TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO di Luigi Copertino – prima parte

TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO 

Riflessioni teologico-politiche sulla Fede cristiana tra Stato, socialismo e liberismo

prima parte

Il punto di intersezione, di raccordo, tra Trascendenza ed immanenza, tra Città di Dio e città degli uomini, passa per il, anzi è nel, cuore dell’uomo, ontologicamente costituito ad immagine del Sacro Cuore di Cristo, il Verbo di Dio Incarnato.

Tra Amore di Dio e amore umano, tra Trascendenza e mondo, tra la Giustizia divina e la giustizia umana – sia intesa in senso biblico (rettitudine morale per aderire alla Volontà divina) sia intesa in senso naturale come espressa, ad esempio, nell’eredità giuridica romana e quindi tanto (re)distributiva (Ulpiano: suum cuique tribuere) quanto commutativa (do ut des) –, tra il Politico ossia la sfera del Bene comune (inteso quale bene di ciascun uomo in quanto uomo naturalmente vocato alla vita associata e relazionale), e l’Economico, ossia lo spazio della produzione e dello scambio, sussiste una vicinanza analogica ma al tempo stesso una distanza in apparenza incolmabile a causa del fatto che il nesso è non solo di analogicità ma anche di equivocità.

La distanza da apparente diventa facilmente effettiva perché essa, che non è affatto originaria, tale può diventare per conseguenza della libera scelta dell’uomo cui è stato concesso di volgere, se lo vuole, l’umana città verso il basso, verso la dissoluzione, nella chiusura del cuore al kenotico farsi a lui incontro dell’Eterno nella storia.

La Misericordia – “miseri-cordia” – non è pietà pelosa, buonismo dolciastro, teoria di buoni sentimenti umanitari, ma è, etimologicamente, “volgere, il cuore (cor, cordis) ai miseri”, volgere il cuore verso le miserie umane. Dove per “miseri” devono intendersi tutti gli uomini qualunque sia la loro condizione terrena, non solo i poveri in senso economico. I poveri per primi, senza dubbio. Ma è l’umanità in generale ad aver bisogno dell’abbassarsi soccorrevole di Colui che è oltre il mondo, perché Egli è l’unico Reale del quale partecipa ogni realtà data. Della misericordia necessitano proprio i più abbienti, a causa della loro cieca condizione prossima alla possibile perdizione eterna nella rincorsa delle cose seconde. Se a Dio nulla è impossibile, sicché gli è possibile anche salvare il ricco epulone magari mediante un salutare rovescio economico o sollecitando in lui una apertura sincera del cuore verso i sofferenti, tuttavia, evangelicamente, è più facile alla gomena di peli di cammello passare per la cruna dell’ago piuttosto che al ricco, tronfio prometeicamente di sé, entrare in Paradiso, ossia nell’Amore divino che richiede umiltà.

Il Potere, la Ricchezza, la Volontà di Potenza, l’Ipertrofia dell’Ego portano l’uomo a dimenticare, in un eccesso di illusoria sicurezza di sé, l’Altro ed il vicino. Se “di-menti-care” è l’atto del togliere dalla mente, “ri-cordare”, invece, è l’atto del ricondurre all’attenzione del cuore. Il ricordarsi di Dio e del prossimo, ovvero l’apertura del cuore a Dio ed al prossimo, è alla radice stessa della salvezza.

La decisione fondamentale, quella ad un tempo prioritaria e definitiva, prima ed ultima, dalla quale dipende ogni altra umana scelta, passa dunque per il cuore dell’uomo.

Realtà storica ed antropologica del mercato

Il mercato non è, come appare in certe scolastiche liberiste, un assoluto. Esso è soltanto un dato storico, un provvisorio punto di snodo nel corso della vicenda storica dell’umanità dal quale altre strade si sono aperte. Di mercato si può parlare solo da quando l’umanità, prima in termini di baratto e poi in termini monetari, ha scoperto i benefici che possono derivare dallo scambio interpersonale dei prodotti. Preferendo, in via di principio e per comune utilità, lo scambio al saccheggio. Una scoperta che ha immediatamente dato vita alla problematica etica e giuridica, prima che economica, del “prezzo” e del “contratto”, quindi del “giusto prezzo” e della “giustizia commutativa”. Ontologicamente il mercato, infatti, è preceduto dall’ordine giuridico che rinvia alla priorità della Comunità Politica sull’economia. La priorità del Politico, troppo spesso assolutizzata perché privata di un ulteriore livello legittimante, rimanda, a sua volta, all’etica eteronoma e, quindi, alla Trascendenza.

L’economia, tuttavia, non coincide con il “mercato”, essendo possibile che essa trovi, e nella storia ha spesso trovato, altre forme di organizzazione.

