TUTTE LE CRISI SONO CRISI DA DEFLAZIONE

 

di Andrea Cavalleri

 

Le crisi

 

Si parla spesso di crisi economiche tuttavia non ci si chiede mai cosa si intenda con questo termine. Vorrei iniziare la mia indagine proprio da questa domanda.

Le catastrofi naturali, le epidemie, le carestie, sono fenomeni profondamente critici, ma nessuno potrebbe definirli di natura economica, trattandosi di fatti puramente materiali. Anche le guerre, pur imperniate sul fattore umano, non sono fatti economici. Infine Robinson Crusoe non conosce crisi economiche, perché abitando da solo su un’isola deserta, consuma quel che produce, riuscendo a soddisfare più o meno bene i propri bisogni, senza ulteriori implicazioni.

 

Si può parlare di economia solo in una società che abbia attuato la divisione del lavoro, ripartendo e specializzando i compiti di tutti gli addetti alla produzione di beni, e di tutti gli addetti ai servizi di distribuzione dei beni prodotti. Dato che ciascuno fa solo una cosa, abilmente e in abbondanza, ma ha bisogno di tutto, si stabilisce un luogo virtuale di scambio, detto mercato, ove cedendo tutti i risultati del proprio lavoro ci si appropria di una minuscola frazione dei frutti del lavoro di tutti gli altri.

 

La disciplina economica si occupa proprio dell’organizzazione del lavoro e della distribuzione dei suoi frutti, studiando un sistema generale il più possibile automatico, che dispensi dall’occuparsi dei casi locali e particolari delle attività produttive e distributive, ma consenta di gestirle nel loro insieme. Questo sistema generale, per qualunque economista di qualunque tendenza, è solitamente imperniato sul mezzo di scambio, cioè il denaro, tramite cui si riescono in qualche modo a regolare e indirizzare tutte le attività economiche della società.

 

Se andiamo a vedere quali possano essere le crisi economiche in una moderna società tecnologicamente avanzata, ci rendiamo conto che le opzioni non sono molte: incapacità produttiva? Nemmeno da considerare, anzi il fatto che i beni di consumo tendano a costare sempre meno, implica che il potenziale di produzione sia sempre più alto. Sovrapproduzione? Se intesa come creazione smodata di beni, fatta per avventurismo, avidità o errori di previsione, non è credibile nel nostro secolo, caratterizzato da istruzione diffusa, alto grado di informazione e raffinati sistemi di calcolo. Perdita di competitività? Produce squilibri locali interni al sistema, ma non mina il sistema stesso che si riequilibra automaticamente all’esterno grazie al cambio valutario*1) . Alla fine non restano che i problemi relativi all’adeguamento tra i beni prodotti e la quantità del mezzo che serve a scambiarli: il denaro. Denaro che esercitando una domanda eccessiva fa salire i prezzi, cioè inflazione, oppure denaro insufficiente a scambiare tutti i beni prodotti, cioè deflazione.

Ma comunque la si guardi, la crisi economica consiste nel fatto che mancano i soldi necessari a un efficiente sistema di scambi, o perché la moneta vale sempre meno o perché non c’è del tutto.

 

L’inflazione

 

Alcune scuole economiche, tipo quella liberista, degli Hayek, dei von Mises, dei Rothbard, puntano il dito contro l’inflazione, individuandola come la causa di pressoché tutte le crisi. A cosa si deve questa convinzione?

In primo luogo parlerei di “terrore atavico” dell’inflazione, riferito all’epoca in cui le monete erano fatte di metalli nobili, segnatamente d’oro: se i prezzi salivano non necessariamente si trovava l’oro per adeguare la massa monetaria ai bisogni del mercato, che quindi languiva, mettendo in crisi la divisione del lavoro.

