TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO di Luigi Copertino – quarta parte

TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO 

Riflessioni teologico-politiche sulla Fede cristiana tra Stato, socialismo e liberismo

Quarta Parte

L’ateismo prometeico essenza del marxismo (onde eliminare ogni equivoco “catto-comunista”)

La nota definizione marxiana della religione quale oppio dei popoli deve essere letta nel suo contesto. Ed in quel contesto Marx non sembra disprezzare, di per sé, l’anelito di giustizia che traspare dal sospirare della creatura oppressa. Tuttavia per Marx quel “sospirare” è soltanto la misura della funzione “conservatrice” e “consolatoria” (in questa errata critica Marx converge con Nietzsche) della fede religiosa. Al di là di ogni romantica comprensione per il religioso “sospirare dell’oppresso”, resta indiscutibile che il punto essenziale del pensiero marxiano sta nella rivendicazione, “umanistica”, del potere dell’uomo di rifondare il mondo, per farlo a sua immagine e somiglianza, ad immagine del suo stesso potere incapace di manifestarsi in tutta la sua forza e potenzialità fino a quando resta imbrigliato dall’alienazione religiosa. Prigioniero di tale alienazione, l’uomo attribuisce ad altri, al “fantasma” di Dio, il suo potere di fondazione e trasformazione del mondo. Il palesarsi del mondo come luogo di ingiustizia dimostra per Marx  l’infondatezza dell’ipotesi Dio. Una ipotesi che pertanto sarebbe solo uno strumento per placare la rabbia dei diseredati e soprattutto – perché in fondo a Marx dei diseredati non importa assolutamente nulla se non come momento dialettico opposto, nell’ottica di uno storicismo hegeliano rovesciato da idealista in materialista, ai loro ricchi oppressori – per castrare la potenzialità autodeificatoria dell’umanità. Non sussiste nel pensiero marxiano alcuna esigenza di apertura del cuore verso l’Alto, di  appello ad una più alta Giustizia. Per Marx appellarsi alla Trascendenza altro non è che alienazione e quindi perpetuazione della situazione di sofferenza dell’uomo a tutto vantaggio di chi da tale sofferenza trae beneficio e che quindi ha solo interesse a che detta situazione non venga meno. In tal senso la fede è, erroneamente, vista come calmieratore del conflitto sociale senza che le sue autentiche cause siano effettivamente rimosse.

Quel che è messo in discussione da Marx è la dipendenza ontologica dell’uomo da Dio. L’Amore liberatorio e salvifico di Dio è ritenuto illusorio e castrante delle potenzialità auto-emancipatrici ed auto-salvifiche dell’essere umano. Questa è la questione principale, il vero e centrale movente teologico-filosofico del pensiero marxiano: quello che sta dietro le sue analisi socio-economiche. Marx fa coincidere – ed in questo si svela la luciferina menzogna che ne tesse il discorso – l’emancipazione dell’umanità, dalla sua condizione di miseria e di depotenziamento, con l’emancipazione assoluta dell’uomo da Dio. Non solo da Dio, ma – si badi! – anche dallo Stato nella misura in cui esso è comunque una “trascendenza egemonica”, una “sovrastruttura”, che, dopo la temporanea parentesi della dittatura del proletariato, deve essere superata, liquefatta, nella società comunista autogestita perché senza più alcun governo che non sia l’autogoverno dei produttori associati nella contribuzione/redistribuzione del prodotto economico garantita dallo spontaneismo delle forze storico-sociali le quali muovono finalisticamente la materia umana, apice della materia cosmica e biologica, verso la perfezione auto-divinizzatrice. La società comunista autogestita ed il libero mercato, senza Stato o con Stato minimo, corrispondono, come due forme alternative ma interscambiabili, alla medesima rappresentazione ed espressione dell’utopia immanentista. Il vero nucleo del pensiero marxiano, quindi, è nel prometeismo, nell’antropocentrismo che non sa che farsene di Dio nella presunzione che pregare sarebbe un limitare, uno sminuire, le capacità autoredentive dell’umanità. Questa è l’essenza dell’ateismo marxista.

Si tratta, tuttavia, per altri aspetti, nient’altro che di una “secolarizzazione” del profetismo biblico e delle sue istanze di giustizia, anche sociale. Del resto Marx conosceva molto bene la cultura biblica essendo egli di origini ebraiche, anche se di famiglia convertita al cristianesimo però protestante.

Le istanze di giustizia sociale del profetismo veterotestamentario le ritroviamo intatte e perfezionate nell’insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo. Potrebbero citarsi ed essere lette anche in tal senso molte delle Sue parabole. Negli Atti degli Apostoli si racconta della redistribuzione dei beni messa in opera nella Chiesa nascente. «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (Atti 2, 44-45). Ed ancora «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti 4, 32-35).

