TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO di Luigi Copertino – Terza Parte

TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO 

Riflessioni teologico-politiche sulla Fede cristiana tra Stato, socialismo e liberismo  

Terza Parte

 

Personalismo ed organicismo

Abbiamo poc’anzi ricordato che la Comunità Politica è una vivente comunità di persone alla quale il singolo partecipa variamente mediante la pluralità dei corpi intermedi di cui egli è parte, dalla famiglia al comune, dal sindacato alla nazione, dall’impresa al gruppo professionale, e che in detta Comunità il ruolo primario al servizio del bene comune è svolto (dovrebbe essere svolto) dall’Autorità politica. L’Autorità ha necessariamente uno statuto personalista. Sempre infatti si tratta di persona o persone rivestite del ruolo di governo, anche nella modernità ossia anche quando l’Autorità ha assunto forma impersonale nell’“apparato giuridico” o nella “persona giuridica” che nascono, insieme al normativismo ed al contrattualismo, quale immanentizzazione dell’idea teologica del Corpo Mistico di Cristo. Carl Schmitt affermando che lo Stato moderno è il “primo agente della secolarizzazione” intendeva dire che lo Stato si presenta storicamente quale “dio mortale” e che di esso non può darsi migliore raffigurazione di quella hobbesiana del Leviatano il quale – a differenza di Cristo che nella Sua Chiesa, intesa come suo Corpo Mistico, incorpora i singoli per elevarli, in quanto tali, nello Spirito senza risolverli nell’indistinzione panteistica ossia permanendo la distinzione ontologica tra Creatore, incarnato, e creatura – invece fagocita gli uomini che lo compongono facendo di esso il “Macroantropos” o, per dirla con Comte, il “Grande Animale”. Tuttavia, che si tratti di una monarchia feudale, di una monarchia assoluta, di una dittatura o di una democrazia parlamentare, l’Autorità politica è sempre, in ultima istanza, personale, ossia incarnata e rappresentata da persone umane concrete, capaci in coscienza di assumere su di sé gravi responsabilità mediante decisioni dalle quali può anche dipendere la loro stessa salvezza eterna. Nell’età della secolarizzazione si è perso questo senso di responsabilità, con la conseguenza della troppo facile rincorsa al potere. Se si avesse maggiore consapevolezza dei rischi per la propria sorte oltremondana ai quali l’esercizio del potere espone, lo si fuggirebbe piuttosto che rincorrerlo.

Dunque, quando parliamo di Comunità o di Autorità parliamo sempre di persone concrete, corpo, anima e spirito, mai di mere astrazioni. Questo darsi contemporaneo della persona e della comunità nel suo insieme organico è un dato sociologico di natura dal quale nessuna analisi di teologia o filosofia morale o politica può sfuggire. Neanche la Dottrina Sociale Cattolica.

L’oscillazione tra personalismo ed organicismo nel pensiero sociale cattolico, che può a seconda delle epoche e delle circostanze storiche porre in maggiore evidenza l’uno o l’altro ma sempre senza mai negare nessuno dei due poli, non deve essere presa come una incongruenza o una contraddizione. Nel disegno di Dio sull’uomo, l’essere umano è voluto per Amore gratuito, ossia originariamente vocato ad una relazione ineguale ma liberatrice con il Suo Signore, e per natura consegnato come persona a scoprire il senso più vero della propria identità soltanto all’interno della comunità naturale di appartenenza, ad immagine stessa del Dio Trinitario che è Relazione ad intra tra Persone nell’Unica Sostanza Divina dell’Amore. Amore tra il Padre ed il Figlio che è Spirito Santo. Fuoco che arde senza consumare.

Nella medesima enciclica “Centesimus Annus”, Giovanni Paolo II osserva che la «… famiglia (e le) … altre società intermedie … maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell’anonimato ed in un’impersonale massificazione, purtroppo frequente nella società moderna» e che «E’ nel molteplice intersecarsi dei rapporti che vive la persona … oggi spesso soffocat(a) tra … Stato e … mercato» sicché «Sembra, infatti, talvolta che (essa) esista soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come oggetto dell’amministrazione dello Stato mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato …» (n. 49) per subito aggiungere che la vocazione originaria dell’uomo alla «… ricerca … della verità, che si rinnova ad ogni generazione, si caratterizza (anche come) “cultura della Nazione” … patrimonio dei valori tramandati ed acquisiti (che le giovani generazioni sono chiamate a) mettere alla prova (per) rendere quei valori più vivi, attuali e personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido … da forme invecchiate, che possono essere sostituite … In (un) … contesto (nel quale) anche l’evangelizzazione si inserisce nella cultura delle Nazioni (perché) … tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa … (e perché) il primo e più importante lavoro si compie nel “cuore dell’uomo” …» (“Centesimus Annus” nn. 50, 51).