In secondo luogo pesarono alcuni esempi di inflazione catastrofica, come quello celebre di Weimar, seguito in epoche successive da casi analoghi in Zimbawe e in Argentina. Queste inflazioni  produssero realmente delle crisi gravissime, perché l’aumento vertiginoso e continuo dei prezzi rendeva il denaro pressoché inutilizzabile, causando così la paralisi del mercato.

 

Tuttavia la mia tesi è che non esistano vere crisi da inflazione e questa affermazione richiede ovviamente delle spiegazioni.

Il “terrore atavico” dell’inflazione oggi non ha più ragione di esistere, dato che il gold standard è abolito e si utilizza moneta a corso forzoso creata dal nulla. Quindi non può venire a mancare la materia prima per fabbricare il simbolo monetario.

 

Il discorso relativo alle crisi di Weimar, Zimbawe e Argentina invece è un po’ più complesso: non si trattò di crisi di inflazione, causata da un eccesso immotivato di produzione monetaria interna al sistema, ma si trattò di casi di svalutazione latente. La Germania della repubblica di Weimar aveva un forte debito estero denominato in oro (marchi-oro) a causa delle riparazioni di guerra imposte col Trattato di Versailles. Questo enorme peso finanziario indeboliva l’economia tedesca, e la esponeva all’attacco della speculazione al ribasso, che si concretizzò con vendite allo scoperto di marchi per capitali enormi. Furono soprattutto le banche private, per avidità, a rifornire di marchi gli speculatori, causando il crollo del marco rispetto alle altre valute e naturalmente rispetto all’oro. In queste condizioni la banca centrale era costretta a stampare quintali di moneta per coprire le rate dei debiti di guerra*2). L’esito finale è noto.

Un meccanismo perfettamente analogo ha interessato lo Zimbawe e l’Argentina: entrambi i Paesi avevano un forte debito estero denominato in dollari e una moneta non fluttuante (agganciata al dollaro). I risultati furono che l’economia nazionale non recuperò mai competitività e tanto meno autosufficienza, il debito estero poté solo crescere e la svalutazione di fatto, anche se non nominale, costrinse il governo a stampare moneta per coprire spese morte (non investimenti), azione che condusse a un continuo aumento dei prezzi.

 

I più famosi casi di inflazione parossistica, dunque, furono in realtà casi di svalutazione mascherata da inflazione: svalutazione della moneta in cui, si badi bene, il debito veniva rivalutato, essendo denominato in divisa estera.

 

Sarebbe bene ricordare un caso opposto, in cui cioè l’inflazione fu alla base del benessere: e cito qui l’Italia del boom, degli anni sessanta e settanta, in cui l’inflazione era non solo voluta ma addirittura programmata. Grazie a una moneta sovrana, lo Stato poteva condurre un’autentica politica monetaria, cosa che fece finanziando un proprio comparto industriale, la cui eccellenza manteneva in attivo la bilancia dei pagamenti esteri. Al tempo stesso l’inflazione contribuiva a una politica di repressione finanziaria, cioè a erodere la rendita (a partire da quella sui titoli di Stato, che grazie a questo accorgimento manteneva un debito pubblico decisamente basso) e promuovere di converso l’investimento sul reale, sostenendo in questo modo la piena occupazione. Il risultato fu che in soli vent’anni, uno Stato uscito sconfitto da una guerra, devastato dai bombardamenti e da almeno due anni di vendette partigiane che sfiorarono la guerra civile, si ritrovò a essere la sesta potenza industriale al mondo.

 

In effetti, se si vanno ad analizzare le economie in crescita sensibile, è un fenomeno ricorrente trovarvi anche una buona dose di inflazione.

 

La deflazione

 

Definire la deflazione come abbassamento dei prezzi o carenza di valuta non è la stessa cosa. Infatti un abbassamento generalizzato e spontaneo dei prezzi non si è mai verificato in nessun luogo e in nessuna epoca, neppure in concomitanza con una forte contrazione del circolante*3). Al contrario l’insufficienza della massa monetaria ha sempre prodotto delle crisi, in termini di fallimenti e disoccupazione.