Ora, nonostante ogni pur evidente beneficio che la scoperta dello scambio ha apportato all’umanità, il mercato resta sempre, prima di tutto, il luogo della concorrenza, del profitto individuale, spesso della prevaricazione, comunque dell’ineguaglianza asimmetrica. Per esperienza sappiamo che il mercato non apporta sempre e comunque, di riflesso, un beneficio al prossimo. Anzi, il più volte ad un beneficio per qualcuno si accompagna il sacrificio del bene di altri o di quello comune. Questo perché non esiste affatto uno spazio astratto come quello immaginato dalla dogmatica liberista, nel quale tutti gli agenti sono eguali, in possesso delle stesse informazioni e delle stesse opportunità, della stessa forza finanziaria e tecnologica. Al contrario i mercati – sempre se ne dovrebbe parlare al plurale – sono diversi tra loro come diversi sono coloro che vi operano in quanto a informazioni, opportunità, possibilità e risorse finanziarie e tecniche. I concreti contesti umani, culturali, sociali, vitali, con tutte le varietà ed i condizionamenti che ne derivano, sono assolutamente variegati ed anche la tendenza mercantile ad omologarli troverà sempre limiti e freni oggettivi.

In quanto scoperta storicamente condizionata, il mercato è in continuazione esposto alla fallibilità umana ovvero non solo e non tanto alla possibilità dell’uomo di errare e di fare scelte economiche sbagliate – questo lo ammettono anche i liberisti – quanto piuttosto, ed è quel che più ci preme sottolineare, esso è esposto all’auto-incapacità, relativa, dell’uomo post-adamitico al bene. Anche il mercato, come ogni istituzione umana, non può non risentire della ferita ontologica che porta con sé l’umanità post-adamitica.

Senza dubbio questo deficit ontologico, in quanto proprio dell’uomo, si manifesta anche nella sfera, sovra-economica, del Politico. Anche l’Autorità politica è fallibile. Solo in un raro contesto “adamitico” – quando appunto il cuore dell’uomo è gratuitamente in sintonia con il Cuore di Dio – potrebbe darsi spontaneamente la giustizia politica come anche quella sociale ed economica (1).

Nell’ordinaria esperienza quotidiana post-adamitica, che continua a perdurare nei suoi effetti anche dopo l’avvenuta cancellazione salvifica e redentiva del deficit ontologico di cui soffre la natura umana, l’asimmetria di mercato, inevitabile proprio a causa di quella ferita ontologica, deve trovare correzione per opera dell’Autorità politica. Essa non nasce né dal contratto né dal peccato ma dalla natura umana e quindi appartiene al disegno primordiale di Dio sull’uomo. In questo originario disegno il ruolo naturale dell’Autorità politica, per sua essenza, non è solo regolatore ma  anche di intervento, diretto o indiretto. Se in una condizione adamitica, ossia nel reciproco interferire armonico e spontaneo, privo di contraddizioni, tra gli ambiti ontologici dell’uomo, il ruolo dell’Autorità politica è di direzione e coordinazione senza costrizioni, nella attuale condizione post-adamitica questo ruolo non può che assumere anche un carattere di rimedio e correzione esterna delle deficienze del mercato spesso necessariamente coattiva.

L’asimmetria colpevole del mercato non sta nella diversità, assolutamente naturale, delle capacità umane, dei talenti dei singoli e quindi nella diversità dei ruoli che gli uomini sono chiamati a svolgere nell’unità organica del loro vivere associato. L’eguaglianza degli uomini al cospetto di Dio non è un concetto astratto, matematico, come quello dell’egalitarismo meccanico luciferinamente ispirato dalle ideologie immanentiste. Ciascun genitore sa bene che i propri figli sono diversi, per carattere e abilità, pur avendo essi la stessa paterna radice e come tali, ossia diversi, li rispetta nell’unità familiare. Dio Padre guarda alla diversità tra gli uomini allo stesso modo ma chiamandoli, come figli, in Comunità politica, ossia alla vita associata. Ambito nel quale la persona singola e concreta (non l’individuo astratto che non esiste) ed il gruppo, gradualmente sempre più vasto, cui essa appartiene convergono, in modo armonico e spontaneo nel disegno originario, in modo anche imperativo, per la composizione al meglio del conflitto, attualmente. Se la “libertà” facilmente sfocia nell’individualismo e se l’“eguaglianza” facilmente sfocia nel totalitarismo, è nella “fraternità” la dimensione nella quale diversità ed unità, libertà ed eguaglianza, possono trovare la loro conciliazione senza unilateralismi, radicalismi ed apodittici, meccanici, riduzionismi, siano essi statalisti che mercatisti.