Per questo, dice ancora Giovanni Paolo II, la stessa impresa economica non è “giusta” se non è innanzitutto “comunità di uomini” nella quale il profitto è soltanto un indicatore di efficienza che, per quanto importante, resta sempre secondario, anche sotto lo stesso profilo di una vera efficienza economica, rispetto ad “altri fattori umani e morali” giacché «E’ possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati ed offesi nella loro dignità» (“Centesimus Annus”, n. 35). Una critica, quest’ultima, che è applicabile anche allo Stato il quale può essere in pareggio di bilancio, come vuole l’ortodossia ordoliberale, ma poi tollerare l’aumento esponenziale della povertà e della disoccupazione inevitabilmente conseguenti ai tagli alla spesa di investimento ed a quella sociale.

Il “personalismo comunitario” di derivazione trinitaria – nella cui prospettiva non è escluso, anzi è prioritario il ruolo dell’Auctoritas politica – è, più o meno esplicitamente confessato, alla radice del pensiero anche di economisti non dichiaratamente cristiani ma sicuramente aperti ad una prospettiva di trascendenza, come, ad esempio, Federico Caffé il cui nome è annoverato tra i più grandi economisti del XX secolo. Nato a Pescara nel 1914, maestro e padre del keynesismo italiano, siamo convinti che tra le cause della sua scomparsa misteriosa, insieme ad una forma di depressione della quale soffriva negli ultimi anni, vada annoverata anche una crisi di carattere squisitamente spirituale. La sua concezione dell’economia non come freddo calcolo utilitarista ed efficientista, bensì innanzitutto come scienza al servizio dell’essere umano ed in particolare dei più deboli, evidenzia, nelle pieghe del suo pensiero, la matrice cristiana della formulazione di una concezione etica e sociale dell’economia alla quale egli lavorò tanto come docente quanto nel suo impegno tecnico presso la Banca d’Italia e poi quale consulente di diverse forze politiche. Una matrice cristiana senza dubbio inconfessata persino a sé stesso, benché avesse a suo tempo da “laico” collaborato a quelle “Cronache Sociali” che furono la palestra dei Giorgio La Pira e degli Amintore Fanfani.

La nostra non è affatto una forzatura ma una esegesi del tutto verosimile del pensiero di uno studioso per il quale, come scrive l’Enciclopedia Treccani, «La concezione di un’economia democratica è riassunta nelle righe di apertura della sua ultima raccolta di scritti (In difesa del Welfare State, 1986). I “punti fermi” consistono nell’auspicare un intervento pubblico mirante ad assicurare un’effettiva eguaglianza nei punti di partenza, cui concorre peraltro un volontariato “ispirato da un’etica radicata nei valori della trascendenza” (p. 7). Concetti ai quali egli fu sempre tenacemente e coerentemente fedele». Come è stato osservato – da Antonio Capitano in ottimo articolo indegnamente pubblicato su una rivista che non vogliamo nominare perché fondamentalista nel suo “giacobinismo” retrò – la visione di Caffé era quella dell’« … economia al servizio della persona. E la persona al centro, sempre al centro con convinta umanità e capacità di trasmetterla alle generazioni future. Per Caffè il concetto di efficienza non può essere disgiunto da quello di equità». Una tale concezione chiaramente “personalista” non avrebbe mai potuto fare la sua comparsa nella storia del pensiero, anche economico, se non fosse intervenuta la Rivelazione biblica a dirci che senza il Dio personale non si da neanche la persona umana, che se in Dio non ci fosse la relazione intra-Trinitaria tra le Persone Divine non potrebbe esserci neanche l’uomo come persona, dunque come intelligenza e spiritualità e non mera animalità. Non sembra, tuttavia, che alcuno dei suoi allievi, neanche i più fedeli, abbia per davvero continuato la vera lezione di Federico Caffé, perché si tratta in qualche modo di una lezione nascosta e quindi ancora tutta da scoprire: quella religiosa e spirituale, quella cristiana, di un “cristianesimo laico” ma, si badi, non secolarizzato!, che forse lui stesso non ha mai compreso di aver impartito per una vita intera.

