AMERICANI IN AFRICA. A volte si ammazzano tra loro.

Il pubblico americano ha saputo  soltanto dal clamore mediatico sulla risposta di Trump alla vedova  del sergente La David Johnson che truppe statunitensi stanno operando segretamente in Africa. Il  caduto era il quarto di un reparto di forze  speciali   che guidavano soldati nigeriani  cadute in un’imboscata al  confine tra il Niger e il Mali il 4 ottobre. Un attacco “di terroristi a bordo di una decina di veicoli e una ventina di moto”, secondo gli scarsi resoconti,   il che fa pensare ad un vero e proprio evento bellico.

Ancora più scarso il clamore mediatico su un Berretto Verde ucciso a Bamako, Niger. Sì  perché il sergente Logan Melgar, 34 anni, è stato strangolato, ma non da  jihadisti: a  trucidarlo sono stati, pare certo, i colleghi dei Navy Seals.

Forze  speciali contro forze speciali Usa, rivalità di corpo.  E’ la tendenza dei reparti Navy Seals di andare fuori controllo, come sembra sia accaduto nella cattura di  un  Bin Laden (forse finto) ad Abbottabad in Pakistan, una insubordinazione conclusasi con  la morte di una trentina di quei ragazzoni-teste calde in quello che è stato  chiamato un incidente di elicottero. Ma dovunque appaiano, anche i comandi NATO in Afghanistan puntano il dito sull’indisciplina dei Navy Seals: circolano sui loro SUV modificati  in  T-shirt  e berretto da baseball,  ossia in abiti civili non obbediscono alla catena di comando,  oltrepassano i compiti assegnati. Anche il team 6 sospettato  di aver strangolato il Berretto Verde a Bamako  si comporta  così. Come il colonnello Kurtz nell’indimenticabile Apocalypse Now,   appena ne hanno l’occasione fanno la guerra come pensano meglio loro, coi loro metodi.

Ma cosa ci stanno a fare i militari Usa in quella vastissima area dell’Africa occidentale?

 

 

Il generale Mattis e l’ammiraglio McMaster, alla domanda dei giornalisti, hanno risposto all’incirca così:  se ci sono soldati Usa in quella zona dell’Africa, il popolo americano sia sicuro che sono lì per proteggere il popolo americano.

Il guaio è che il terrorismo islamico, soppresso in Siria e Irak, è miracolosamente  apparso qui  in più gran forza .  Anzi, si tratta proprio di quei terroristi dello Stato Islamico di cui   – secondo i nostri media –  la “coalizione internazionale  a guida  americana” ha liberato Rakka l’agosto scorso.  Come forse i nostri media hanno dimenticato di informarvi, i terroristi si sono arresi alle forze  arabo curde “democratiche” (ossia  anti-Assad), ossia sono stati lasciati passare indenni  con un accordo. Alcuni di loro si sono riconsegnati ai  servizi dei loro paesi rispettivi, venuti a prelevare  ciascuno i “loro”  tagliagole ormai  vicini ad essere annientati dall’offensiva siriano-irachena e dell’aviazione russa.

Del resto  la Commissione Difesa del Senato, capocciata da McCain, l’aveva profetizzato: “Più vinceremo in Medio Oriente, più vedremo i serpenti dirigersi verso l’Africa e  dovremo essere pronti a consigliare ed aiutare la nazioni disposte a lavorare con  noi”. Anche il capo di stato maggiore Dunford aveva avuto un presentimento: “La guerra sta per spostarsi. Non sono certo si possa dire che si sposterà verso l’Africa.  Abbiamo di fronte una sfida che si stende dall’Africa Occidentale al  Sud Est Asiatico.

Infatti, reparti jihadisti usciti da Rakka sono comparsi  in Myanmar, per aiutare i Rohynga,  con armamento pesante e tutto:  probabilmente per il noto fenomeno di “teleportation”, ampiamente usato in Star Trek.

Altri sono apparsi alla frontiera fra Egitto e Libia, incontrollabile estesa deserta. Il 20 ottobre, hanno ucciso 16 poliziotti egiziani nell’oasi di Bahariya; a  seguito di questo eccidio, i servizi  egiziani hanno  scoperto un campo di addestramento di  un centinaio di uomini. Molto ben equipaggiati anche con armi anti-carro.  In Libia, sono stati uccisi due uomini del generale Haftar,   uno per decapitazione (una firma):  rivendicato  da Daesh questo, il che è strano perché Daesh non aveva più che una piccola enclave a Derna, e invece l’attentato è avvenuto a 60 chilometri da  Ajdabya.  Insomma dovunque ci sia un governo che si allontana dalla dipendenza dagli Usa, compaiono i jihadisti, sempre molto  ben armati con pickup nuovi di zecca.

Ancor più strano  in Africa  occidentale,  dove Boko Haram è in calo. Il mega-attentato di Mogadiscio, oltre trecento morti e 500 feriti, la più grossa strage   dopo l’11 Settembre,  se è attribuita agli Shabab, anch’essi prima in calo, può essere  dovuta a qualche aiuto dall’esterno, a cominciare dalle decine di quintali di esplosivo con cui erano caricati i due camion?

Come ha reso noto Vice News, “nel 2006, solo l’1% dei corpi speciali Usa impiegati all’estero si trovava in Africa. Nel 2010, erano il 3%; nel 2016, il loro numero è saltato al 17%”.  Sono tanti che si danno sui piedi, e ogni tanto dei Navy Seals devono strangolare qualche Green Beret per fare spazio? Oppure: non è una strana coincidenza   che quanti più sono presenti  i commandos americani  in determinate zone a combattere il terrorismo islamico, tanto più  detto terrorismo islamico appare di nuovo forte, potente, ben stipendiato e ben armato proprio in quelle zone?