E’ vero però che una situazione di crisi produce alcuni abbassamenti di prezzi, vediamo quali.

1) Tutte le eccedenze vengono svendute.

La carenza di liquidità provoca una diminuzione delle vendite, pertanto gli imprenditori, che hanno bisogno di soldi per pagare gli stipendi e le materie prime, cercano di monetizzare avanzi e scorte di magazzino a prezzi di realizzo.

2) In particolar modo quei beni creati non per soddisfare un bisogno certo, ma prodotti per la speranza di guadagnare, calano sensibilmente di prezzo. Inevitabilmente nella categoria rientrano gli immobili, dato che una quota consistente degli stessi è costruita e o commerciata con intenti speculativi che non rispondono a effettive richieste di utilizzo (abitativo o lavorativo). Il fatto è che tutte le offerte commerciali che eccedono i bisogni reali, diventano appetibili all’acquisto solo nella speranza di una rivendita in guadagno. E la salita dei prezzi motivata unicamente dalla speranza di guadagno è per definizione una bolla (un meccanismo che si autoalimenta nell’illusione di una crescita infinita). Quindi la deflazione fa scoppiare tutte le bolle.

3) Si svalutano i resti delle aziende che chiudono: chiunque sa che un’asta fallimentare non è un canale di vendita atto a smerciare a buon prezzo.

4) Infine, purtroppo, la crescita della disoccupazione permette di ridurre gli stipendi in proporzioni che dipendono dalla libertà  di contrattazione, concessa dalla legge, tra datore di lavoro e dipendente. E’ chiaro che una massa di persone che non ha nulla si accontenti facilmente del poco. D’altra parte, gli imprenditori in difficoltà, spesso non possono esimersi da manovre tendenti a ridurre ogni genere di costo, compreso quello delle retribuzioni.

 

Non bisogna immaginare che al termine di un processo di adattamento, oltretutto notevolmente doloroso, l’abbassamento dei prezzi torni a conferire al totale della massa monetaria lo stesso potere d’acquisto che aveva prima della deflazione e che tutto torni come prima. I beni più usati per vivere sono necessari e non conoscono crisi di domanda, pertanto, rispetto a prima, costeranno in proporzione di più. Poi bisogna sottolineare che la quantità di fallimenti e disoccupazione che la demonetizzazione ha prodotto non vengono annullati di colpo da un ristabilimento virtuale della massa monetaria, ma restano in tutta la loro triste realtà. E uno dei motivi per cui la crisi resiste anche all’abbassamento dei prezzi (che non può comunque mai essere esattamente proporzionale né totale) è che con i prezzi in calo nessuno vuole investire, perché le prospettive di guadagno si restringono, oltretutto in un clima di sfiducia generale indotto proprio dai fallimenti appena verificatisi.

 

Se è possibile usare l’inflazione per ottenere dei vantaggi economici, non così per la deflazione, da cui ci si possono attendere solo danni.

E infine bisogna chiedersi perché mai, in una società avanzata tecnologicamente in cui facilmente si potrebbe avere prosperità materiale per tutti, si deve permettere di marginalizzare nella povertà una parte della popolazione, lasciando inutilizzate ingenti risorse umane e strumentali a causa della rarefazione artificiosa di un bene puramente virtuale come quello della moneta? E’ un non senso.

Anche se in verità, detta rarefazione si può verificare non solo in termini di esistenza (la moneta non c’è più) ma può verificarsi e produrre i suoi nefasti effetti anche solo in termini di circolazione: se alcuni possiedono troppo e non spendono, i soldi mancano comunque e subentra la crisi.

 

Inflazione e deflazione non sono simmetriche

 

Una superstizione marginalista vuole che tutte le mattine si levi un banditore d’asta e la totalità dei beni del mercato siano esposti alle offerte, determinandone i prezzi con questo metodo.

