AFFRONTARE I MONOPOLI PER RICOSTRUIRE LA SOVRANITA’.

di Roberto PECCHIOLI

Per informarsi sugli argomenti favoriti, ciascuno di noi compie un gesto iniziale, digitare delle parole chiave su un motore di ricerca. Nella schiacciante maggioranza dei casi, quel motore è Google. I sistemi operativi del nostro computer, come i programmi che utilizziamo, provengono da Apple e Microsoft; quando acquistiamo qualcosa online, quasi certamente ci serviamo di Amazon; la nostra messaggeria telefonica, Whatsapp, appartiene allo stesso signore dalla maglietta grigia, Mark Zuckerberg, che sa tutto di noi perché glielo riveliamo spontaneamente attraverso la sua creatura, Facebook. Allorché affittiamo una casa o una camera, passiamo attraverso Airbnb, il nostro traffico telefonico e informatico è in mano a Telecom. Smartphone e personal computer sono prodotti da pochi giganti, che possiedono le conoscenze (know how), le fabbriche, controllano a prezzo del sangue le miniere africane da cui si estrae il Coltan, la columbite tantalite, metallo con cui si realizzano i minuscoli condensatori, essenziali nei dispositivi portatili quali telefoni cellulari e computer, oltreché nell’elettronica per l’automobile.

Se abbandoniamo il settore delle nuove tecnologie, il panorama cambia poco. Il mercato dei diamanti vive in regime di monopolio, quello dell’oro (adesso si chiama “oro fisico” per distinguerlo dalla massa speculativa che tratta pezzi di carta rappresentativi di almeno mille volte la disponibilità mondiale del prezioso metallo) è saldamente nelle mani della famiglia Rothschild, attraverso la borsa aurea londinese. Potremmo proseguire, spaziando dall’energia all’agro alimentare, alla chimica, all’industria farmaceutica, senza dimenticare la finanza, dimostrando facilmente che viviamo in un regime non più solo economico, ma politico –sociale, fatto di monopoli privati. Nemmeno l’acqua, bene primario per eccellenza, sfugge alla regola.

Non parliamo delle reti di telecomunicazione, in mani straniere, né delle industrie strategiche, come dimostrano il caso Ilva, la fuga della Fiat e l’attacco finanziario concentrico sferrato a Enel, Eni e Finmeccanica. Occorre riportare al centro del dibattito il concetto di beni comuni, ma per farlo è necessario che una comunità possieda e controlli uno strumento giuridico, lo Stato o la federazione di Stati, che ne faccia valere la dimensione pubblica. L’ emissione monetaria, il sangue vivo che scorre nelle vene dell’economia reale, è monopolio privato di alcune entità finanziarie consociate, le banche centrali, possedute dai giganti del settore, le quali affermano di possedere la moneta, dunque di poterla prestare agli Stati, soffocati nella trappola del debito, minacciati addirittura di fallimento, come se fossero una società per azioni.

Una ricerca non troppo difficile rivela che poche migliaia di colossi economico-finanziari detengono la stragrande maggioranza delle entità economiche, finanziarie, tecnologiche del mondo intero. L’analisi degli incroci azionari, effettuata da gruppi di studio indipendenti, ha dimostrato che i veri e propri giganti planetari non sono più di alcune centinaia. Costoro sono i padroni di tutto, i beneficiari di quella che un politico svizzero, Jean Ziegler, chiamò, in un libro prezioso, la “privatizzazione del mondo”. Dunque, siamo letteralmente posseduti, ad ogni livello, da una rete di monopoli collegati tra loro attraverso la comune matrice ideologica neoliberale, uniti molto concretamente nel controllo assoluto e capillare, esercitato attraverso le tecnologie informatiche che hanno rivoluzionato la nostra vita quotidiana a partire dagli anni 80 e, con più forza, nell’ultimo ventennio. Ivan Illich coniò l’espressione “monopolio radicale”.

Una delle prime vittime della rivoluzione monopolistica in atto è lo Stato nazionale, nonché l’intera sfera pubblica, di conseguenza la possibilità per le comunità, i popoli, le nazioni di esercitare il governo di se stesse. La sovranità, intesa come capacità, volontà e possibilità reale di organizzare la società, la vita quotidiana di miliardi di persone, è diventata una parola priva di riscontro reale. Appare ingenua, se non francamente umoristica, se pensiamo agli Stati odierni, la vecchia definizione del diritto romano: auctoritas superiorem non recognoscens.