Ciò che nel magistero sociale cattolico appare come un oscillare tra polarità inconciliabili, tra Autorità ed Autonomia, Libertà ed Eguaglianza, Persona e Comunità, Stato e mercato, non è affatto incongruenza ma l’espressione stesso di un pensiero fondato sull’“et et” in una concezione che ordina in composizione armonica quanto il pensiero non cattolico legge inevitabilmente, date le sue premesse, in modo conflittuale. «Il programma sociale cristiano – ebbe a dire Paolo VI in un discorso del 12 novembre 1975 – intende porsi non tanto come via media, di compromesso, tra l’egoismo liberale, da un lato, e il socialismo comunista dall’altro, ma come espressione originale, organica e dinamica della convivenza sociale, in ordine globale». Questa globalità, sottesa all’apparente oscillare, consente il legittimo dispiegarsi di letture più conservatrici o più sociali intorno ad un comune ed irrinunciabile patrimonio centrale di riferimenti spirituali e morali da attuare nelle circostanze concrete del momento. Il rischio, che corrono sovente i cattolici alle prese con le proprie opzioni personali o di appartenenza culturale o politica, è quello di una esegesi “eretica” nel senso etimologico del termine ossia di una lettura unilateralmente selettiva che, dando preferenza ad alcune polarità a discapito delle altre, in qualche modo messe in secondo piano se non addirittura negate, finiscono per dimenticare l’universalità della Weltanschauung cattolica.

Rimane tuttavia innegabile che, come abbiamo riscontrato anche comparando i testi del magistero sociale di Pio XI con quelli di Giovanni Paolo II, le concrete circostanze storiche nel contesto delle quali i documenti pontifici sono promulgati possono essere causa dello spostamento parziale verso una o l’altra polarità anche se mai l’Asse Centrale viene veramente perduto o resta offuscato. Esso, anzi, continua ad essere presente come il Faro nella notte tempestosa della vicenda storica dell’umanità.

Ecco perché, alla luce della attuale crisi economica succeduta al trionfalismo del neoliberismo globale, il quale ha caratterizzato il clima epocale degli anni che hanno coinciso con il pontificato wojtiliano, il Magistero sociale, nei documenti sociali di Benedetto XVI e di Francesco I, sembra ora tornare verso una maggiore rivalutazione della polarità sociale e comunitaria, compreso il ruolo dell’Autorità politica statuale.

Papa Ratzinger, ad esempio, ha messo in rilievo la luciferina potenza dei «capitali anonimi che schiavizzano l’uomo … un potere anonimo … dal quale sono tormentati gli uomini, e perfino trucidati … un potere distruttivo, che minaccia il mondo» (14) per poi rilevare che, a fronte della eccessiva mobilità incontrollata dei capitali finanziari, che è una delle concause della crisi economica in atto, è necessaria una “rinnovata valutazione” del ruolo dei Pubblici Poteri dello Stato (“Caritas in Veritate”, cap. II, par. 24, pg. 34; cap. III, par. 41, pg. 66), fino a riaffermare, accanto ed al di sopra della “giustizia commutativa” propria dei rapporti di scambio orizzontali tipici del mercato, il primato verticale della “giustizia distributiva”, ossia della “giustizia sociale”, che è competenza fondamentale, nel senso che ne fonda addirittura la legittimità naturale, dell’Autorità Politica alla quale spetta la tutela del Bene Comune. Infatti solo all’interno della Comunità politica lo stesso mercato può trovare, in quanto parte del tutto e non in quanto parte che pretende di ridurre tutto a sé, il suo posto, subordinato, per mediazione del Politico, all’Etica rivelata, eteronoma, e, quindi, alla sfera santo-sacrale, ed essere così di beneficio agli uomini (“Caritas in Veritate”, cap. III, par. 35, pg. 55).