Un socialista alla ricerca del “di più”

Fausto Bertinotti, intervistato qualche mese or sono da Bruno Vespa (2), ha dichiarato tutto il suo rispetto per la prospettiva trascendente della fede cristiana nella considerazione che le ragioni le quali muovono il socialismo, inteso nella sua più ampia accezione etica ossia quale umana aspirazione alla Giustizia – una accezione, questa, che deve ricondursi agli albori stessi del pensiero filosofico (si pensi a Platone) senza ridurla alle sole elaborazioni moderne, quelle marxiste in particolare, che piuttosto ne costituiscono una distorsione ed un impoverimento – sono ragioni analoghe a quelle della Carità ossia dell’approccio spirituale alla solidarietà umana. Le ragioni della Giustizia sono, secondo Bertinotti, l’equivalente politico, dunque “laico”, di ciò che è la Carità nella prospettiva della fede. Noi, però, sappiamo che cristianamente, ossia se il cuore dell’uomo fosse costantemente in sintonia con il Cuore di Dio, in “ac-cor-do” con Lui – si dice, infatti, accordare il “mettere in sintonia i cuori” –, tra Carità e Giustizia, quindi Fede e Politica, non si darebbe, per principio, opposizione perché esse sono appunto in reciproca consequenzialità soltanto laddove l’uomo riesce nelle opere ad esprimere il suo essere immagine del Nuovo Adamo, icona di Cristo.

Nella stessa intervista, Bertinotti ha colto il nesso sussistente tra l’esser venuto meno al socialismo del suo carattere di “fede laica” – più in generale, vogliamo aggiungere noi, l’esser venuto a mancare al Politico la sua radice nel Sacro/Santo – ed il decadere del socialismo stesso a mero riformismo minimale succube del neocapitalismo finanziario. Quella della tecno-finanza è la nuova forma assunta dal capitalismo nel passaggio dal suo tradizionale fondamento patrimonialistico, ancora ancorato all’economia reale propria della modernità, alla virtualità finanziaria volatile postmoderna. Anche il capitalismo sta dunque conoscendo, con la globalizzazione, la sua “leggerezza dell’essere”. La finanziarizzazione del capitalismo è l’esito ultimo del processo di secolarizzazione che ha aggredito tanto la fede cristiana quanto la “fede laica nel socialismo” ed ha provocato il ridursi della politica a mero cabotaggio di potere, a mera amministrazione più o meno esposta alle sirene della corruzione. Si noti che diciamo “ridursi a mero cabotaggio di potere” perché in precedenza essa, che pure era, a causa del deficit ontologico dell’uomo post-adamitico, esercizio spesso machiavellico di potere, era però sempre guidata da progettualità espressioni di concezioni teologiche, filosofiche o ideologiche superiori alla politica stessa.

Pur nel rispetto per la fede nel Trascendente, Bertinotti ha comunque ribadito che la sua non è una conversione ed ha tenuto a dichiarare, da parte sua, non oltrepassabile l’ambito immanente della “fede nel socialismo”. Ciononostante è apparso in cerca di qualcosa di più. Si è avuta l’impressione, anche se non ha voluto ammetterlo, che egli senta nell’intimo che senza questo “di più” le ragioni stesse del suo “socialismo libertario” sono monche e perdenti (3).

Etica del mercato?

E’ stato spesso rimproverato ai critici del liberismo l’utilizzazione a suo proposito del termine  “ideologia” o addirittura “dogmatica”, perché la caratteristica prima del liberalismo, e quindi della sua applicazione economica liberista, sarebbe il suo essere anti-ideologico, anti-dogmatico.

Non siamo d’accordo. Non è forse la pretesa, relativista ed indifferentista, di non accettare verità assolute essa stessa una posizione fondamentalista che facilmente sfocia nella chiusura immanentista più totale proprio nel momento in cui pone come “oziosa” ed “inutile” ogni domanda sull’essere, ogni questione metafisica? In questo senso il più conseguente liberale è stato Karl Marx. Se Stalin  ha perseguito la volgare e brutale repressione violenta delle fede, Marx dal canto suo ripudiava ogni violenza antireligiosa perché era convinto che la prassi avrebbe prevalso sull’essere rendendo gradualmente inutile ogni ricerca di senso e significato dell’esistenza e del mondo. Tutt’al più egli suggeriva di non porsi domande appunto “inutili”.

Nonostante la conclamata anti-dogmaticità che rivendica per sé, un punto fermo resta tale per il liberismo ovvero la convinzione della scientificità della legge economica della domanda e dell’offerta. Essa è, nel liberismo, addirittura legge di natura.

Questa pretesa “naturalità” della legge di mercato ha un forte fascino sull’immaginazione dei cattolici conservatori che finiscono per metterla in unico calderone, quello della morale rivelata, insieme al matrimonio ed alla famiglia eterosessuale. La “santa alleanza” con i liberali conservatori ed i liberisti, anche i più radicali come gli anarcoliberisti, è stata così suggellata in nome del diritto naturale (4).

