NON C’E’ NIENTE DA RIDERE

Posto due dei molti video sulla – come chiamarla?  – incapacità intellettuale diffusa tra gli africani del  Sub-Sahara

 

https://twitter.com/marzel_ba/status/1118600045732007936

https://www.youtube.com/watch?v=pvI0s_WT8oI

 

https://www.youtube.com/watch?v=SE8NVo_Iuq4

Non li posto per deridere, perché non c’è niente da ridere, visto che migliaia di giovani maschi del genere  arrivano, sono arrivati  e li vedete ciondolare o andare in bici con le  cuffie ad ascoltare musica dai loro smartphone.  Siccome  sono vestiti all’ultima moda (da discoteca) con tute e scarpe firmate, i coetanei italiani e le ragazze soprattutto, che li  incontrano e li frequentano nei luoghi del divertimento giovanile, presuppongono che siano “moderni” come il loro abbigliamento, e che partecipino della stessa “cultura  standard” della gioventù europea  contemporanea:  progressista, “libera”, politicamente corretta, “siamo tutti eguali”, “siamo tutti cittadini del mondo”, l’Occidente è libertà, siamo  senza tabù eccetera.

La cultura giovanile europea non è granché,  gonfia com’è di  luoghi comuni. E’  piuttosto una forma di ignoranza-standard. Tuttavia questa ignoranza non si spinge   fino ad ignorare le più semplici leggi della fisica  come dimostra il negretto che con seria applicazione (è in Israele, se non lavora lo cacciano)  “lavora” , da non sapere come funziona un aspirapolvere, e non saper vedere i più semplici rapporti di causa-effetto.

Molti negri  (non tutti, certo) sono invece così:   vengono da culture in cui ci sono   ritardi, rispetto alla civiltà tecnica ,  di  500 anni, e forse di più; dove conoscenze pratiche che diamo per scontate  in bambini di 4 anni, non solo non le padroneggiano, ma  spesso nemmeno riescono ad impararle. E’ bene saperlo se si vuole “integrarli” in qualche attività lavorativa.

Non parlo per pregiudizio, ma per esperienza  di giornalista inviato in Africa.  Tralascio i racconti dei bianchi sulla incapacità  dei neri  di capire a cosa serve la carriola da muratore , o l’occasionale notizia di cronaca su The Nation,  il giornale di Nairobi, che raccontava come tre lavoratori erano morti carbonizzati   mentre   facevano una saldatura in serbatoio pieno di carburante.

Il 6 maggio scorso nella  capitale del Niger, Niamey,  un camion cisterna s’è rovesciato sui binari della ferrovia, la gente s’è accalcata per rubare la benzina che usciva – esplosione, 58 carbonizzati.  Vedo che nessun progresso  è da registrare rispetto ai miei tempi.

http://www.rfi.fr/afrique/20190506-niger-explosion-camion-citerne-fait-moins-58-morts-niamey

In Sudafrica,  dove sono stato a Soweto, ho visto che la popolazione nera cucinare con la carbonella benché là l’energia elettrica sia gratis (o lo era durante il governo bianco: lo si considerava un prodotto di scarto delle miniere carbonifere)  perché  – mi fu spiegato  – le piastre da  cucina che si arroventano  sono per loro effetto di una magia  dell’uomo  bianco, che essi non comprendono e  temono. Quando  per le pressioni internazionali  fu necessario mettere fine all’apartheid e attuare l’eguaglianza fra cittadini, il governo bianco istituì corsi pre-scolastici per i bambini neri, dove si insegnava: come mai lo zucchero si scioglie nel caffè e non nell’olio, come far funzionare  il rubinetto, eccetera. Nozioni   che si danno per conosciute ai  bambini dell’asilo bianchi,  erano da insegnare  ai piccoli africani.

