BLONDET ILLUSTRA IL TALMUD – (CAPITOLO 1)

Siccome è stata pubblicato il Talmud in edizione italiana, a spese del contribuente (5 milioni di euro), e qualche giorno fa “rav” Di Segni ha presentato a Mattarella  questo (parole sue;) “testo fondamentale per la cultura universale,  summa del pensiero e della parola del popolo ebraico”, qualche lettore mi invita a commentare. Ho già commentato. Anzi ho spiegato, in una serie di articoli, il contenuto di  questa opera, e alcuni dei suoi passi aberranti.  E’ facile trovare sul web, a mio nome, “Il Talmud in 10 parti. Qui comincia  primo capitolo:

1 –  Gesù conosceva il Talmud

Talmud / Parte prima

Poiché in qualche sito ebraico mi si accusa di citare in modo falso certi passi del Talmud, provo a prendere la questione dal principio, il che richiederà molte puntate e potrebbe essere un domani oggetto di un libro. Dichiaro in anticipo che una delle mie fonti è The Jewish Religion, its influence today, lo studio capitale compiuto da Elizabeth Dilling (1894-1966) sulla Edizione Soncino del Talmud, l’unica integrale in lingua inglese.  MB

Chiunque legga i Vangeli sa che Gesù polemizza con violenza – inusitata in Lui che è «mite ed umile di cuore» – contro i Farisei e gli Scribi, a questi associati nelle invettive. «Scribi e farisei ipocriti…!». Lancia loro improperi roventi: «Vostro padre è il diavolo, e voi adempite i suoi desideri», ossia l’omicidio e la menzogna («poichè è  bugiardo e padre di menzogna»). Denuncia il loro ostentato zelo religioso come superficiale, e falso: «Fanno tutto per essere visti dagli uomini… Fanno sempre più larghi i loro filatterii, e più lunghe le loro frange; amano i primi posti nei conviti e le prime file nelle sinagoghe. Amano essere salutati nelle piazze e chiamati dalla gente ‘Rabbi’». Sono loro che «amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e nelle piazze per farsi notare dagli uomini», invece che «nel segreto» e nell’intimità col Padre. Sono quelli che quando fanno l’elemosina, «suonano la tromba davanti a loro, per averne gloria dagli uomini».

Ne deride le minuziose, ossessive regole e pratiche della «purità» legale e formale, aderendo alle quali si ostentano spiritualmente più «kosher» di tutti gli altri, e si credono giustificati agli occhi di Dio. «Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (Matteo 23, 24), allude appunto ad una di queste ossessioni: un moscerino caduto nel bicchiere andava scolato accuratamente perché avrebbe reso impuro, non-kosher, chi l’avesse ingerito accidentalmente. Grida «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno della coppa e del piatto, e dentro rimangono pieni di rapina e di immondizia!».

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La frase sul moscerino e il cammello è diventata proverbiale, come del resto quella contro coloro che additano il bruscolino nell’occhio altrui, mentre nel loro hanno una trave. Proprio perché proverbiale, rischiamo di non comprendere appieno, nel suo concreto significato offensivo, il più urticante insulto che Gesù rivolge ai farisei: «Sepolcri imbiancati, che all’esterno paiono belli e vedersi, invece dentro sono pieni di ossa di cadaveri e di sporcizia». Per un fariseo, anche inciampare accidentalmente su una tomba l’avrebbe reso impuro (taref: il contrario di kosher), e l’impurità avrebbe dovuto essere emendata con infinite abluzioni. Ora, Gesù dice loro che sono impuri «dentro» – situazione terribile, per la loro mentalità – e che non sono certo i lavaggi a porvi rimedio. Dice e ripete, Gesù, che scribi e farisei hanno usurpato la cattedra di Mosè, che siedono al suo posto, e fanno passare per dottrina mosaica, ossia rivelata da YHVH, «comandamenti di uomini», «precetti di uomini», ossia comandamenti inventati da loro. E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: “Onora tuo padre e tua madre”, e: “Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte”. Voi invece dite: “Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

Ebbene, il Talmud è totalmente pieno di «cose simili». Qui sotto, il passo del Trattato Sanhedrin Folio 85° dell’Edizione Soncino in inglese, dice: contrariamente al primo comandamento («Onora il padre e la madre»), non è colpevole chi picchia i genitori. Basta che non li ferisca. … S’intende che quando sono morti, il pio talmudista può anche ferirne i cadaveri…

In questo, continua il testo, il divieto di maledire i genitori è «più stringente» che quello di percuoterli, perché «colui che li maledice dopo che sono morti è colpevole,mentre chi li percuote dopo morti non lo è».