In realtà, la storia del genere umano conosce piuttosto la tendenza, appunto naturale, alla protezione dal rischio che non l’accettazione sic et simpliciter di quest’ultimo. Infatti tutte le forme storiche pre-capitaliste di economia si sono sviluppate in forme comunitarie, vincolistiche, corporativiste, proprio per ridurre il rischio e proteggere, dall’incertezza, la comunità di riferimento fosse essa la famiglia, il comune, l’associazione professionale. La legge dello scambio, fino all’età moderna, è sempre stata soltanto una parte, e non la totalità o la centralità, degli assetti economici e dei rapporti sociali e, come ha dimostrato Karl Polanyi, essa è diventata centrale solo a seguito della “Grande Trasformazione” intervenuta con la modernità individualista.

La modernità – protestano però i liberisti –, liberando la legge del mercato da ogni vincolo, ha reso possibile il progresso umano grazie al libero gioco delle forze economiche guidate dalla mano invisibile, sicché ogni nostalgia “comunitaria” è regressiva, reazionaria. Marx sarebbe stato d’accordo con questa critica liberale. L’emancipazione – aggiungono ancora i liberisti – del sereno perseguimento dell’utile individuale senza più divieti vincolistici, scrupoli morali, obblighi caritativi, consuetudini ataviche, ha dimostrato che il rincorrere da parte del singolo del proprio utile non è dannoso per gli altri ma, anzi, benefico dal momento che così facendo, e lasciato libero di fare, il singolo apporta, benché involontariamente, beneficio agli altri.

E’ quella che i liberisti chiamano “irriflessività”, gli effetti non voluti, dell’azione individuale. Questa benefica irriflessività dell’egoismo diventa la giustificazione “etica” dell’agire autoreferenziale dell’individuo. La “mano invisibile” del mercato consiste proprio in questo: il libero egoismo opera quale segreto agente universale della prosperità globale (5).

L’imprenditore – dicono i liberisti – perseguendo il proprio fine di profitto apporta, involontariamente, un grande beneficio al genere umano perché con la sua egoistica attività offre lavoro ai disoccupati ed aumenta la ricchezza generale. Il finanziere che specula per arricchirsi è il benefattore del genere umano perché aumenta il valore del denaro o dei titoli che egli traffica ed in tal modo fa circolare liquidità offrendo più ampie occasioni di credito al mercato reale, quello della produzione industriale.

Ne consegue che tutto quello che pone limiti, sul piano morale come su quello giuridico, al libero agire egoistico si risolve in un attentato alla felicità dell’umanità. Von Hayek era fermissimo in questa avversione liberale ai freni morali e politici al libero ed egoistico agire umano.

L’“etica” nella concezione del mondo liberista è etica dell’egoismo benefico. L’origine teologica di questo “egoismo benefico” risiede nel concetto luterano del “peccato salutare”, del peccato che salva. In Lutero la salvezza è stabilita esteriormente dall’arbitrarietà divina nonostante l’invincibilità del peccato a causa della totale corruzione ontologica dell’uomo, sicché la salvezza è concessa contro ogni, impossibile, trasformazione interiore, per grazia, del cuore umano. Da questa premessa teologica deriva l’idea liberale della concorrenza benefica quale versione mercantile e societaria dell’etica umanitaria, cui in fondo non si discosta, nelle premesse filosofiche, la versione socialista dello stesso umanitarismo, benché in apparenza più nobile. L’egoismo salvifico del liberismo ed il solidarismo egalitario del socialismo negano entrambi la necessità salvifica della Grazia, il primo affermando, sulla scia luterano-hobbesiana, che Essa è incapace a trasformare l’uomo che pertanto resta lupo per l’uomo, il secondo non ammettendo, in termini pelagiani e rousseviani, la ferita ontologica della natura umana perché l’uomo sarebbe buono anche nella sua condizione post-adamitica.

Etica del mercato ed Amore cristiano: quale nesso?

La domanda si pone, così, inevitabile: questa “etica” fondata sull’egoismo benefico è comparabile e compatibile con l’“etica cristiana”, anzi con l’essenza stessa della Legge, del Decalogo, ossia con l’Amore di Dio e del prossimo?

Gesù Cristo ci ha chiesto di amare il prossimo come noi stessi e di fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto dagli altri a noi. Non ha Egli detto di amare il prossimo “più di noi stessi” o di fare all’altro “più di quanto vorremmo per noi stessi”.