Né le cose sono veramente progredite oggi.   Un mio giovane amico, ingegnere chimico, mandato dalla Total  in un paese  francofono, mi raccontò che aveva un segretario, giovane, nero, laureato,moderno, che sapeva usare il computer  –  fino al giorno in cui successe questo: l’amico gli detta una mail per un cliente – po viene interrotto da una telefonata.  Finitala, chiede al segretario: “L’hai già mandata? Peccato, volevo correggerla…”. E con suo immenso stupore, vide il segretario precipitarsi sul filo elettrico del computer e strizzarlo, con  tutte le forze, convinto di potere fermare la mail. Non me lo disse per schernire, l’amico, ma  con lo stupore  incredulo che tutti abbiamo provato in Africa, prima o poi, nel dare per scontato che essi partecipino  ormai alla nostra “civiltà”  materiale ed essere smentiti da questi fatti.

Ciascuno di noi ha avuto il tipo di esperienza che il grande reporter Shiva Naipaul ha vissuto in Kenia  (North of South, 1978). Io a Cape Town, quartiere degli uffici. Chiedo la strada ad un giovane   in giacca, cravatta, pantaloni stirati, una 24 ore   da businessman ; se non un uomo   d’affari, un impiegato di banca, ho pensato. Lui: “La accompagno”. In ottimo inglese. Quando arriviamo,  entro nel portone (avevo un appuntamento per un’intervista) e  il giovane uomo d’affari mi dice: “La aspetto”: Non è necessario, dico; l’intervista può durare un’ora. “Non si  preoccupi, l’aspetto. Non ho altro da  fare”.

In attesa della “signora tedesca”

Quando scendo, il presunto impiegato è ancora lì. Mi accompagna fino all’albergo. Accetta con degnazione una mancia. Ma non basta. Voglio darle questo. E mi porge la carta da visiita. La sua  carta da visita, ben stampata,   moderna e alla moda,   dove risulta che il mio impiegato si dichiara rappresentante di mobili da ufficio. “Mi dà la sua, di carta?”. Non ce l’ho, mento. Massimamente stupefatto, lui: “Come mai? Tutti i miei amici ce l’hanno. Potremmo corrispondere, diventare pen pal”… nella ulteriore conversazione, apprendo che lui vorrebbe “ottenere una laurea in legge  o ingegneria”,  e spera “di trovare una persona ricca che lo aiuti” in questa  nobile aspirazione. “Un mio amico l’ha avuta in questo modo”. Da chi?

“Una  signora tedesca”,  spiega lui. Già le turiste tedesche di mezza età che vengono qui per fare quel che immaginate (mica solo le tedesche) e poi, sentimentali, da  casa  scrivono e mandano anche del denaro.  Lui era certo che io essendo ricco (alloggiavo all’Hilton)  avevo i mezzi per sostituire la tedesca dei suoi sogni. “Spero  sempre di trovare una che mi porti via  da qui e  mi paghi dei buoni studi”.

Ai miei tempi, i negri che incontravo non nascondevano la loro invidia, trasformata in odio,  per the Asians”, gli indiani  che i coloni inglesi avevano dovuto  importare come lavoratori – per il fatto che i locali  non erano in grado di apprendere i lavori appena un po’ qualificati  o  ordinati. Qualunque colono vi raccontava come i Kikuyu non  riuscissero ad arare in linea retta, né a costruire un capanno  rettangolare, avendo sempre vissuto in capanne circolari; racconti di come i muratori,  pur dotati di carriole, cercassero di portarle a braccia, sollevate, invece di farle rotolare.  Esattamente quel che fa anche questa “risorsa” oggi in Italia. Trent’anni sono passati invano:

Se bollate questo come razzismo, è perché ignorate il problema vero, o potete permettervi di non tenerne conto  non vivendo e lavorando là. I coloni avrebbero fatto a meno di assumere gli “Asians” se  avessero potuto. Adesso gli indiani,  di terza o quarta generazione, sono diventati ricchi o benestanti,  professionisti, medici, avvocati o negozianti, grazie alle loro capacità.   Ragion per cui erano odiati fino alla violenza.  La  violenza che esplose  quando gli stati africani ebbero l’indipendenza, e dittatori locali per prima cosa trattarono gli asiatici in modo tale, che quelli che poterono, scapparono. L’odio era apertamente motivato da invidia patologica ed espressa senza alcuna vergogna: “Voi asians prendete tutti i lavori per voi, non   lasciate niente a noi, urlarono ad un tassista pakistano, picchiandogli pugni sull’auto.