Dal canto suo, Papa Francesco ha indicato la causa principale dello squilibrio sociale, che egemone il neoliberismo ha aumentato in termini abissali la distanza tra i pochi iper-ricchi ed i molti, appartenenti questi ultimi soprattutto al ceto medio in via di depauperimento, nelle « … ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria (e che) … Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. (…). La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa sia fragile … rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta. Dietro questo atteggiamento si nascond(e) … il rifiuto di Dio … perché (Egli) relativizza il denaro e il potere … poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona» (Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” – cap. II).

Non è affatto, questo, un linguaggio nuovo nel magistero sociale. Anzi con esso ritorna lo stesso linguaggio usato incisivamente da un predecessore del Papa regnante. Parliamo di Paolo VI. L’8 giugno 1964 Papa Montini rivolgendosi agli industriali cristiani ricordava loro che: «Il sistema economico-sociale generato dal liberalismo manchesteriano … non è la perfezione, non è la pace, non è la giustizia … (è) … necessario … scoprire … la deficienza fondamentale del sistema che pretende considerare come puramente economici e automaticamente regolabili i rapporti umani». L’11 maggio del 1966 Paolo VI affermò che «bisogna cambiare tutto il sistema economico e finanziario mondiale» per poi, in una udienza concessa ai banchieri il 4 novembre dello stesso anno, indicare il male nel «… nativo egoismo della moneta». Il 1967 fu poi l’anno dell’Enciclica paolina “Populorum Progressio” nella quale – con diretto richiamo a Pio XI – egli lamentava: « … si è malauguratamente instaurato un sistema che considera il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale liberalismo senza freno conduce alla dittatura a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell’imperialismo internazionale del denaro» (“Populorum Progressio” n. 26) per quindi immediatamente aggiungere «… la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovano in condizione di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega, quindi, come i Paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo diseguali da paese a paese: i prezzi che si formano liberamente sul mercato possono condurre a risultati iniqui. Giova ricordarlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa» (“Populorum Progressio” n. 58). Questo perché, spiega ancora Papa Montini: «… il consenso delle parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguaglianza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale. Ciò che era vero rispetto al giusto salario individuale lo è anche rispetto ai contratti internazionali: una economia di scambio non può più poggiare esclusivamente sulla legge della libera concorrenza, anch’essa troppo spesso generatrice di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alle esigenze della giustizia sociale» (“Populorum Progressio” n. 59).

La montiniana condanna diretta del “principio fondamentale del liberalismo” non era affatto una apertura al marxismo, come gridarono scioccamente i cattolici conservatori e tradizionalisti appoggiati ad extra dai liberisti di ogni risma. Era nient’altro che una derivazione sul piano sociale ed economico della condanna teologica e filosofica del liberalismo già ampiamente argomentata sin dai tempi del Sillabo di Pio IX. Infatti nell’udienza generale del 18 agosto 1971 Paolo VI, richiamandone espressamente in causa i contenuti, sferrò un nuovo attacco ai principi fondamentali del liberalismo che era dal Pontefice condannato « … per il suo agnosticismo in fatto di principi trascendenti, sia religiosi che etici; per il suo ottimismo nel risultato della lotta inevitabile fra le varie tendenze, la quale si è risolta spesso nella sopraffazione da parte del più forte, specialmente in campo economico-sociale; per il naturalismo che ne è derivato a danno d’un deontologismo etico ed a favore d’una indifferenza, speculativa almeno, verso i bisogni e le sofferenze altrui; per il fermento antinormativo che ha poi alimentato le inquietudini sociali, favorendone così reazioni rivoluzionarie e totalitarie».