Sembrerebbe, dunque, che Gesù Cristo abbia chiesto agli uomini solo quanto essi possono dare sul piano della natura, quindi ponendo come limite etico invalicabile la stessa natura umana, che ora però è ferita e dunque limitata nella sua capacità di amare. Se non ti è naturalmente possibile un amore più grande di quello che hai per te stesso, l’amore comandato verso il prossimo non potrà mai superare le tue possibilità naturali. In altri termini, questa può sembrare una limitazione dell’Amore comandato. Viene posto in apparenza un invalicabile limite all’amore che non potrebbe, pertanto, andare oltre quello “naturale” per noi stessi.

In realtà Nostro Signore non ha indicato un limite invalicabile ma, al contrario, quello che secondo l’originario progetto edenico è il livello, come dire, minimo dell’amore infuso nell’uomo (il “giardino” dell’Eden altro non è che il cuore umano, nel quale il Signore Dio Altissimo ama passeggiare “alla brezza del giorno”, e solo per conseguenza esso è anche la creazione pacificata dalla purezza del cuore). Amore infuso nell’uomo ad immagine finita, quindi limitata, dell’Amore Infinito, e senza  limite alcuno, che è proprio di Dio soltanto.

Già l’amare il prossimo fino al limite “naturale” dell’amore di sé stessi richiede, infatti, una apertura, una sintonia, del cuore dell’uomo con il Cuore di Dio. Dove l’uomo conserva il suo cuore aperto al contatto vivificante con lo Spirito, la natura umana, non ferita ovvero sanata perché appunto vivificata spiritualmente, è capace in modo spontaneo di amore il prossimo, nella sua misura appunto naturale, proprio perché nell’uomo, in tal caso, l’Imago Dei resta integra. La chiusura del cuore, invece, comporta anche inevitabilmente la chiusura autoreferenziale dell’ego che si rende così incapace persino di amare “naturalmente” l’altro da sé come sé stesso.

Ma l’Amore di Dio sovrasta anche l’amore naturale originario vivificato dalla Grazia, sicché anche l’uomo dello stato adamitico deve superarsi abbandonandosi, con totale fiducia, all’Altissimo per essere reso capace – capace nel Verbo la cui Incarnazione è indipendente dal peccato umano che ha comportato solo la Dolorosa Passione – dell’Amore stesso di Dio, per essere cioè trasfigurato dal e nel Fuoco sinaitico che arde senza consumare.

Sul presunto limite naturale posto da Cristo all’amore verso il prossimo troppe volte si è giocato con esegesi tendenziose e false, atte a coprire l’autoreferenzialità dell’ego ontologicamente ferito dal peccato. Sulla base di queste esegesi tendenziose, si é potuto argomentare, dal punto di vista liberista, che, posto un limite ed una misura all’amore del prossimo consistente nell’amor proprio di ciascuno verso sé stesso, diventa etico – ed in questo si svelerebbe la compatibilità, con l’etica d’amore cristiana, della legge “naturale” del mercato  – il prioritario perseguimento del proprio utile, dal momento che oltretutto, per via dell’azione reciprocamente benefica dell’incontro della domanda e dell’offerta quale legge di natura, così comportandoci, ossia mirando ciascuno al proprio tornaconto, ognuno apporta, in modo irriflesso ed involontario, bene agli altri (6).

Un primo dubbio in ordine a questo tipo di esegesi, che è evidentemente strumentale alla prospettiva “etica” liberista, sta proprio nell’asserita involontarietà del beneficio apportato agli altri dalle decisioni e scelte individuali, le quali hanno inevitabilmente per obiettivo un utile del singolo o del gruppo. La questione, infatti, è stabilire se un beneficio apportato al prossimo ma in modo irriflesso, ossia involontario, senza dunque alcuna deliberata partecipazione della coscienza alle conseguenze benefiche del proprio atto, che così risultano a tutti gli effetti non volute e non decise dall’uomo, possa essere imputato come atto di carità, che sempre richiede l’adesione cosciente del cuore umano alla Grazia di Cristo, e quindi possa considerarsi, per i meriti del Sacrificio della Croce del Redentore, come merito a salvezza di chi quell’involontario beneficio ha prodotto verso il prossimo.

Perché è, d’altro canto, evidente che se diamo alla domanda ora posta una risposta positiva, dobbiamo poi, per lo stesso tipo di logica, ritenere che anche il male apportato involontariamente, in modo irriflesso, quale conseguenza delle nostre azioni e decisioni, dovrebbe essere a noi imputato a scapito della nostra salvezza ed a nostro demerito.

Un limite utilitaristico, poi, – si badi! – è presente anche nella prospettiva dell’economia del dono, secondo l’accezione sociologica che ne da la scuola anti-utilitarista di Marcel Mauss, per il semplice fatto che il dono interumano è sempre e soltanto reciprocità e rimane pertanto sul piano orizzontale del sinallagma, dello scambio, benché gratuito. Nelle antiche comunità, dove l’etica del dono era praticata quale appunto obbligazione sociale fondata su un comando mitico-sacrale, si donava perché consuetudinariamente obbligati alla reciprocità e perché donando ci si aspettava il reciproco. Anche senza alcuna presenza dell’utilità monetaria o del baratto si rimaneva egualmente del tutto all’interno dello schema dello scambio orizzontale.