“I 10 capi supremi di Daesh sono israelo-marocchini e israelo-iracheni”

Ci sarebbe quasi da dar ragione ad un noto  mentitore, Nabil Naim, ex jihadista in Afghanistan ed attivista in Egitto, che in  una non recente  intervista a El Mayadeen,   ha  raccontato: i dieci comandanti supremi di Daesh sono israeliani di origine irachena e marocchina. E’ per questo che quando la truppa terrorista si trova alle strette, assediata   e vinta, compaiono nel cielo gli elicotteri Chinook,  che vanno a  prendere e salvare i capi. Questo Nabil Naim ha il dente avvelenato, perché la sua Al Qaeda è stata tradita con l’ISIS. Anche se effettivamente, i Chinook salvatori dei capi supremi di Daesh  sono comparsi più volte, sotto gli occhi delle truppe siriane e irachene, ad esfiltrare i loro preziosi strateghi.   Secondo lui è per quello che  i terroristi di Daesh “decapitano musulmani e non hanno mai ammazzato un americano”.

Orbene,  fino ad oggi è avvenuto che “i gruppi armati jihadisti  del Sahel non attaccano  mai gli autoctoni, contrariamente a quelli di Siria e Irak, che hanno commesso le peggiori atrocità contro le popolazioni civili” musulmane, come ha rilevato  Leslie Varenne, direttrice dell’Istituto di Sorveglianza e  Studio delle Relazioni Internazionali e Strategiche (IVERIS)  di Parigi; sicché  “i combattenti dello Stato Islamico in quelle zone provocherebbero lotte di leadership ma anche cambiamento dei metodi operativi”, come appunto  quello di commettere atrocità contro le popolazioni a cui sostengono di portare la vera fede coranica, comportamento inspiegabilmente controproducente e  impolitico.

Il progetto di un coinvolgimento Usa in Africa, secondo la Varenne, risale  al 2008:  lo indicò Obama  con lo scopo a lungo termine di “fare ostruzione alla Cina” che nel Continente Nero si fa strada con  investimenti e infrastrutture.  “E’ nel quadro di questa guerra economica  che bisogna leggere le recenti sanzioni inflitte dall’amministrazione americana a vari stati africani: Ciad, Eritrea, Sierra Leone, Guinea Conakry” al momento stesso in cui l’Amministrazione levava invece le sanzioni al Sudan,benché guidato da un dittatore su cui è stato spiccato mandato d’arreso della Corte Penale Internazionale. Il motivo è che il Sudan non ha buoni rapporti con la Cina.  E’ da segnalare anche la comparsa di terrorismo islamico in paesi che ne erano esenti, come il Burkina Faso, e “L’islamizzazione rampante  della regione. Ad esempio, negli ultimi anni, la Costa d’Avorio, paese a maggioranza cattolica, ha costruito più moschee e scuole coraniche, finanziate  indirettamente dall’Arabia Saudita, che chiese e scuole laiche, secondo le informazioni fornite dal primo ministro di questo Stato”.

Gli americani si stanno sostituendo ai francesi, che con la loro operazione militare “Barkhane”, estesa su 5 stati sub-sahariani Mali, Niger, Ciad, Burkina-Faso et Mauritania, sono riusciti solo ad alienarsi la popolazione locale  non avendo stanziato i mezzi – enormi – che occorrerebbero per proteggere una tale vastità desertica, e non avendo nemmeno una chiara visione strategica.  Macron ha cercato di ottenere un mandato e un finanziamento ONU, ma la domanda è bloccata a da mesi – o meraviglia – dall’alleato americano. Il 30 ottobre la nota ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, ha  rifiutato il suo voto favorevole spiegandolo così: “Noi contiamo sui Paesi del G 5 per prendere  in pieno il comando della forza armata da qui a tre-sei anni, con l’aiuto continuo degli Stati Uniti”. Strano, nota l’analista francese: da una parte il Pentagono grida che il pericolo imminente, dall’altro può permettersi di aspettare  tre o sei anni perché  la forza anti-terrorista sia operativa. “In realtà, la strategia americana è limpida. Rifiutando che questa forza armata africana sia sotto mandato ONU, il Pentagono si  dà il potere  militare sulla regione antica zona d’influenza francese senza supervisione internazionale”.

Continua quindi anche in Africa quel sovvertimento del diritto internazionale da parte degli Usa a guida neocon,   esplicitamente denunciato da Vladimir Putin:

“Siamo testimoni di un sempre più pronunciato disprezzo dei principi fondamentali del diritto internazionale.  Di più:  certe norme,  di fatto  quasi tutto il sistema giuridico di un solo Stato, s’intende gli Stati Uniti  ha straripato dalle frontiere nazionali in tutti i campi:  in economia, in politica, nella sfera umanitaria,  e s’imposta agli altri stati”.

E’ la precisa descrizione di ciò che vuol essere il diritto talmudico esteso  al  piano globale.

Per contro, ha continuato Putin,  a chi gli domandava come  persino l’Arabia Saudita ha buone relazioni con Mosca “noi non facciamo mai il doppio gioco. Siamo sempre onesti coi nostri partner, nel senso che enunciamo apertamente le nostre posizioni.  In ciò abbiamo un grande vantaggio, nel senso  che siamo prevedibili, al contrar fui di certe nazioni.  E’ questo più che il nostro potenziale militare ad attrarre i nostri   partner a sviluppare relazioni con la Federazione Russa”.