Taglio delle tasse e curva di Laffer. Sì, ma…

                                         di ROBERTO PECCHIOLI

Donald Trump è arrivato al potere promettendo un taglio fiscale simile a quello che introdusse Reagan negli anni 80. Alla fine del 2017, l’amministrazione repubblicana ha applicato il suo programma con un pacchetto di misure tributarie tra le quali il raddoppio del reddito minimo entro il quale scatta l’esenzione totale dell’imposta sui redditi e il dimezzamento della tassa sulle società.

L’Ufficio di Bilancio del Congresso americano allertò sulla probabilità di aumento del debito generato dalla riforma, stimando però che l’88 per cento dell’importo iniziale della diminuzione fiscale sarebbe stato compensato a medio termine dall’incremento delle entrate derivato dalla maggiore crescita economica. Fin qui le previsioni. Ma che cosa rivela il primo bilancio consuntivo? Il Dipartimento del Tesoro americano ha pubblicato i dati relativi all’annata fiscale 2017-2018, secondo cui a fine anno ci sarà un aumento del gettito di circa il 6 per cento.

A livello consuntivo, l’imposta sui redditi ha prodotto entrate per 1.700 miliardi di dollari, con un aumento di 14 miliardi rispetto all’esercizio precedente (più 0,8 per cento) nonostante in sede di previsione gli introiti fossero stati indicati in discesa per le misure della Casa Bianca. Il periodo esaminato non coglie pienamente l’impatto del taglio, in vigore dal 1 gennaio dell’anno corrente, ma se restringiamo i dati reali al periodo gennaio settembre, l’aumento delle entrate sfiora il 5 per cento.

Nell’ imposta sulle società si è invece verificata una pesante caduta delle riscossioni. I dati del Dipartimento del Tesoro attestano un crollo del 31 per cento. Kevin Hassett, il presidente dei consiglieri economici del presidente Trump ha ammesso che il dato è superiore alle previsioni, affermando tuttavia che risultano in aumento gli investimenti delle imprese, interamente deducibili dall’imposta. Il governo è convinto che si stiano gettando le basi per una crescita futura e che la caduta del gettito si compenserà negli anni, permettendo una crescita economica più vigorosa. Il dato resta tuttavia impressionante e fa riflettere.

Se consideriamo l’intera base impositiva americana, l’aumento delle entrate federali nell’anno fiscale 2017/2018 è stato dello 0,5 per cento. Ciò significa che nonostante la riforma del sistema tributario tesa a ridurre la pressione fiscale a carico di famiglie e imprese, l’erario americano ha incassato praticamente la stessa cifra dell’anno precedente, con tendenza all’aumento. Si avverano dunque le previsioni della cosiddetta Curva di Laffer. Arthur Laffer, economista reaganiano, teorizzò che aumentare la pressione fiscale oltre una certa soglia strangola l’attività economica sino a determinare la diminuzione del gettito erariale, che riprende a salire con aliquote inferiori per effetto dell’aumento dei consumi.

Nell’anno in corso, la riduzione delle imposte del settore privato non ha prodotto un buco dei conti pubblici statunitensi, ma ha sostenuto le entrate, compensando le aliquote più basse con maggiore attività economica. Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Affinché i tagli fiscali possano essere mantenuti e continuino a produrre effetti, è necessario un severo controllo della spesa. Negli Usa ad un aumento delle entrate di 14 miliardi di dollari sono corrisposte maggiori uscite per l’enormità di 127 miliardi.

Dunque, non sono i tagli fiscali i responsabili dell’aumento del deficit federale, ma diverranno insostenibili se non viene posto rimedio al buco di bilancio. Le lezioni da trarre, in chiave italiana, sono molteplici, tenuto conto del programma di governo a medio termine della Lega, fondato su “tassa piatta” (flat tax) e riforma Fornero nonché della proposta grillina del reddito di cittadinanza. La prima, rassicurante, è che la Curva di Laffer sembra funzionare. La riforma di Reagan però beneficiò nel tempo soprattutto i redditi elevati e le grandi imprese, producendo un grave squilibrio dei conti federali.

Gli Usa, però, sono uno Stato sovrano, in cui il sistema finanziario e la banca centrale, la Federal Reserve, pur in mani private, hanno uno stretto rapporto con il potere politico; il governo non dipende da un’istituzione ideologica votata all’austerità come l’Unione Europea e la Fed non è vincolata programmaticamente alla dogmatica della stabilità. L’aumento delle entrate è inoltre alimentato da una serie di elementi strutturali e culturali assenti in Italia. La propensione al consumo è maggiore negli Usa che da noi, gli States non hanno il problema di una pesante fattura energetica che grava come un macigno sull’economia italiana, né devono sostenere una previdenza pubblica strozzata dalla denatalità oltreché gravata da contributi tendenzialmente in diminuzione per l’azione congiunta di bassi salari, economia sommersa, elevata disoccupazione e diffusione della precarietà.

Come dimostra l’America in condizioni più favorevoli delle nostre, contenere la spesa è estremamente difficile, ancor più orientarla in senso favorevole agli investimenti. L’ideologia monetarista fattasi impianto normativo obbligatorio impedisce di fatto in Europa l’intervento pubblico. L’ austerità blocca ogni politica espansiva, per tacere del peso degli interessi sul debito. Forse sarebbe opportuno rivalutare un’altra curva economica, quella di Phillips, che pone in relazione la diminuzione della disoccupazione a un certo aumento dell’inflazione. I premi Nobel per l’economia Samuelson e Solow, liberisti, riconobbero che una società può permettersi un saggio di inflazione basso o addirittura nullo solo se è disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione. Tale prezzo è la politica dell’Unione Europea fondata sull’indice Nairu (non-accelerating inflation rate of unemployment), conosciuto come teoria del livello naturale di disoccupazione.

Il dilemma è di difficilissima soluzione, poiché occorre difendere la coesione sociale ma è altrettanto necessario uno choc fiscale a vantaggio dei redditi da lavoro, autonomo e dipendente, specie medi e bassi, nonché una seria diminuzione di balzelli e gravami che soffocano l’impresa di piccole e medie dimensioni, pilastro del sistema Italia.

Qualunque politica non sortirà effetti di lungo periodo se non verrà accompagnata dal recupero della sovranità politica, la cui mancanza impedisce ogni scelta economica pubblica, e soprattutto dall’attivazione di meccanismi che liberino dal cappio che ci siamo posti al collo, l’impossibilità di controllare l’emissione monetaria, principale strumento di indipendenza finanziaria del popolo e dello Stato. Un’operazione difficile, necessariamente lunga e potenzialmente drammatica, in assenza della quale fallirà qualsiasi riforma fiscale tesa a diminuire le imposte.

La curva di Laffer conferma una verità ovvero che la tassazione eccessiva uccide la propensione al lavoro, all’investimento, all’intrapresa, oltreché, naturalmente, al consumo. Ma la diminuzione delle tasse, come dimostra l’America di Trump, non funziona se non accompagnata da un complessivo riorientamento della spesa e, nel caso italiano, senza una politica pubblica di investimenti resa inattuabile dai vincoli di bilancio e dall’impossibilità di attivare la leva monetaria. Maledetto il tempo in cui ci siamo consegnati a Bruxelles e alle banche centrali.

ROBERTO PECCHIOLI

.