Se questa, come dire, “naturalistica” fosse la prospettiva ultima alla quale Gesù Cristo ha chiamato gli uomini potremmo affermare che il comandamento dell’amore sarebbe ben poca cosa, dato che tale prospettiva è, in qualche modo, contemplata nella stessa natura delle cose, persino nella prospettiva, comunque orizzontale, del dono.

L’Amore di Dio, svelatoci da Cristo, Verbo Incarnato, in realtà va oltre l’amore paritario, ed in qualche modo reciproco, tra “eguali”. Per attingere a questo “oltre” è, però, necessario l’abbandono di sé in Dio, nella totale fiducia in Lui, perché solo Dio può amare la creatura, che altra da Lui è in Lui, più di Sé stesso, accettando kenotichamente, in un eccesso (excessus) di Amore, in un appunto “eccedere (fuoriuscire) da Sé”, di “spogliarsi”, di abbassarsi sulla creatura e le sue miserie, di morire in Croce per amore dell’uomo.

Amore, quello di Dio, assolutamente gratuito e senza alcuna possibile reciprocità da parte dell’uomo il quale mai potrà morire per “salvare” Dio, sicché l’amore che Egli chiede agli uomini e che gli uomini possono nel loro limite creaturale darGli, così ci testimoniano i mistici di ogni epoca e latitudine, è sempre una misera cosa rispetto al Suo incommensurabile ed infinito Amore.

Eppure Egli, che è Amore Infinito, altro non ci chiede che soltanto questa povera, limitata, risposta d’amore umano. Nulla di più, sapendo che non siamo in grado di dare di più. Non c’è, nel rapporto tra noi e Lui, alcuna possibile reciprocità essendo abissale la differenza tra il Suo Amore ed il nostro. Ed è per questo che il nostro amore per il prossimo rimane confinato nel limite dell’amore di noi stessi, a meno che non riusciamo a superarci per rendere il nostro amore umano veramente simile, ossia ad immagine, del Suo Amore Divino. Ma per raggiungere tale livello, oltre che dimenticarci di noi stessi, abbiamo bisogno della Sua Grazia che rende possibile questo “impossibile” Amore. Quando san Paolo pone una distanza tra la Legge e la Grazia in realtà non sta, come ha creduto erroneamente Lutero, opponendo la prima alla seconda ma soltanto evidenziando che la prima non è praticabile senza la seconda.

Il “salto ontologico” tra l’amare il prossimo come sé stessi e l’amare il prossimo al modo dell’Amore di  Dio è stato reso concretamente, storicamente, possibile soltanto da Gesù Cristo e, dopo di Lui, pur nelle ambasce delle loro umane imperfezioni – perché anche essi hanno sovente sbagliato come tutti gli uomini – dai santi la cui testimonianza dell’operare della Grazia nella concretezza stessa del quotidiano costella la storia cristiana lungo i secoli.

Quando san Massimiliano Maria Kolbe – che apparteneva ad una Chiesa nella quale la teologia della sostituzione (che pur aveva le sue giuste ragioni, benché fosse troppo esposta, sul piano della cattiva pastorale, ai tanti equivoci giudeo-fobici a sfondo sociologico ed economico o, più di recente, a quelli etnico-razziali e nazionalisti) (7) – offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, polacco, nel lager di Auschwitz, egli ha dimostrato che, nella Luce della Grazia ossia della Forza che solo può venire dall’Alto, è possibile compiere il salto ontologico e rendere possibile, qui ed ora, l’“impossibile Amore”.

Nella parabola dei talenti gli amministratori del denaro del padrone sono chiamati a farlo fruttare con le loro opere, persino consegnandolo ai banchieri affinché produca interesse. La pratica del prestito ad interesse era usuale nel mondo semitico – benché trovasse nelle relazioni intraebraiche tutte le limitazioni etiche possibili – mentre era contraria alla prospettiva aristotelica alla quale più tardi si richiamò, anche sulla scorta della lunga tradizione antiusuraica cristiana, Tommaso d’Aquino. Facendo leva su quella parabola Calvino pretese di giustificare il prestito ad interesse. In realtà, egli era stato preceduto in età medioevale da altri moralisti cattolici,  soprattutto francescani, che distinsero nel prestito di denaro il legittimo compenso per il “lucro cessante” – il “prezzo giusto” – dall’odiosa usura. Nella realtà concreta, al di là di divieti o distinzioni, l’usura fu sempre praticata anche dai banchieri cristiani.

