Trivelle sì, trivelle no? Facciamo due conti

di Enrico Verga  (da Il Sole 24 Ore)

Di norma non mi appassiono alle questioni italiane, specie se parliamo di politica. Ma il referendum sulle trivelle, toccando tematiche di materie prime e geopolitica ha attratto la mia attenzione. Votare Sì o votare No è faccenda piuttosto complessa. Il focus del dibattito è di solito sul tema ambientale o dei posti di lavoro. Io ho pensato di fare due conti. Andiamo banalmente a vedere chi ci perde e chi ci guadagna e vediamo se riesco a farmi (e offrirvi) un’idea.

Sfruttamento delle risorse sul territorio italiano implica che le aziende paghino un “affitto” allo Stato. Il termine in gergo è royalty, ovvero un prelievo diretto alla “fonte” (il contatore sta allacciato al “tubo” del gas o petrolio che vien fuori dalle piattaforme). In soldoni, se arriva una compagnia che estrae gas o petrolio in Italia, approvato il progetto, per ogni 100 euro di gas estratto (o petrolio) la società estrattiva andrà a pagare il 10% (o il 7% se petrolio) allo Stato (i numeri si riferiscono alle attività offshore). Fin qui nulla di complesso. Essendo gli impianti di estrazione costosi nella loro creazione, attivazione e messa in opera, ogni Stato prevede una sorta di sconto (chiamata franchigia). Per esempio se tu petroliere estrai 50.000 barili di petrolio, avendo sostenuto dei costi per la creazione del pozzo, ti farò una sorta di sconto. Poniamo fino a 50.000 barili all’anno, per l’installazione, non te li faccio pagare. Perché devi rientrare del tuo costo. Dal 50.001 esimo barile mi pagherai il 7% o 10% del valore di mercato del prodotto.

Fin qui lo stato dell’arte. Ora cominciamo a far i conti.

L’Italia, si sa, non ha una grande abbondanza di idrocarburi. Certo come riporta sul suo blog il capo della comunicazione di Eni, Marco Bardazzi, nel panorama italiano le riserve hanno una loro rispettabilità, anche se sullo scenario mondiale non siamo certo ricchi. Ora facciamo un paragone molto elementare. Se io sono un padre di famiglia (esempio associabile a un primo ministro) e ho un singolo appartamento, logica vuole che lo affitti al prezzo più alto possibile (compatibilmente con i prezzi di mercato), valorizzandolo al massimo. Con i soldi guadagnati ci pagherò, per esempio, le spese di famiglia dando qualcosa ai figli (che studiano, che son disoccupati, scegliete voi).

Un padre di famiglia che invece si chiama Al Maktoum (e magari non abita in Italia ma, poniamo, nella penisola araba) se ha 2000 appartamenti può concedersi il lusso di affittarli a prezzi più modesti: giocando sulla quantità li affitterà prima. Sarebbe, a mio modesto avviso, follia, se il padre di famiglia con il singolo appartamento lo affittasse a prezzi bassi. Sarebbe controproducente e porterebbe meno soldi in famiglia. Curioso notare come, dati alla mano di una analisi di Ernst & Young, l’Italia sia tra le nazioni con le royalty più basse nel mondo. Cioè, già non abbiamo molte risorse energetiche (in proporzione al mondo) e in più le svendiamo? Sono un poco perplesso da questa strategia che dovrebbe “incentivare le estrazioni di risorse scarse”.

Ora, affrontiamo il tema franchigia. È un dato di fatto che molte piattaforme estrattive restino sotto le quote di franchigia. Non ci vuole un genio con Mba ad Harvard per capire che se tu compagnia energetica resti sotto franchigia non pagherai le royalty (pur basse) allo Stato.

Votando Sì al referendum gli italiani otterrebbero limiti temporali per le concessioni definiti (in pochi anni). Quindi, banalmente, le compagnie energetiche dovrebbero (si suppone) estrarre più prodotto possibile entro i termini previsti. Sfondando le quote di franchigia e quindi pagando più royalty. Il tutto a vantaggio della comunità locale e nazionale.

 

Sembra chiaro (ma non voglio influenzare nessuno) che votare Sì andrebbe a vantaggio dell’Italia. Ma restano due temi che comunque, nel caso si voti Sì, è doveroso menzionare. Il primo è squisitamente economico privatistico. Votando Si possono aver luogo due eventi. Il primo è molto semplice: se obblighi le aziende a estrarre più velocemente i loro piani economici saranno sballati. Seconda cosa, da non dimenticare: in pratica scatterà l’obbligo di smantellare le piattaforme non più operative (che a leggere i dati del ministero dello Sviluppo economico sono un discreto numero). Queste piattaforme una volta smantellate non hanno valore commerciale, sono semplicemente obsolete, dei giganteschi rottami. Tutte queste spese saranno ascritte nei bilanci delle società energetiche che si ritroveranno, con la congiuntura del petrolio a prezzi bassi, ad ingoiare un bel boccone amaro. Questo scenario spingerà le aziende energetiche fossili a investire di più in Italia? Non credo.

L’altra questione è politica. Ho come la percezione che l’attuale governo abbia tentato il colpo gobbo. Con la legge di stabilità si è deciso che era lo Stato a imporre dove come quando (e perché) aprire nuovi siti estrattivi distribuendo licenze. Le royalty in sé invece verranno convogliate, salvo pochi spiccioli, nelle casse centrali, lasciando poco o nulla alle regioni. Non è un caso che questo referendum sia stato promosso dalle Regioni stesse. I governatori regionali (per lo più di area PD) si sono ribellati al loro stesso partito? No, semplicemente si parla di soldi.

Se io governatore regionale devo farmi rieleggere e mi presento al mio elettore con un piano industriale estrattivo “imposto”, da cui però non porto a casa soldi (non molti almeno) per compensare il “chiamiamolo” fastidio di avere siti complessi sul mio territorio, cosa ne guadagno? Gli elettori, oltre che darmi dell’incapace, non mi voteranno. Una soluzione differente e forse efficace sarebbe stata se si fosse optato per una minor tassazione (che comunque incide) e un più alto tasso di royalty che potevano essere retrocesse alle regioni (auspicando che tali soldi fossero usati a beneficio della collettività locale, si intende). Ma cosi non accade.

Quindi l’attuale referendum (detto per inciso: è cosa alquanto inusitata che un premier suggerisca di non esercitare il democratico diritto al voto, il presidente della Corte costituzionale ha invitato a farlo, invece) avrà due esiti: vince il Sì (sempre che si raggiunga il quorum) e ci saranno più soldi per lo Stato (magari se si alzassero le royalty non sarebbe male). In compenso si arrabbieranno le compagnie energetiche. Se non si raggiunge il quorum o vince il No il premier si inimicherà comunque una parte del suo elettorato di sinistra (avverso al “padrone capitalista” facilmente identificabile nelle multinazionali energetiche).

Io ho già in mente come voterò ma mi pongo la domanda: far le cose fatte meglio la prossima volta sarebbe possibile?

Twitter @enricoverga