggio, membri di una solida maggioranza.

Informatica ed economia fanno la parte del leone. La responsabile tecnologica del mio ufficio ha preannunciato una visita per fare un “benchmark”. Ho scoperto che si tratta di un software – test per la valutazione dell’ hardware (componentistica). Come Socrate, ho saputo di non sapere, e , per un breve attimo, mi sono considerato sapiente. Poi ho appreso che questo benchmark è anche un punto di riferimento per la valutazione dei fondi di investimento (hedge fund , forse), e sono crollato, come nell’occasione in cui mi è stato fatto rilevare che la corrispondenza d’ufficio deve essere redatta in corporate standard, e che nel sistema Intranet, comunque, esiste un template facilmente scaricabile. Ho ceduto, ed ho fatto il download, ma non chiedetemi di spiegarvi nella lingua di Dante di che cosa si tratta.

Il fatto è , appunto, che la nostra è la lingua di Dante e di altri geni. In italiano Galilei ha spiegato i massimi sistemi dell’universo ,  Leonardo ha ipotizzato con adeguate formule il volo umano, il Vasari ha commentato l’arte di secoli , San Francesco ha invocato Dio e la natura sorella, Leopardi ha scandagliato il cuore umano nelle sue straordinarie liriche. Il naufragare non è affatto dolce in questo mare…. Nello scegliere una maglietta tipo polo, la commessa mi ha assicurato che modello e colore sono trendy e cool. Sinceramente, non so che significhi, e mi sono limitato a pagare, in contanti, perché detesto le cards. C’è ,insomma, questa irritante ignoranza modaiola travestita da modernità che rapisce soprattutto i giovani, incapaci di esprimersi in un italiano accettabile, ma soprattutto gli operatori dell’informazione e dell’istruzione, anche universitaria, i quali non compiono alcuno sforzo per tradurre termini o concetti tecnici, politici o di costume d’importazione.

Qui la domanda sorge spontanea: si tratta di indolenza, malavoglia, imperizia, mancanza di istruzione da parte di costoro, investiti di responsabilità nei confronti della lingua e del popolo che la parla, o non siamo di fronte ad una precisa operazione di denazionalizzazione, sradicamento, imbarbarimento provocato ? Temo che ci sia un‘azione congiunta dell’ignoranza diffusa e della consapevole manipolazione linguistica, che, unite , producono un fenomeno di depauperamento lessicale, di vera e propria sostituzione di significanti, che diventano, inevitabilmente, sostituzione di significati.  Non mi riferisco solo alle intuizioni di Orwell, o alle scoperte di sociologia della comunicazione di Mc Luhan : se il mezzo è il messaggio, Giobatta, alias legge sul lavoro, alias Jobs Act veicola la normalizzazione del precariato, la sua minimizzazione dietro la pretesa neutralità scientifica di un sintagma che , suggeriscono senza parere, è universalmente accettato.

Penso a cretinate come l’election day, ma a votare in più comuni ci siamo sempre andati, a battaglie  condivisibili, tipo no tax day – ma forse rivolta fiscale è troppo duro, anzi hard – allo stesso week  end, che sa tanto di ferie coatte, obbligo di partecipare alle transumanze di massa verso le località turistiche, con relative code in autostrada, tutto per il PIL e per combattere lo stress da lavoro di generazioni nomadi ,insicure , bisognose di continue sollecitazioni. In Francia hanno una bella espressione, metro, boulot, dodo: pendolarismo, lavoro e poi a dormire. Il week end è differente dal fine settimana, ci si affranca dalla routine – che almeno è francese –  e da un esistenza da robot  (ci crediate o meno, è lingua ceca ) e via, all’ outlet ( le rimanenze…) o allo sballo. In più, c’è l’arcano, sempre fascinoso per gli italiani, che sono dei bamboccioni , o choosy, nella colta lingua di legno della professoressa Fornero, che non aveva tutti i torti, della parola nuova, che viene da lontano, da quell’America , da cui procedono tutte le novità, tutte le idee del mondo nuovo, così distopico per noi, così pieno di promesse per i poveri di spirito.

Ha qualcosa di eufemistico , Giobatta, se il precariato diventa Jobs Act , e l’invertito è felice, anzi gay. L’adozione di bambini da parte di omosessuali è più accettabile, se tutti la definiscono stepchild adoption. Qui entra in scena anche il politicamente corretto, che però, per funzionare sino in fondo deve essere capito , e mi viene in mente il concetto di “danni collaterali”, ossia i morti, i feriti e le distruzioni dei bombardamenti, che, peraltro, essendo svolti durante missioni umanitarie, non fanno troppo male, come il fuoco amico o le pallottole vaganti.

Ecco, una pallottola vagante , anzi ormai un bombardamento vagante, è l’operazione di smontaggio della lingua italiana. Un popolo che viene privato del suo modo di esprimersi subisce un esproprio che è un crimine contro la storia. Samuel Johnson scriveva che ogni lingua è un particolare, specifico modo di rapportarsi con il mondo. Noi italiani abbiamo detto per generazioni “Ti amo” a chi ci sta nel cuore. E’ diverso, quel suono , da Ich liebe dich dei tedeschi o dal dolce S’Agapò dei greci. Noi tutti siamo nati da quelle due paroline, che i nostri genitori si sono detti chissà quando. Una lingua non è una successione di vocaboli o una serie di regole grammaticali. E’ la maniera in cui un popolo sente , vede e designa cose ed emozioni.