Nella parabola, però, i “talenti” sono metafora dei doni spirituali che Dio gratuitamente dà agli uomini aspettandosi da essi una analoga condotta di gratuità verso il prossimo. Il termine stesso “talento” è diventato sinonimo di “capacità” e persino di “dono” come nel caso del “talento artistico”. Calvino, nel tentativo di rendere meno terroristica ed angosciante l’arbitrarietà con la quale il “dio” di Lutero salva gli uomini a suo piacimento senza alcuna considerazione di meriti e demeriti, finì per indicare nella ricchezza, ottenuta con il duro lavoro nell’“ascesi professionale intra-mondana” e nel rigore di una vita senza dissipazioni, il segno della predestinazione.

Seguendo queste distorsioni esegetiche, gli fu inevitabile giungere a valorizzare il prestito ad interesse di per sé, ossia senza alcuno scrupolo nei riguardi del prenditore, del debitore, che, nella sua durezza di cuore, tale era perché, immorale dissipatore e scansa fatiche, mostrava tutti i segni della predestinazione alla miseria in vita ed alla dannazione eterna nell’al di là. Consequenziale fu dimenticare o sminuire la richiesta al Padre, contenuta nella preghiera insegnataci direttamente da Cristo, di rimetterci i debiti come noi dobbiamo fare con i nostri debitori. Nella prospettiva calvinista fu inevitabile anche dimenticare che Gesù Cristo, mentre spiega in parabola, usando la metafora dei talenti, il senso dei “doni” a ciascuno gratuitamente dati, indica nel “dare senza nulla sperare” – «Nihil mutuum date inde sperantes» (Luca 6,34) – la perfezione dell’amore umano ad immagine di quello di Dio, il salto ontologico dall’amore al prossimo nei limiti dell’amore di sé stessi all’amore per l’altro al di là di sé stessi che solo in virtù della Croce e della Grazia è possibile.

Eccoci, dunque, ancora alla domanda cruciale: data la ferita ontologica della natura umana, che impedisce alla stessa di essere costantemente aperta verso l’Alto nella piena fedeltà alla sua  radice, un tale amore è compatibile con la legge del mercato?

E’ possibile, come vuole l’etica cristiana, che un imprenditore agisca mosso soltanto dal desiderio di beneficare coscientemente il prossimo, offrendo lavoro ai disoccupati, migliorando le sorti dei suoi dipendenti, accrescendo la ricchezza della sua comunità, contribuendo a ridurre l’incidenza della povertà, senza avere per immediato e primario riferimento il proprio tornaconto individuale?

E’ possibile che un imprenditore sia mosso non dalla ricerca del proprio profitto, modico o smodato che sia, per ottenere non di riflesso o involontariamente ma coscientemente e volontariamente un beneficio a più largo raggio che includa anche i suoi dipendenti e, ancora più in là, gli altri operatori sul mercato siano essi altri imprenditori, con i loro dipendenti, siano essi i consumatori?

Sarebbe razionale, ossia “naturale”, il comportamento di quel banchiere che concepisse la propria attività creditizia come servizio sociale ed etico al prossimo, al fine di favorire gli investimenti produttivi (non quelli speculativi), senza alcun riguardo al suo interesse ed al lucro monetario derivante dal credito?

E’, cioè, concepibile una “finanza etica” pienamente evangelica, quindi davvero francescana al modo dell’Assisiate, intesa come un prestare senza interesse alcuno e non soltanto come quella auspicata dai francescani del XV secolo, ossia limitata dalla pur ammirabile socialità e mutualità che tuttavia rendono inevitabile un modesto, tuttavia necessario, interesse a copertura dei costi dell’attività creditizia medesima (qui il punto di verità dei monti di pietà di quei francescani tardo medioevali, riconosciuto dalla stessa Chiesa del tempo nonostante il “dixit” aristotelico-tomista circa l’assoluta sterilità del denaro)?

E’, in altri termini, vera o meno l’affermazione per la quale «lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto più l’uomo è capace … di leggere in profondità i bisogni dell’altro uomo, per il quale il lavoro è fatto» (“Centesimus Annus”, n. 31)?

Può essere questo lavorare per gli altri, dimentichi di sé stessi, il movente dell’iniziativa dell’imprenditore o del finanziere oppure è solo predicazione di una retorica ed illusoria morale? (8).