Se le cose stessero così, la massa monetaria totale influirebbe direttamente sui prezzi, perché a massa monetaria più ampia corrisponderebbero offerte maggiori e a massa monetaria più ristretta  corrisponderebbero offerte minori. Se fosse vero, per far salire o scendere i prezzi basterebbe aumentare o diminuire la massa monetaria totale.

 

Naturalmente non esiste nessuna asta quotidiana e chiunque vada a fare la spesa o entri in un negozio si limita a pagare il prezzo scritto sul cartellino.

In effetti Walras e i suoi ottusi amici basavano questa asserzione sull’unico esempio simile che avessero sotto il naso: la Borsa. Ma la Borsa si limita a trattare al 99% titoli di proprietà che riguardano aziende già esistenti; e se comprare la FIAT costerà oggi più o meno di ieri, questo non cambierà di una virgola il mercato di produzione e acquisto delle automobili. Per lo più le aste si riferiscono a titoli legali di proprietà, diritti di acquisto e vendita (i derivati) e ad alcune materie prime, cioè, salvo il caso delle materie prime, a servizi inerenti il risparmio e non al cuore dell’economia, che consiste nell’apparato di produzione e distribuzione dei beni che consentono di vivere.

In generale gli economisti dedicano eccessiva attenzione al risparmio e troppo scarsa attenzione all’apparato di soddisfazione dei bisogni quotidiani, dimenticando che se quest’ultimo venisse compromesso, il valore del risparmio finanziario cadrebbe rovinosamente verso lo zero:  mancando i beni e i servizi da acquistare, a nulla servirebbero i soldi.

 

Ma torniamo alle oscillazioni generalizzate dei prezzi (le oscillazioni di un solo prodotto o settore non sono casi di inflazione o deflazione perché evidentemente sono causate da problematiche specifiche di quel prodotto o quel settore): esistono delle differenze sostanziali tra i prezzi in salita e i prezzi in discesa, che dimostrano che la massa monetaria non è indifferente e non si limita ad adeguarsi alla massa delle merci in offerta, producendo così dei puri aggiustamenti nominali.

Proviamo a stabilire dei paragoni:

 

1) L’inflazione riempie i magazzini di scorte, la deflazione li svuota.

Con i prezzi in salita il grossista e il commerciante acquistano con larghezza, perché sanno che al prossimo rifornimento il costo dei prodotti potrebbe aumentare. Con i prezzi in discesa i commercianti riducono gli acquisti al minimo, perché il prossimo riassortimento potrebbe essere più economico.

 

2) L’aumento dei prezzi è favorevole all’apparato di produzione e vendita, la diminuzione no.

Infatti quando un imprenditore alza il prezzo dei suoi prodotti ci guadagnerà, a meno che tutti gli altri prezzi aumentino di una identica percentuale; invece quando abbassa il prezzo ci perderà, a meno che anche tutti gli altri prezzi calino di una identica percentuale. Quindi le probabilità di guadagno imprenditoriale sono positive coi prezzi in crescita e negative coi prezzi in ribasso.

 

3) L’inflazione incrementa l’occupazione, la deflazione porta disoccupazione.

Con i prezzi in aumento vi è prospettiva di guadagno e quindi un clima propizio all’iniziativa imprenditoriale. Inoltre, poiché l’inflazione erode la rendita obbligazionaria, diventa più conveniente  indirizzare l’investimento sui beni reali, e quindi, direttamente o indirettamente, verso la produzione, cioè verso un’attività che impiega personale.

Con i prezzi in discesa, l’azienda rischia di non riuscire a coprire i propri costi fissi e quindi di fallire. Inoltre si restringono le prospettive di guadagno imprenditoriale e crescono quelle della rendita finanziaria-obbligazionaria, a tutto danno dell’apparato produttivo e quindi dell’occupazione.

 

4) L’inflazione può essere frenata dalle dinamiche del mercato, la deflazione no.

Infatti in clima di incremento dei prezzi un imprenditore può ridurre l’utile sapendo che aumenterà il volume d’affari, poiché così facendo si è reso più competitivo e questa scelta potrà costringere altri a imitarlo.