Ciò vuol dire che almeno, gli ebrei si sentono obbligati a non maledire mai i genitori? Invece no, ci sono metodi per cui possono farlo senza macchiarsi di peccato. Come? A questo provvede ancora il Trattato Sanhedrin, 66 a:

«È punibile solo chi maledice il padre o la madre usando il Nome Divino (il Tetragrammaton JHVH, che non può essere pronunciato, ndr.) Ma se li maledice usando un Attributo… i saggi hanno decretato che costui è esente».

Come spiega una nota, un Attributo è uno dei nomi che indicano le qualità di Dio: per esempio il Misericordioso, l’Onnipotente. Dunque un pio ebreo può maledire sua madre dicendole: «Possa l’Onnipotente farti crepare!», ed essere mondo da colpa. Dal contesto, si intuisce che qui non si tratta solo di improperi, ma di malocchio e fatture stregonesche contro i genitori: i nomi di Dio, e specialmente il Tetragrammaton, è considerato dai rabbini «efficace» per operazioni di magia nera, nel senso che chi lo pronuncia realizza un «comando» sulla realtà. Ci sono molti racconti hassidici dove a famosi rabbini si attribuiscono poteri del genere, attraverso la manipolazione del nomi divini.

Da tutto questo si capisce perché Gesù abbia apostrofato i farisei come «voi serpenti, voi razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire alla dannazione?». Si capisce anche che Gesù conosceva bene lo spirito e la lettera del Talmud, di cui doveva già esisterealla sua epoca ben più che un germe, ma un corpus già voluminoso. Certamente «gli scribi» sempre associati ai farisei nelle invettive erano gli intellettuali addetti a scrivere sempre nuove regole e trucchi per sfuggire alla volontà divina e a far 5 crescere, a forza di proliferazioni e sottigliezze capziose, il Talmud nella titanica edizione attuale. «Di cose simili ne fate molte», li accusava Gesù. E difatti, come vedremo, il Talmud condona e rende possibile la sodomia, l’incesto, l’assassinio (dei gentili), la falsa testimonianza nei tribunali, i giuramenti falsi e il tradimento dei patti (con la sinistra recita del «Kol Nidrè», di cui parleremo), l’adulterio, il sesso con cadaveri e con bambine sotto i tre anni… E la lista delle nefandezze e delle violazioni dei comandamenti è lungi dall’essere esaustiva.

Siccome questo «monumento della letteratura» ebraica è del tutto sconosciuto ai più, e specialmente ai buoni cristiani – invitati dall’alto clero a non cadere nell’«antisemitismo», a considerare gli ebrei «fratelli maggiori», o influenzati da omelie e studi teologici dove i farisei sono invariabilmente definiti «buoni e  scrupolosi» ebrei di profonda religiosità – a leggere il Vangelo si rischia giudicare Cristo alquanto esagerato nelle sue invettive contro i farisei, magari un «antisemita» fissato. Perché tanta furia per una setta religiosa che, dopotutto, non esiste più?

Errore, errore. Come spiega la Universal Jewish Encyclopedia del 1943, «La religione ebraica qual è oggi risale, senza interruzione alcuna attraverso i secoli, dai Farisei. Le loro idee e metodi hanno trovato espressione in una letteratura di enorme estensione, di cui grandissima parte è ancora esistente. Il Talmud è il più importante pezzo di questa letteratura… e il suo studio è essenziale per capire veramente il farisaismo».