Occorre prendere atto che la sovranità, dunque il potere, è nelle mani di pochi immensi monopoli, o cartelli privati, ben più ricchi e potenti della maggioranza degli Stati. I concetti chiave, i dogmi che ci vengono presentati come verità indiscusse, non sono altro che la sistematizzazione teorica degli interessi di oligarchie che si sono assicurate un altro monopolio, quello delle idee e delle parole. Gli stessi Ricardo e Malthus, padri nobili dell’economia classica, erano degli speculatori redditieri, i cui interessi, comuni all’upper class britannica, sono stati contrabbandati come scienza economica. Trucco e parrucco della classe dominante in un determinato momento storico.

Un libro del docente torinese, Juan Carlos De Martin, invita l’Europa a un ripensamento radicale del significato di due delle parole “totem” del nostro tempo, mercato e competizione.  Saggio consiglio, da estendere all’universo mondo, con un’avvertenza: si tratta, una volta di più, di termini invertiti, bispensiero. Il Mercato (con la maiuscola, come si conviene a un concetto circonfuso di un alone pressoché mistico) è il contrario del monopolio, la competizione, o concorrenza, è esattamente ciò che aborrono i superpadroni. Essi la invocano allorché devono giustificare le loro azioni, dare una vernice ideale agli affari che intendono realizzare, screditare gli interessi altrui che intendono aggredire.

La storia degli ultimi trent’anni racconta di un sistema in cui dal mercato sono stati espulsi con le cattive gli attori precedenti, prima i più piccoli, poi i medi, da oltre un decennio anche i grandi. I giganti non tollerano concorrenza, né vogliono un mercato aperto. La loro logica è quella del cartello, del trust, dell’esclusione. Ogni norma, legge, nuovo criterio richiesto, imposto, ottenuto dai loro servitori dei governi – nazionali e transnazionali- ha un unico obiettivo, eliminare i concorrenti, allargare la propria sfera di azione economica e di potere, rimuovendo ogni ostacolo; lacci e lacciuoli, nel loro linguaggio. Sbriciolata la concorrenza in nome del dogma risibile della migliore allocazione delle risorse che il Mercato realizzerebbe in base a una miracolosa sapienza detta mano invisibile, o distruzione creatrice, l’oligarchia si è insediata come monopolio assoluto, attaccando i fondamenti degli Stati, ovvero dell’unico potere pubblico in grado di decidere in base a un criterio di bene comune.

La concorrenza non è altro che un mito, declinato dal CEO capitalismo (quello dei grandi azionisti e dei loro alti funzionari, per intenderci gli Agnelli-Elkann e i Marchionne) per costruire una società che, a partire dalle aziende e dai luoghi di lavoro, mette gli uomini gli uni contro gli altri, con la promessa di vantaggi, carriera, denaro, ma solo a chi dimostra più produttività, più flessibilità, più fedeltà al sistema. Contemporaneamente alla concorrenza tra i collaboratori e i dipendenti, hanno realizzato la concorrenza al ribasso tra i soggetti destinati a fornire servizi o lavorazioni. Lì è un dogma indiscutibile, con il risultato di aumentare i profitti verso l’alto e creare in basso una massa crescente non più di vassalli o valvassini, ma di autentici servi della gleba. L’ultima concorrenza è tra sistemi fiscali, poiché la deterritorializzazione, la smaterializzazione di molte attività rende difficilissimo far pagare le tasse a lorsignori. La differenza a piè di lista, sino all’ attivazione di un sistema di collaborazione transnazionale, è a nostro carico.

Non siamo mai stati liberali, ma ci tocca invocare il ripristino del modello politico e civile del liberalismo di ieri, che invocava un mercato aperto e costruiva strumenti giuridici per garantirlo, affidati agli Stati. Persino Von Hajek prescriveva un sistema aperto da entrambi i lati, entrata e uscita, il contrario del presente, che prevede la cacciata di tutti gli estranei all’attico del grattacielo neoliberista. Quanto all’iniziativa privata, una volta smascherata la menzogna retorica degli “imprenditori di se stessi”, ovvero la condizione di precari a chiamata senza speranza, un vero liberale dovrebbe pretenderne la massima diffusione, non approvare la riduzione di tutti a servi a tassametro con partita IVA, indebitati, gravati da ipoteche, il nuovo quarto stato.