In clima di contrazione dei prezzi, se l’imprenditore li alza si mette fuori mercato. D’altro canto non può oltrepassare il limite inferiore dei suoi costi fissi, se non vuole vendere in perdita. Tuttavia, anche riducendo al massimo il suo prezzo deve subire i cali delle vendite causati dalla penuria di moneta in circolazione e sovente è costretto comunque a chiudere l’attività. Fallendo accresce il numero dei disoccupati, cioè di coloro che non avranno da spendere presso le aziende sopravvissute, che si troveranno a loro volta in difficoltà, oltretutto in un clima di sfiducia generale. Solo la penuria di beni, che ne aumenterà il prezzo, potrà invertire la tendenza, ma se si arriva a questo punto non si parla più di crisi economica, ma di catastrofe sociale.

 

Quindi solo provvedimenti di stampo dirigistico possono arrestare la deflazione prima che si verifichino carestie e rivoluzioni. Ed è interessante notare che la globalizzazione costituisce un ostacolo terribile per chi volesse raddrizzare il timone di una crisi deflattiva: infatti più è vasto il sistema coinvolto e più ampia e durevole sarà la crisi se lasciata al mercato; ma d’altro canto un sistema a controllo fluido e multipolare, come quello globalizzato, difficilmente consente di imporre provvedimenti generali e accettati da tutti.

 

5) L’inflazione permette di vendere tutte le merci prodotte (dato che i soldi eccedono il valore dell’offerta totale di merci), la deflazione lascia molti beni invenduti. Pertanto la deflazione è un evento particolarmente detestabile in quanto in presenza sia del bisogno sia della merce che lo soddisfa, impedisce la transazione per mancanza di un mezzo di scambio, mezzo né raro né costoso.

 

6) L’inflazione, soprattutto se i salari sono indicizzati, non tocca chi spende subito quanto guadagna. La deflazione invece consente di concludere grandi affari a chi ha disponibilità di capitale, dato che può rastrellare molti beni in svendita. In parole povere la deflazione avvantaggia i ricchi, mentre l’inflazione non danneggia i poveri, dato che essi spendono subito ciò che hanno per vivere, e non hanno denaro accumulato che si possa svalutare, come invece succede ai ricchi.

 

Come può il denaro aumentare e diminuire di numero

 

La massa monetaria purtroppo non è affatto stabile. Le regole attuali permettono ad ogni banca di prestare almeno dieci volte tanto l’entità del proprio patrimonio*4) e, con questo stesso atto, di creare la moneta corrispondente.

Tralascio completamente le polemiche sul fatto che la moneta bancaria non abbia valore legale, poiché dal punto di vista economico (del funzionamento dell’economia) non fa nessuna differenza.

Invece osservo che permettere di creare denaro non significa necessariamente farlo, quindi questa facoltà delle banche private può produrre, indifferentemente e per ragioni meschine di convenienza locale, sia una massa monetaria troppo grande sia una massa monetaria troppo ristretta.

Questo è il primo punto debole del sistema monetario attualmente in uso: che permette di alternare situazioni di inflazione o deflazione in modo incontrollabile.

E’ significativo e altamente ironico che questo accada proprio in concomitanza con l’affermarsi della teoria monetarista, che predica la necessità di mantenere stabile l’offerta di moneta, ma non si cura di fornirne i mezzi. Finché permane questa situazione per cui le banche private possono creare denaro a piacimento, ogni governo della massa monetaria è puramente illusorio.

 

Un secondo punto fondamentale è che il denaro bancario non solo si crea, ma anche si distrugge: l’accredito contabile che ha messo in circolazione moneta che non esisteva, viene annullato con la restituzione del prestito. Perciò l’economia vive un duplice paradosso: da un lato la massa monetaria può aumentare solo aumentando il debito totale: quindi quando ci sono in circolazione tanti soldi e l’economia va bene c’è tanto debito.