Quando Gesù era fra noi, i Farisei erano solo una setta fra le altre, anche se molto influente e potente, per un motivo preciso: esisteva il Tempio, dunque si compiva il sacrificio sacramentale dell’agnello da parte dei sacerdoti, che «giustificava» (santificava) il popolo. Era questo, il tempio, il cuore dell’ebraismo. Ma quando il Tempio fu distrutto nel 70 dopo Cristo, questa religione rimase senza sacrificio, senza sacramento e senza sacerdoti. Molte delle componenti dell’ebraismo, fra cui esseni e sadducei, scomparvero. I soli che avessero una ideologia religiosa di riserva erano i Farisei: per loro, la «giustificazione» e purificazione prodotta dal sacrificio di animali nel Tempio aveva molto meno importanza delle regole di purità, dei minuziosi adempimenti alimentari e igienici, e dello «studio della Torah». Essi mantenevano severamente la «separatezza» dagli altri uomini: istruttiva è la notazione di Giovanni (18, 28) che quando la turba dei maggiorenti ebraici porta Gesù da Pilato, «essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter così mangiare la Pasqua». È un atteggiamento che il rabbino Di Segni mantiene ancor oggi: gli altri esseri umani sono «sporchi», rendono impuro l’ebreo che ha commercio con loro. La parola «Farisei» significa infatti «separati».

Dunque, caduto il tempio, «da quel momento la vita ebraica fu regolata dai Farisei», assevera la Jewish Encyclopedia (edizione 1905), ed aggiunge una informazione della più alta importanza: «L’intera storia del giudaismo fu ricostruita dal punto di vista farisaico, un nuovo aspetto fu dato al Sinedrio del passato. Una nuova catena di tradizioni soppiantò la più antica tradizione sacerdotale. Il farisaismo diede forma al carattere del giudaismo e conformò la vita e la mentalità degli ebrei per tutto il futuro».

I primi che credettero a Gesù come il Messia atteso erano, ovviamente, tutti ebrei. Ma cessarono di essere gli ebrei del tipo moderno, e furono ferocemente perseguitati dai Farisei, fino al vero e proprio sterminio della Chiesa di Gerusalemme (quella «di Giacomo, il fratello di Gesù») durante la rivolta antiromana di Bar Kokba, istigata dai farisei. I cristiani continuano ad avere il sacrifico sacramentale di carne e sangue (l’Eucaristia), mentre gli ebrei sono più che mai un «popolo del libro»: che non è la Sacra Scrittura, la Bibbia, bensì il Talmud.

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Mitologicamente, il Talmud si fa passare per una «tradizione orale» che JHVH avrebbe comunicato a Mosè sul Sinai, insieme ed oltre alle tavole della Legge. Questa fantomatica comunicazione orale è considerata superiore alla Torah (ossia alla Bibbia ebraica) da diversi passi talmudici. Nel Sanhedrin 59 a e nel Gittin 60b si ripete che «Dio fece un’alleanza con Israele solo in grazia di quel che fu trasmesso oralmente».

E come prova di questo, si cita l’autorità del libro dell’Esodo 34:27. Ma questo passo biblico dice il contrario: «E il Signore disse a Mosè: scrivi queste parole, perché secondo queste parole ho contratto alleanza con te e con Israele». Questo metodo di trovare un significato distorto rispetto al chiaro senso letterale, è tipico del genio talmudista. Comunque sia, la tradizione orale (elaborata da scribi e farisei) è dunque considerata più importante della Bibbia. Sanhedrin 88b: «Sono più stringenti gli insegnamenti degli scribi che della Torah», sì che una legge biblica può essere trasgredita (1).