Il colpo di grazia al liberalismo, nel magistero di Papa Montini, è forse contenuto nella “Octogesima Adveniens” (14 maggio 1971, per l’80° della “Rerum Novarum”) nella quale, oltretutto, viene espresso un chiaro “caveat!” verso quelli che all’epoca erano i primi segni dell’imminente rivoluzione neoliberista che da lì a poco sarebbe divampata con la svolta inglese della signora Thatcher e statunitense di Ronald Reagan. «Il cristiano che vuol vivere la sua fede in un’azione politica – scriveva in quel documento Papa Montini – … non può, senza contraddirsi, dare la propria adesione a sistemi ideologici che si oppongono radicalmente o su punti sostanziali alla sua fede e alla sua concezione dell’uomo: né all’ideologia marxista … né all’ideologia liberale che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola ad ogni limite, stimolandola con la ricerca esclusiva dell’interesse, e del potere, e considerando la solidarietà sociale come conseguenza, più o meno automatica, delle iniziative individuali e non già quale scopo e criterio più vasto della validità dell’organizzazione sociale. (…) si assiste ad un rinnovamento dell’ideologia liberale. Questa corrente si afferma sia all’insegna dell’efficacia economica, sia come difesa dell’individuo e contro le iniziative sempre più invadenti delle organizzazioni e contro le tendenze totalitarie dei pubblici poteri. Certamente l’iniziativa personale deve essere mantenuta e sviluppata. Ma i cristiani che s’impegnano in questa direzione non tendono, a loro volta, a idealizzare il liberalismo che diventa allora una esaltazione della libertà? Essi vorrebbero un nuovo modello più adatto alle condizioni attuali e facilmente dimenticano che alla sua stessa radice il liberalismo filosofico è un’affermazione erronea dell’autonomia dell’individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell’esercizio della sua libertà. Ciò significa che anche l’ideologia liberale esige da parte loro un attento discernimento …» (“Octogesima Adveniens” nn. 26 e 35).

Un ammonimento profetico rimasto, purtroppo, inascoltato soprattutto dai cattolici di “destra”, conservatori o tradizionalisti che hanno accettato, con disinvoltura, il “marchio di Mammona” arruolandosi nelle fila reaganiane, bushiste, neocons e teocons, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso.

E’ incredibile, invece, quanta assonanza “profetica” accomunava, in quegli anni, le accorate parole di Papa Montini a quelle altrettanto ammonitrici di Federico Caffè, il quale, nel suo testo didattico più noto, “Lezioni di economia politica”, avvertiva i suoi studenti di non lasciarsi incantare dalle sirene ingannevoli del liberismo di ritorno, in una forma che si voleva apparentemente rinnovata ma era essenzialmente identica nei fondamenti individualistici ed antisociali: «Poiché il mercato è una creazione umana, – scriveva il grande economista – l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore». Caffè poi, nello stesso testo, non mancava di porre in evidenza: « … i limiti intrinseci all’operare dell’economia di mercato, anche nell’ipotesi eroica che essa funzioni in condizioni perfettamente concorrenziali. È molto frequente nelle discussioni correnti rilevare un’insistenza metodica sui vantaggi operativi del sistema mercato, e magari su tutto ciò che ne intralci lo “spontaneo” meccanismo, senza alcuna contestuale avvertenza sui connaturali difetti del meccanismo stesso».

Tradotto nei termini della scienza politica, sociale ed economica il magistero sociale cattolico, sia quello più antico che quello più recente, auspica una giusta e ponderata considerazione del ruolo anti-ciclico dello Stato, al quale non è quindi riconosciuto soltanto la funzione di mero regolatore del mercato ma è chiamato anche ad un intervento più diretto. L’esperienza storica, d’altro canto, ha dimostrato che in passato si è forse ecceduto nell’uso dello strumento dell’intervento pubblico e che le decisioni in tal senso non hanno sempre goduto della necessaria ponderazione, trascinate invece da mire particolaristiche e da moventi politico-passionali. Tuttavia far tesoro della lezione degli errori del passato, nella politica fiscale e nella politica monetaria, in modo da non alimentare sprechi e spese improduttive o rendite finanziarie parassitarie e speculative, non deve significare dimenticare detti strumenti e le loro potenzialità. E’ dovere specifico, naturale ed irrinunciabile dell’Autorità politica, organizzata in Stato o in Confederazione di Stati, sostenere gli investimenti pubblici produttivi, vero traino di quelli privati, e quindi sostenere l’economia reale e con essa l’occupazione ed il reddito nonché la libera dignità delle famiglie e delle persone.

                                                                                                                        Luigi Copertino

 (Continua)

 

NOTE

14) «Meditazione del Santo Padre Benedetto XVI nel corso della prima congregazione generale dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi», aula del Sinodo, 11 ottobre 2010, dal sito www.Vatican.va.