D’altro lato il ripianamento del debito, rende insufficiente la massa monetaria totale per un buon funzionamento dell’economia e innesca una crisi da deflazione. Ciò è tanto più vero se si considera che oltre alle somme prese in prestito per gli investimenti, il circuito dell’economia reale deve restituire alle banche (cioè agli azionisti delle banche) gli interessi, ritrovandosi così a disposizione una massa monetaria inferiore allo stato iniziale, antecedente al prestito. Questa, tra l’altro, è la ragione per cui una pretesa come quella del “fiscal compact” può essere solo assurda e dannosa.

 

Quindi l’economia reale viene trasformata in una bolla permanente dal nostro (insano) sistema monetario: finché c’è speranza di crescita i soldi sono disponibili persino in eccesso, appena sorge un dubbio sulla crescita (e quindi sulla possibilità di lucrare attraverso i prestiti) il credito viene ristretto, trasformando i dubbi in realtà.

E naturalmente, poiché non esiste la crescita infinita, questa situazione non fa altro che produrre un’alternanza ciclica di euforia e crisi.

Tale andamento sinusoidale dell’economia è il risultato di una causa e precisamente della causa appena descritta, che si può definire “ciclo monetario”. Solo un credulone superstizioso può attribuire al caso un andamento ineluttabile e ripetitivo, e come tale va qualificato ogni economista che attribuisca a delle “fluttuazioni” l’origine delle crisi ricorrenti*5).

Anche la stampa di denaro in queste condizioni non è una soluzione, perché il moltiplicatore monetario delle banche potrebbe produrre eccesso di liquidità, con il rischio di parossismi inflattivi.

Ma soprattutto perché, se creato solo per essere prestato, il denaro non crea nessun innalzamento stabile della massa monetaria, ma solo un’onda più alta nel ciclo sinusoidale di espansione e contrazione del circolante.

L’unica soluzione logica è quella di adoperare denaro che non venga continuamente creato e distrutto, ma permanga stabilmente, spostandosi da un luogo all’altro. La proposta di Irving Fisher del “100% money” (1936) è il primo caso di esposizione “scientifica” di questa prassi, peraltro largamente praticata nei secoli passati e sostenuta dal più elementare buon senso. Nel 2012 una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale*6), ha confermato la bontà delle analisi di Fisher, alla luce dei più raffinati calcoli e delle più accurate analisi praticabili al giorno d’oggi.

La conclusione, tuttavia, risulta evidente anche al sopracitato elementare buon senso e suona così: “La caratteristica critica del nostro modello (attualmente in uso nda) è che l’offerta di moneta per l’economia è creata dalle banche attraverso il debito, anziché essere creata dallo Stato, ed esente da debito”.

Il problema per cui non si mette in atto questo provvedimento “scientificamente” approvato è il più gigantesco conflitto di interessi dell’era moderna: a decidere di questi regolamenti sono in gran parte gli stessi oligarchi bancari che mantengono incredibili rendite di posizione, in termini di ricchezza e potere, grazie all’attuale sconclusionato sistema.

Una speranza viene dalla Svizzera, che ha recentemente ammesso un referendum per la “moneta intera”*7), cioè per la riserva 100% auspicata da Fisher, e che potrebbe così costituire un esempio imitabile di ritorno al buon senso.

 

Conclusione: le vere crisi sono sempre da deflazione

 

Abbiamo visto sopra che una crisi economica consiste principalmente in uno squilibrio tra la massa delle merci e quella del mezzo di scambio, cioè il denaro. Abbiamo visto che quando il mezzo di scambio sovrabbonda possono esserci difficoltà, ma è quando scarseggia che sempre e inevitabilmente si presenta la crisi. Abbiamo visto anche che i problemi di inflazione riguardano soprattutto il risparmio, mentre quelli di deflazione bloccano il cuore stesso dell’economia, cioè il sistema di produzione e scambio dei beni indispensabili al sostentamento.