(Continua)

Note

1) Come si vede, questo condono della trasgressione biblica si trova in un passo che detta le regole sui tefillim o filatterii, quelle scatolette nere che gli ebrei si applicano al collo o sul braccio sinistro (sul destro per i mancini). Ogni scatoletta contiene i quattro brani della Torah in cui viene ricordata la Mitzvah dei tefillin: due di essi sono brani tratti dallo Shemà Israel. Da Wikipedia: «Esistono due diverse scuole di pensiero tra i maestri dell’ebraismo circa l’ordine di inserimento delle pergamene nei Tefillin: secondo la scuola di Rashi e secondo la scuola di Rabbenu Tam (nipote di Rashi): la sola differenza tra le due versioni è l’ordine di inserimento delle pergamene nella tefillah della testa. La Halachah prescrive di portare i tefillin di Rashi durante la preghiera del mattino (tranne il sabato, il giorno di Kippur, e le feste di Pesach, Shavuòt e Sukkòt), e con questo si è compiuto il precetto biblico. Inoltre, essa raccomanda ai più meticolosi di porre brevemente in seguito anche quelli di Rabbénu Tam, generalmente per il tempo necessario alla lettura dei quattro brani citati in precedenza. Ambedue i pareri sono esposti tra i commenti al trattato di Menachot del Talmud Bavli».

«Il Talmud è oggi il sangue circolante nel cuore della religione ebraica. Qualunque legge, costumanza o cerimonia osserviamo – siamo noi ortodossi, conservatives, riformati oppure soltanto spasmodici sentimentali – è il Talmud che noi seguiamo. Il Talmud è il nostro codice di legge, la nostra common law». Così scriveva sul New York Times nel novembre 1959 il recensore di un saggio dell’autore ebreo Herman Wouk. Lo status di codice legale-normativo spetta precisamente al cosiddetto «Talmud di Babilonia». Esiste anche un Talmud Palestinese, relativamente innocuo: ma per i rabbini odierni è poco più di una curiosità erudita; non ha validità legale, anche perché manca della Gemara (gli inesausti commentari e discussioni rabbiniche proliferati attorno all’interpretazione della Mishnah, ossia la supposta «tradizione orale» confidata da Dio a Mosè esattamente sette settimane dopo l’uscita dall’Egitto).  Il rabbino-capo britannico J. H. Hertz, nella sua prefazione alle edizione Soncino, lo conferma: «Il Talmud palestinese… è stato per secoli quasi dimenticato dalla comunità ebraica. Le sue decisioni legali non sono mai state ritenute valide, se opposte a quelle del Talmud babilonese». Ma perché si parla di Babilonia? Perché «l’inizio della letteratura talmudica risale al tempo dell’esilio babilonese nel sesto secolo dell’era pre-cristiana», afferma il succitato Hertz. Se questo è vero (ma si tenga conto che la rivendicazione di un immaginaria antichità è comune nella «narrativa» ebraica), al tempo di Gesù già esisteva da secoli il Talmud con la sua autorità normativa obbligante.

Secondo la leggenda, la «tradizione orale fu tramandata di generazione in generazione finché le persecuzioni ne misero in pericolo la corretta trasmissione». E solo allora fu messo per iscritto da rabbi Yehuda Hanassi, un colto «maestro» attivo in Galilea verso il 200 dopo Cristo, che raccolse e cercò di ordinare in qualche modo gli insegnamenti dei maestri più antichi, detti Tannaim. Nella sua forma attuale, il Talmud è fondamentalmente il risultato di quella tarda compilazione-rimaneggiamento. «L’opera è non solamente una collazione della Legge orale, ma divenne il codice ufficiale e canonico della vita giudaica».

Ciò non toglie che il rabbino Hertz esalti quel periodo, fra il 586 e il 538 avanti Cristo in cui i giudei furono deportati in Babilonai sotto Nabucodonosor II – e che nella «narrativa ebraica» passa come un periodo di sofferenza e dolore – con queste parole: «Durante l’Esilio Israele scoprì se stesso. Riscoperse la Torah e ne fece sua regola di vita».

Effettivamente è solo quando Ciro il Grande, nuovo conquistatore, consentì ai discendenti dei deportati di tornare in Palestina come esattori dell’impero persiano, che costoro si definirono come comunità gelosamente separata, accampata fra «nemici» e rigorosamente monoteista. S’intende che molti ebrei, i più, restarono a Babilonia. Non fu un popolo a tornare in Palestina, ma una setta fondamentalista ideologica, e un gruppo collaborazionista persiano. Fu allora che venne costruito il Tempio (che funzionava come centro dell’esazione tributaria, responsabile verso i persiani) e la Legge in cui JHVH ordinava la distruzione di tutti i santuari concorrenti, conobbe una nuova elaborazione. «Quando studiamo la Gemara babilonese, abbiamo a che fare con quello che i più intendono quando parlano o scrivono a proposito del Talmud. La sua sede di nascita, Babilonia, è stato un centro ebraico autonomo per un periodo più lungo che in ogni altra terra; ossia dal 586 prima dell’era cristiana al 1040 dopo l’era cristiana: 1.626 anni».