Ad evidente dimostrazione della dipendenza, pur nella strumentalizzazione e nella falsificazione, del pensiero del filosofo tedesco dalla Bibbia, della conclusione della narrazione degli Atti – “e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” – si è appropriato Marx quando, in preda a febbri profetiche di spuria origine, proclamava «Allora finalmente la società potrà scrivere sulle sue bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» (K. Marx , “Critica del programma di Gotha”) oppure, ancora, «In una fase più elevata della società comunista (…), dopo che il lavoro non è divenuto soltanto un mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora … la società può scrivere sulle sue bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni !”» (K. Marx – F. Engels, “Opere scelte”).

L’espressione “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, che già il socialista repubblicano Louis Blanc aveva fatto sua prima di Marx nella leggera variante del “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, è dunque tratta, come anche riconosce il dizionario filosofico telematico www.filosofico.net, dai passi sopra citati degli Atti degli Apostoli.

Ma, onde non cadere in tragici equivoci, si devono porre in evidenza alcune questioni fondamentali. Nella prospettiva cristiana il lavoro, inteso soprattutto come contemplazione dell’opera di Dio (Adamo, prima del peccato, è chiamato a “custodire” ovvero “coltivare” l’Eden ossia, tracciando solchi sulla terra ad immagine delle costellazioni celesti per ordinarla mediante il rito e la contemplazione mistica, a rendere “culto” a Dio Creatore), diventa dopo il peccato fonte di pena e sofferenza e la stessa natura, prima benevola, si ribella all’uomo («maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», Gen. 3,17-19). In Marx, al contrario, è nel potere umano liberare il lavoro da quanto di penoso esso comporta per farne, nel suo mero aspetto produttivistico e di dominio del mondo, lo scopo fondamentale di una vita tutta proiettata nell’aldiquà. Marx misconosce il carattere essenzialmente ed ontologicamente creaturale dell’uomo, che ne fa per natura un “homo religiosus”. In tal modo Marx, come tutti i falsi profeti dai quali Dio nella Bibbia esorta a stare lontani, prepara il suo pensiero al fallimento antropologico, filosofico e storico. Infatti senza lo spirito aperto alla Trascendenza, come ad esempio nel caso dell’intima soddisfazione dell’artista o dell’artigiano per la propria opera creativa ad immagine dell’atto creativo del Creatore, il lavoro umano, nonostante ogni “sviluppo onnilaterale degli individui”, nonostante dunque ogni orgoglio prometeico che l’uomo possa vantare nella sua faustiana volontà di potenza tecnologicamente espressa, resterà sempre fonte di sofferenza e mai di autentica gioia spirituale.

Proprio lo sviluppo onnipotenziale dei singoli individui, in una sorta di solipsismo collettivo contrattualista senza altri rapporti se non quelli produttivistici, delinea, da un lato, lo sfondo prometeico e, dall’altro, quello nichilistico di una Volontà di Potenza che, ben prima dello stesso Nietzsche, Marx rivendica come “carducciano” inno alla manipolazione, mediante la potenza delle accresciute “forze produttive” e della “ricchezza collettiva”, del mondo inteso, pertanto, quale auto-possesso esclusivo dell’uomo, privo di ogni presenza divina a fondarne la gratuità donativa. In Marx il comunismo realizzato non ha scopi di giustizia sociale ma ha il solo scopo di riportare l’umanità, finalmente guarita dall’alienazione religiosa e quindi conscia del proprio diritto assoluto su di esso, alla consapevolezza del suo dominio totale sul mondo, nella presa di coscienza della propria auto-potenzialità illimitata. Per l’escatologia marxiana solo nella “società comunista avanzata” l’umanità sarà “redenta” dall’alienazione introdotta dal “peccato originale” della proprietà personale. Questa infatti, avendo frantumato l’indistinzione dell’uniformità nichilista originaria, ha permesso, secondo tale escatologia, la comparsa della distinzione tra le persone e sarebbe quindi la responsabile del dramma storico – consistente nella sopraffazione sugli altri uomini – nel quale l’uomo è stato gettato da quando ha iniziato a cogliersi quale persona, pretendendosi inoltre immagine di Dio al fine di giustificare la sua volontà particolaristica ed egemonica che resiste ad ogni trasformazione rivoluzionaria, ad ogni palingenesi salvifica, di riassorbimento nell’unità indifferenziata dell’origine, verso cui inesorabilmente muove la materia universale. Solo rinnegando Dio l’uomo troverà la salvezza nella riappropriazione della sua unità immanente con il mondo che è la radice stessa del suo dominio sulla realtà della quale egli è, ad un tempo, parte e padrone. Ci si potrebbe a questo punto chiedere – ma ne facciamo soltanto un accenno perché altrimenti finiremmo molto lontani – quanto Marx, oltre che Nietzsche, sia presente in Heidegger.