Il sistema dei monopoli aveva bisogno di inventare una forma surrettizia di consenso, e contemporaneamente diffondere di sé un’immagine benevola, tollerante, ossequiosa delle leggi. Divenuto insufficiente l’individualismo di massa, ha inventato una figura astratta di umanoide: il consumatore. Consumatore e monopolio camminano a braccetto, nella narrazione neoliberista. Il cartello di giganti ha la necessità di creare l’Uomo Nuovo disposto a credere alle panzane della concorrenza e del Mercato senza farsi troppe domande. Ecco l’Homo consumens, colui che si indebita per acquistare merci che non gli servono, da abbandonare rapidamente in favore di sempre nuovi prodotti, a cui viene fatto credere di essere titolare di un inedito diritto all’acquisto compulsivo, che in realtà, agli occhi del potere, è il principale dovere sociale della massa. E’ curiosa la definizione posta dal venerando dizionario Zingarelli della lingua italiana come primo significato del verbo consumare: logorare coll’uso, seguito da distruggere, ridurre al niente, rovinare, sprecare, esaurire. Più cauta, con una punta di politicamente corretto, la Treccani così definisce il consumatore: chi consuma, o anche, più genericamente, acquista beni economici, qualunque carattere abbia il consumo o l’acquisto (di godimento, produttivo, o distruttivo).

Il monopolio non tollera interlocutori, corpi intermedi, Stati o comunità tra sé e il cliente-consumatore, colui che deve usare e gettare in quanto sta al mondo a quell’unico fine. Offre comodità, rate, luci scintillanti, scaffali ricolmi. Poco importa se in realtà vende in forme diverse lo stesso prodotto. Tempo fa in un supermercato rimanemmo colpiti dal banco degli yogurt e dei prodotti simili, un’intera parete. Decine e decine di tipologie e marchi diversi. Guardando con più attenzione, preso atto di chi controlla in Italia e in Europa la produzione e distribuzione alimentare, ci rendemmo conto che in realtà quasi tutti i prodotti erano riconducibili alle multinazionali che dominano il settore. Monopolisti, tutt’al più oligopolisti, vendono con mille etichette diverse prodotti simili o addirittura uguali, perfino usciti dai medesimi stabilimenti. Come in tutti i settori, fino a pochi anni fa erano aziende autonome, oggi sono controllate direttamente o ridotte al triste ruolo di “contoterzisti”, costrette a lavorare all’osso, con produttività altissime, stipendi modesti, contratti dai nomi fantasiosi unificati dal precariato, dall’insicurezza, talvolta dal ricatto. E’ la concorrenza, è il mercato.

Non erano queste le promesse della società liberata dall’incubo comunista, ma le premesse c’erano tutte. Per questo è indispensabile ripristinare lo spazio pubblico, insieme con i corpi intermedi, le libere associazioni, le rappresentanze degli interessi e dei principi morali. Si chiama sovranità e si legge lotta senza quartiere ai monopoli, alla privatizzazione di tutto, al suicidio degli Stati, al potere della finanza e dei sedicenti creatori del denaro, alla proletarizzazione di massa come esito della vittoria dell’1 per cento del mondo contro l’altro 99.  Non è destra, non è sinistra né centro e, siamo chiari, non è neppure la maschera di carnevale di qualche politico di terz’ordine, sconfitto sotto altre bandiere, deciso a conquistarsi una particina in commedia.

E’ una battaglia dura e dall’esito difficile, ma ha l’orgoglio di combattere per la propria gente, per il futuro e per un’idea di Europa, di Patria, di giustizia sociale, di etica condivisa che è l’esatto contrario della stanca amministrazione dell’esistente (governance…) per conto dei potenti, oligarchi, monopolisti, grandi azionisti, padroni globali. Sovranità è, attualizzando il lessico di Hegel, il modo contemporaneo in cui risorge la dialettica Servo-Signore, ovvero il primo che si ribella al secondo. A questo siamo, due secoli dopo.

 ROBERTO PECCHIOLI