Hertz tuttavia esalta come uno dei grandi redattori del Talmud un molto più tardo «rabbi Akiva», un discepolo di Hillel, fra i più accesi promotori della rivolta giudaica del 132 e morto, in quell’anno, nella repressione romana. Hertz dà credito alla leggenda talmudica secondo cui persino Mosè fu geloso di rabbi Akiva, «quando in visione ricevette un barlume del lontano futuro».

«Akiva è stato l’autore della raccolta di leggi tradizionali da cui la Mishna effettivamente è nata. È stato il più grande dei rabbini del suo tempo e dei seguenti. Il suo acuto e penetrante intelletto lo ha reso capace di trovare una base biblica per qualunque regola della legge orale».

Si noti questa ultima frase: significa che per ogni regola, nefandezza o assurdità decisa dai rabbini, essi sono capaci di trovare un passo della Scrittura che apparentemente le conferma. Anche se il senso letterale è opposto, e per far «funzionare» le Scritture nel senso talmudico, bisogna spesso ricorrere a capziose interpretazioni, e magari al preteso «valore numerico» dell’alfabeto ebraico. In tal modo si può far dire alla Rivelazione divina il contrario di quel che afferma. Per esempio, il Talmud ripete (si vede Baba Mzia 114b) che i non-ebrei sono bestie, da opprimere e sfruttare senza pietà, mentre Mosè raccomanda «Ama lo straniero, perché anche tu sei stato straniero in terra d’Egitto» (Esodo 12:49 Levitico 24:22, Numeri 9:14, eccetera).

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Il Trattato Ketuboth 111a sostiene addirittura che lo sperma dei goym «è come quello di un asino», che i gentili sono «come asini, schiavi che son considerati proprietà del padrone» e dunque che i gentili sono asini da lavoro, da non far mai riposare giorno e notte, nemmeno il Sabato… e dà come base biblica di questa odiosa prescrizione il passo di Genesi 22:5. Ma questo passo si riferisce al doloroso momento in cui Abramo, per obbedire al Signore, è sul punto di sacrificare il suo unico figlio Isacco «sul monte». Abramo arriva fino a piedi del monte con due servi a l’asino carico della legna per il rogo, e da qui procede da solo col figlio.

«Allora disse ai suoi due servi: sedetevi e restate qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin là, faremo adorazione e torneremo da voi». Sarebbe questa la «base biblica»! I talmudisti hanno fatto anche della Bibbia il «sepolcro imbiancato» dentro cui nascondono le loro sporcizie, i loro tradimenti della Legge e l’odio coltivato verso i goym.

Il rabbino Louis Finklestein (1), direttore dello Jewish Theological Seminary in USA, negli anni ‘30 autore di un libro storico in due volumi The Pharisees, vanta: «Il farisaismo divenne talmudismo (dove) lo spirito degli antichi farisei dura inalterato. Quando un ebreo studia il Talmud, di fatto ripete le argomentazioni usate dalle accademie palestinesi. Dalla Palestina a Babilonia (in Iraq, dove esisteva ancora fino al 1950 una delle più grosse comunità giudaiche, ndr); da Babilonia al Nord-Africa, Italia, Spagna, Francia e Germania; da qui in Polonia, Russia ed Europa dell’Est, il farisaismo antico si è sparso».