Appena ottenuta l’indipendenza, i capi negri proclamarono che gli asiatici dovevano “integrarsi” con i neri, dai quali si tenevano troppo segregati. Ciò significava una cosa precisa. Do  la parola a Shiva Naipaul: “l’inaccessibilità sessuale delle donne asiatiche  [indù o musulmane non sposano che nel gruppo etnico, o nella casta] eccita il massimo rancore. L’integrazione doveva essere fisica. Dopo la rivoluzione (in Kenia) nel 1964, a Zanzibar fu adottata una  politica ufficiale si stupro: le ragazze arabe  e persiane  furono sequestrate e maritate a forza ai caporioni neri di Zanzibar”. In Sudafrica, le famiglie boere subiscono la stessa violenta invidia, spinta allo stupro e al  genocidio.

Non sono tutti così, protesterete voi .  E fate bene a protestare. Basta che teniate conto che l’aitante giovanotto negro ben vestito e ben fornito di cuffie ultimo modello e telefonino,  non è  il “ragazzo moderno” che “ha i nostri valori”  che credete. E’ uno per il quale parole come “sono uno studente”, “un rappresentante di mobili da ufficio”,     “voglio l’integrazione” o “la cittadinanza” non significano quello che significano per noi. Sono, spesso,  ornamenti  che si sono applicati come etichette  di una modernità velleitaria,   alla pari delle cuffie acustiche e delle scarpe Nike o Adidas,  di uno che non ha capito ancora  cosa è l’elettricità, una mail o che in un aspirapolvere il tubo  va collegato al motore.   E spera di  andar via dall’Africa  perché qui ci sono le signore tedesche e ricchi che  hanno visto all’Hilton, e lo manterranno.

Naturalmente pensate che   esagero. Lo capisco.   Ma quando i terroristi Mau Mau convinsero i britannici a dare  al Kenia l’indipendenza – Uhuru, Liberazione dicembre 1963 –  la  neo-classe dirigente nera si abbandonò ad un delirio di avidità: terre e piantagioni appropriate  che non sapevano come coltivare…. Giù giù fino a saccheggio delle cliniche del ministero di Sanità.  Portarono via: te sterilizzatori, tutti  gli strumenti chirurgici, l’equipaggiamento per   le radiografie, i macchinari  per rianimazione in un reparto di terapia intensiva.  Fu incolpato un medico dell’ospedale. Che senso aveva   rubare cose che non aveva nemmeno mai usato?  Che volesse aprire un suo ospedale, è improbabile. Semplicemente, si voleva impadronirsi dei magici  sofisticati oggetti di potenza dell’uomo bianco.   Che, secondo loro,   rendono ricchi. Un  missionario  che  aveva aperto e dirigeva una scuola professionale, mi raccontò che gli scolari  continuavano a rubare gli attrezzi, martelli, chiavi inglesi, cacciaviti. “Perché? Non avete bisogno di rubare, è a vostra  disposizione”. Niente: aveva finito per chiudere gli attrezzi sotto chiave, in una  armadio con sbarre  di ferro. “A volte mi chiedo se hanno un’anima”, mi confidò stanco.

La cosa si è poi ripetuta molti decenni più tardi in Angola e Mozambico: appena i  portoghesi se ne andarono,   le loro  coltivazioni e piantagioni cessarono di essere coltivate; ritenevano che la libertà facesse crescere i frutti spontaneamente.  L’anno seguente ci furono carestie, poi  guerre civili. Durate 27  anni.   In Angola arrivarono i petrolieri americani e armarono una fazione. Mosca  mandò “volontari cubani” a sostenere l’altra.  Quello che vidi alla fine del  conflitto non ve lo racconto perché sembrerebbe animato da cattiveria.  Oggi ci sono i cinesi.  Chissà se erano meglio i portoghesi.

Devo dedicare  un altro articolo al  tema, per fornire la documentazione etnologica sui valori africani.

(1  – Segue)