Aggiungo che, anche dal punto di vista storico, le grandi crisi furono di stampo deflattivo: dall’impero romano, che a furia di pagare eserciti mercenari si ritrovò privo di quella massa di denaro indispensabile al proprio mercato che finì per paralizzarsi, passando per il medioevo, che soffrì di una scarsa specializzazione del lavoro a causa di quella rarefazione monetaria che perdurò fino alla scoperta dell’America*8), fino alla grande depressione del XX secolo, negli Stati Uniti e in Europa. Di converso le grandi crisi inflattive, non sono state inflattive, ma crisi internazionali di svalutazione, spesso accompagnate da clamorosi fenomeni speculativi.

 

Pertanto si può tranquillamente affermare che il principio primo di ogni politica monetaria debba essere quello di non far mancare mai il denaro e preoccuparsi di tenerlo in movimento.

Perché tutte le crisi sono crisi da deflazione.

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*1) Se un sistema chiuso, ad esempio uno Stato, importa più di quello che esporta, dovrà acquistare la valuta estera per procurarsi i beni stranieri. La domanda di valuta straniera la farà salire di valore rispetto alla moneta nazionale, che si svaluterà. In questo modo diventerà meno conveniente importare e più conveniente esportare: la competitività si riallinea automaticamente tendendo a mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti esteri. Questo ragionamento, comprensibile da un qualunque studente liceale anche se un po’ ritardato, è stato trascurato dagli architetti dell’euro, che hanno così sancito la desertificazione delle economie nazionali meno competitive. Né l’hanno compreso i politici nazionali di queste aree più deboli, o, se l’hanno capito senza opporvisi, hanno dimostrato di essere dei laidi traditori dei loro popoli.

 

*2) Il meccanismo è stato illustrato nel testo fondamentale di Bresciani-Turroni degli anni ’20 sulla famosa iper-inflazione di Weimar, saggio molto conosciuto tra gli hedge found di New York e ripreso in un suo scritto da Ray Dalio (fondatore di Bridgewater).

 

*3) Qualcuno potrebbe obiettare che in seguito alla crisi del ’29, con la scomparsa di un terzo del denaro della nazione americana, come spiega Fisher nel “Chicago plan”, i prezzi effettivamente si abbassarono in modo generalizzato. Tuttavia il fenomeno va letto simmetricamente al contrario: non furono i prezzi a decrescere, ma il dollaro ad aumentare di valore, in conseguenza della corsa agli sportelli bancari, dato che la domanda di dollari era molto superiore alla possibilità delle banche di restituirli o fornirli. Senza la corsa agli sportelli, la storia economica sarebbe diversa da quella che conosciamo.

 

*4) Le regole attualmente in vigore, denominate Basilea 1, 2 & 3, pongono questo vincolo teorico. Tuttavia i criteri di ponderazione del rischio e le prassi in uso nel rapporto tra banche e Banca Centrale, fanno sì che il moltiplicatore monetario possa avere un fattore molto più alto.

 

*5) Ogni riferimento alla scuola classica e a Keynes che sull’argomento concorda è puramente voluto.

 

*6)  Jaromir Benes and Michael Kumhof : The Chicago Plan Revisited, IMF WORKING PAPER WP/12/202

 

*7) Si può vedere il sito del comitato promotore a questo indirizzo:  http://www.iniziativa-moneta-intera.ch/

 

*8) I problemi delle economie antiche furono legati all’uso della moneta aurea: se l’oro andava tutto all’estero o per qualche altra ragione non ce n’era abbastanza, come ad esempio per un aumento demografico, non si poteva fabbricare alla bisogna, dato che l’oro può essere solo trovato e così si languiva in regime di deflazione. L’oro importato dall’America rilanciò l’economia europea. Di converso l’Inghilterra del XV secolo conobbe un favorevole periodo di prosperità, in concomitanza con l’uso della moneta di legno.