Lo stesso Finklestein scrive nel suo The JewsTheir History, Culture and Religion (volume 4, pagina 1.332, Jewish Publication Society of America, 1949): «Il Talmud trae la sua autorità dalla posizione che ebbe nelle antiche accademie (farisaiche). I maestri di queste accademie, sia di Babilonia sia palestinesi, furono ritenuti i legittimi successori dell’antico Sinedrio (…). Oggi, il popolo ebraico non ha alcuna autorità centrale vigente comparabile ai membri dell’antico Sinedrio né alle accademie. Per questo, ogni decisione riguardo alla religione ebraica deve essere fondata sul Talmud in quanto compendio finale di quelle antiche autorità».

È importante sottolineare ancora che, nel giudaismo, il Talmud ha più autorità della Bibbia, e le sta al disopra sotto ogni riguardo. Una nota del trattato Nedarim 35a e 37a, attesta che «la Scrittura è stata generalmente ritenuta come un argomento di studio degno solo di bambini, mentre gli adulti investigano i il significato più profondo… Da qui deriva che era usuale insegnare la Bibbia alle ragazze, nonostante la deduzione talmudica che le figlie non necessitano di essere istruite (Kiddushin. 30 a). L’opposizione di rabbi Eliezer ad insegnare la Torah alla figlia (Sotah 20a: “Chi insegna alla propria figlia la Torah è come se le insegnasse la lascivia”) era probabilmente diretto contro l’insegnare (alle donne) la Legge Orale (il Talmud, ndr) e le branche di studi più alte».

A maggior ragione, il Sanhedrin 59a, vieta di insegnare ai goym: «Un pagano (un goy) che studia la Torah merita la morte, perché è scritto: Mosè ci ha comandato in eredità una legge;è la nostra eredità, non la loro (…). Egli è colpevole come chi violenta una vergine fidanzata (ad un altro)».

E una nota a piè di pagina precisa il vero motivo: «Si ritiene che rabbi Johanan temeva la conoscenza dei gentili in questioni di diritto (talmudico), perché l’avrebbero usata contro gli ebrei nei tribunali».

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Non è strano che i rabbini non siano mai stati interessati a far conoscere ai goym questo che considerano il più luminoso monumento del genio ebraico, anzi abbiano provato a nasconderne i dettami più velenosi, magari ricorrendo ad eufemismi?

Per esempio, i più osceni insulti contro Gesù in Gittin 57a (dove si immagina che Gesù sia immerso nell’inferno in escrementi bollenti, perché «ha deriso le parole dei Savi» di Sion), o in Sanhedrin 106 a (dove si maledice il Risorto come «colui che si rende vivo col nome di Dio», ossia con un atto di stregoneria) sono indirizzati contro un personaggio chiamato Balaam, come il biblico stregone, e infatti una nota attesta:

«Balaam è frequentemente usato nel Talmud come tipo per Gesù». Quasi non sono mai esistite traduzioni del Talmud, che è in ebraico e aramaico, in lingue moderne; se non compendi abbreviati e versioni edulcorate, e prive di indici.

Così la prima traduzione inglese del 1903, opera di tale Rodkinson (alias Levi Frumkin) è priva dei numeri dei fogli, rendendo impossibile orientarsi in quella congerie labirintica di argomenti, temi e pareri rabbinici. Solo la Edizione Soncino, iniziata nel 1934 e completata nel 1952, può ritenersi integrale: lavoro colossale di una equipe diretta da Rabbi Isidore Epstein del Jews College di Londra, che è risultata in 35 volumi, dove i passaggi censurati nelle precedenti edizioni del Talmudsono stati recuperati, i testi sono stati dotati di un apparato di note a pie’ di pagina, e vi sono state aggiunti un glossario, un indice dei riferimenti biblici e un indice generale per argomenti.

Ciò, come constaterà il lettore, non rende più agevole la comprensione: il Talmud è frutto di una mentalità tortuosa, esercitatasi nei secoli nelle sue sottigliezze autoreferenziali, che per giunta ha rifiutato deliberatamente i principii della logica greca – identità e non-contraddizione sono cose da goym – e all’adeguarsi dell’intelletto alla cosa (adaequatio rei et intellectus) che è la definizione di «verità» per San Tommaso d’Aquino. Ma almeno, è possibile ritrovare nell’immane groviglio i passi che interessano.

(Segue)