Nel Genesi, Dio , durante la creazione, dà un nome a ciascun elemento del creato : “Sia la luce!. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.” Solo quando le cose hanno un nome acquistano un significato, una singolarità che le anima e le distingue. Analoga è la cosmogonia del Corano, in cui il nome diventa così importante che niente sussiste davvero, prima di essere definito. Dio, ovvero Allah , poiché così si dice in arabo, riceve novantanove predicati, novantanove aggettivi che lo qualificano ciascuno in maniera distinta: egli è rahman, misericordioso, akhbar, grande, malik, re, e tanto altro.

La lingua italiana è l’elemento centrale della nostra identità. Non è un caso che sia stata letteralmente inventata da un poeta, Dante Alighieri, la cui poesia noi possiamo leggere e comprendere nel profondo in quella stessa lingua che egli ha plasmato , traendola dalle parlate di varie zone dell’Italia.

L’Italia non esisteva al tempo di Dante, né come entità politica né come sogno , ma quello stivale contornato dalle Alpi  con la Sicilia a lato, terra di Federico II e Cielo d’Alcamo con la sua rosa fresca aulentissima , era, per lui, il bel paese dove il sì suona ( Inferno, XXXIII ). Tutti gli abitanti di quella terra affermavano allo stesso modo, dunque c’era in loro qualcosa di importante in comune, il nucleo di una lingua che il genio fiorentino portò a vertici di bellezza e di significati straordinari. L’intera teologia e tutti i discorsi di vescovi e papi non reggono dinanzi ad un solo endecasillabo che è la sintesi del cristianesimo: “Vergine madre, figlia del tuo figlio “.

Questa lingua che è nostra non può essere lasciata in mano a quattro professorini della Bocconi che strologano di leverage  , bad bank o credit default swap, e neppure ai padroni dell’informazione che non consultano mai il dizionario per tradurre le nuove terminologie provenienti da New York, capitale del loro mondo. Non possiamo neppure sperare nella sensibilità dei docenti universitari di lingua, grammatica e letteratura italiana, troppo impegnati nei loro eruditi saggi , scritti unicamente a scopi di carriera o per polemiche autoreferenziali tra dotti. Del resto, chi li ascolterebbe, tenuto conto che la letteratura, dunque la lingua, come la filosofia, la storia o la geografia, “non serve”.

Tuttavia, impoverire, imbastardire, e, alla lunga, abolire la lingua italiana è un atto criminale. Una di lingua, trono ed altare , invocava Alessandro Manzoni. Ormai ridotto a poltiglia lo Stato, privato delle sovranità e di qualunque prestigio morale agli occhi dei suoi cittadini, sbriciolato il potere unificante del cattolicesimo, la cui gerarchia era ed è sempre più nemica giurata della Nazione italiana, resta la cultura, simbolo della quale è la lingua. La nostra non è una nazione fondata sulla comunanza di stirpe, con popolazioni di ascendenza araba, levantina, alpina, mitteleuropea. Perduta la lingua, che cosa ci resta ? Proprio per questo, ci si convince che l’alluvione anglofona, dalla quale è investito anche il resto d’Europa, ma solo da noi non trova resistenza, ma anzi entusiasti banditori, sia un altro dei meccanismi per distruggere lo spirito, l’identità, il sentire comune, la volontà di stare insieme del nostro popolo.

Ernest Renan sostenne che la patria è un plebiscito che si rinnova ogni giorno, ma non possiamo dire sì a noi stessi, se pensiamo yes. In qualche università pubblica, lezioni di economia e finanza vengono direttamente impartite in inglese. Ottima cosa contare su laureati  poliglotti, ma le nostre università devono formare nella nostra lingua e, qualunque sia l’indirizzo di studi, alla nostra lingua.

Non resta che resistere, espungendo il più possibile dai nostri discorsi e dai nostri scritti le parole straniere, ognuna delle quali ha necessariamente un corrispettivo in italiano, ed ancora più pretendere, da genitori, che l’insegnamento, vorrei dire l’addestramento all’uso dell’italiano sia considerato centrale nel percorso formativo degli studenti. In caso contrario, la neolingua dei messaggini diventerà genere letterario per incomprensione delle altre forme espressive, e nessuno sarà più capace neppure di immaginare la traduzione di centinaia di parole. Di più: come nei romanzi di Orwell e nel Mondo Nuovo di Huxley, poche decine di vocaboli ( in anglo- tecno- neolingua) basteranno per esprimere la povertà intellettuale, lessicale ed interiore di intere generazioni..

Presumibilmente, è quello che vogliono i nostri “superiori”. Hanno vita facile, nel call center  Italia, perché ci siamo trasformati senza problemi nel bel paese dove suona lo yes del consenso bovino, dell’indifferenza, della rinuncia a pensare, del servilismo becero. Understand ?

 

ROBERTO PECCHIOLI