Marx, che dei rapporti umani ha un concetto meramente contrattualista ed utilitarista, non si avvede che non può esistere la persona senza la relazione solidale con l’altro da sé, che non è persona l’individuo solipsista ed irrelato. Questo perché la persona dell’uomo ricalca, nell’aldiqua, la Relazione intratrinitaria delle Persone Divine nell’Unità della Sostanza. Senza l’Unitrinità personale di Dio non potrebbe mai darsi l’uomo come persona, ossia come spiritualità solidale. Ci sarebbe, in assenza della Trinità, soltanto l’uomo come mera e brutale, darwiniana, animalità.

I due passi, sopra citati, degli Atti degli Apostoli, narrano dei fedeli che affidavano agli Apostoli i beni affinché essi fossero messi in comunione e redistribuiti tra tutti. In questa narrazione, troppo spesso confusa con un mai esistito “comunismo cristiano primitivo”, sono evidenti due aspetti fondamentali. Il primo è che quanto veniva praticato nella Chiesa della prima generazione cristiana era, giuridicamente, una forma di comunione e non di statizzazione dei beni. La comunione –  anche nella fattispecie romanistica della “communio” – non corrisponde affatto alla proprietà pubblica, all’appropriazione dei beni da parte dell’Autorità Politica ossia alla statizzazione della proprietà da Marx  supposta, come primo momento verso il comunismo realizzato, e dai regimi del socialismo reale poi attuata, con i disastri sociali conseguenti e senza che ne sia affatto derivato il comunismo acefalo ed autogestionario successivo alla dittatura, presunta temporanea, del proletariato. La comunione apostolica, nella narrazione evangelica, appare piuttosto come una forma di “comproprietà”, ossia di proprietà comune, dei beni, i quali poi, per poter essere goduti da tutti e da ognuno dei membri della comunità, erano distribuiti pro quota a ciascuno a seconda dei propri bisogni personali. Il secondo aspetto evidente nel racconto degli Atti è che la  redistribuzione dei beni, in parti distinte tra tutti i membri della comunità, è affidata all’Autorità, che nel caso della narrazione biblica è Autorità sacerdotale e non politica. L’Autorità non attribuisce a sé la proprietà totalitaria dei beni ma tuttavia è chiamata a garantirne l’equa e giusta redistribuzione, che avviene secondo il criterio biblico, e romano, della giustizia distributiva: “unicuique suum”. In Marx invece l’Autorità politica, nella forma storica dello Stato, non è chiamata ad alcuna opera di redistribuzione perché rappresenta una sovrastruttura arbitraria che, nella società comunista compiuta, deve essere immanentisticamente superata nella convinzione, assolutamente liberistica, che una mano invisibile alla fine tutto aggiusta e tutto ridistribuisca spontaneamente per la felicità universale del genere umano.

Storicamente – è innegabile! – l’Autorità politica non ha quasi mai adempiuto rettamente al proprio dovere di equa redistribuzione dei beni. La forza del peccato è sempre stata tale da sviare anche l’Autorità. Persino quando essa ha preteso, legittimamente o illegittimamente, di avanzare titoli di sacralità. Anche nella stessa Chiesa, dopo la prima generazione cristiana, l’Autorità sacerdotale non sempre è stata all’altezza della Carità che Cristo ha chiesto innanzitutto ai successori dei suoi apostoli. La storia degli abusi dell’Autorità, tanto religiosa quanto politica, è nota per essere qui ricordata, benché mai bisogna, magari polemicamente, confondere l’abuso, anche se frequente, con la norma. Nel tentativo di porre un limite esterno all’Autorità, benché il suo vero e principale limite dovrebbe essere quello interno, a partire dal “cuore aperto all’Alto”, sta la parziale legittimità ed il parziale momento di verità del liberalismo. Il potere è spiritualmente pericoloso se non si è esperti nell’usarlo a fin di bene e senza scottarsi nell’anima. E’ pericoloso per la stessa salvezza personale ed è per questo che i santi lo hanno sempre fuggito, anche quando si trattava di cariche ed onori ecclesiali. Chiunque abbia un potere sul prossimo, anche minimo, persino l’impiegato di un ufficio dell’anagrafe con il potere quasi irrilevante di certificare lo stato civile altrui, ha sulle sue spalle una tale responsabilità, in ordine alla sua stessa salvezza eterna, che se se rendesse conto tremerebbe al pensiero del giudizio che dovrà affrontare, al pensiero del dover rendere conto dell’uso o dell’abuso del potere. Se un tale pensiero, anche in passato, non sembra aver fermato gli abusi dell’Autorità, benché pur nelle concrete circostanze storiche date non di rado ha contribuito a frenarne gli eccessi, quegli stessi abusi non sono affatto scomparsi, anzi sono aumentati assumendo forme ancora più feroci, mano a mano che il cuore dell’uomo andava chiudendosi a Dio, avanzando la modernità secolare.

                                                                                                        Luigi Copertino

(Continua)