                                                                                                               Luigi Copertino

 

(Continua)

 

NOTE

  1. Nell’ordine originario della giustizia adamitica, tra le sfere ontologiche del santo/sacro, del politico e dell’economico non sussiste contraddizione o opposizione. Nessuna di dette sfere nega alle altre il proprio ambito e ciascuna di esse riconosce l’altra. Sicché, proprio, per questo, tutte insieme si riconoscono, alla luce della Giustizia, strettamente correlate e in reciproca inferenza senza tuttavia alcuna conflittualità. Nella connessione tra macrocosmo e microcosmo umano, le sfere esistenziali, ontologicamente ordinate, dell’uomo adamitico dialogano ed interagiscono tra loro, quindi non sono tra esse indifferenti o reciprocamente neutre, in una armonia ora, però, perduta nella pretesa autorefenziale dell’autodeificazione umana, e quindi della assolutizzazione della parte sul tutto, di una dimensione sulle altre.
  2. Nel programma televisivo “Porta a Porta” condotto dal giornalista abruzzese.
  3. Da parte nostra vogliamo suggerirgli che la distanza, in apparenza abissale, tra Fede e Politico potrebbe non apparirgli più tale se egli correggesse la prospettiva, erronea, dalla quale sembra muovere e che gli fa ritenere l’ambito della Fede esclusivamente rivolto al singolo ed all’escatologia oltremondana e quello del Politico alla comunità ed alla escatologia mondana. Una separazione, questa, insussistente in una autentica prospettiva di fede pronta ad accogliere, come già concretamente benché tuttavia imperfettamente operante nella storia, il lento, magari travagliato e combattuto, svelamento di Dio per la redenzione, ossia la restituzione, alla fine dei tempi, dell’innocenza adamitica, della Giustizia originaria tra gli uomini fondata sull’Amore dell’Eterno Padre comune.
  4. Esiste una ampia e diffusa letteratura, ad usum populi, di marca catto-liberale, che fa leva su filosofi della politica come Michael Novak, sedicenti maestri di Dottrina Sociale come padre Sirico o su storici come Rodney Stark, tesa a convincere il gregge cattolico della convergenza di prospettive tra il liberismo ed il cattolicesimo. In questa prospettiva il nemico non solo principale ma addirittura unico sarebbe soltanto il comunismo, oggi risorgente nella forma del relativismo morale e dell’autogestione sociale come anche nel fondamentalismo islamico anti-occidentale. Insieme al comunismo, quale suo utile idiota, viene poi bollata, da tale letteratura catto-cons, come non cattolica qualsiasi teoria politico-economica che non accetti l’assoluto primato morale del libero mercato, ad iniziare dal keynesismo che pure è considerato dai comunisti un tentativo conservatore di salvare il capitalismo dalle sue contraddizioni, innanzitutto dall’inevitabile catastrofe determinata dalla naturale necessità del capitale di ridurre i costi per massimizzare i profitti che si svela quale contrazione del salario ed oggi quale tendenza all’eliminazione robotica dello stesso lavoro umano (Keynes, secondo i marxisti, affermando, contro la fallace legge del Say, la priorità della domanda sull’offerta ha legittimato quelle politiche di spesa pubblica e privata mirate a sostenere la domanda ed impedire così la capitalismo di implodere). Della disapprovazione magisteriale del liberalismo, compresa la sua versione economica (lapalissiano in tal senso un Pio XI), i cattolici conservatori sembrano non coltivare più alcuna memoria.
  5. Ci chiediamo, e chiediamo loro, se essi, i liberisti, sono consapevoli che “mano invisibile” è nient’altro che l’altro nome dell’“astuzia della ragione” la quale, secondo la prospettiva hegeliana e marxiana, muove la storia verso la perfezione sociale dell’universo mondo, verso la paradisiaca escatologia intra-mondana e priva di ogni Trascendenza. Le relazioni filosofiche tra liberalismo e marxismo sono molto strette ed alla fine l’esito è una comune prospettiva anti-trascendente.
  6. E’, questo, l’argomentare di ogni liberal-cristiano. Ad esempio di Angelo Costa, fondatore della nota società di navigazione genovese, che fu nel periodo del secondo dopoguerra per due volte anche presidente della Confindustria. Il pensiero di Costa è un liberalismo permeato di etica cristiana che, sulla base dell’economia di mercato, guarda all’attuazione, ma concreta e non retorica, dell’ingiunzione evangelica dell’«amare il prossimo come se stessi», sicché, lungi dal sollecitare interventi statuali in economia, se non come temporanea, e non ordinariamente accettabile, conseguenza di situazioni di fatto che impediscono il regolare funzionamento del mercato, l’aiuto ai più deboli non può che venire dalla produzione di ricchezza alla quale deve seguire la sua equa distribuzione tenendo, però, conto delle diversità umane, dovute alle qualità naturali di ciascuno, e pertanto preferendo, nella redistribuzione, i meno dotati – perché il comandamento cristiano della carità se non disconosce le “leggi naturali” dell’economia impone al tempo stesso di riconoscere che l’economia non è affatto libera dagli obblighi morali della Giustizia ed, appunto, della Carità – ma senza cadere in un egualitarismo utopistico ed assistenziale che pretenda di ridurre innaturalmente le differenze. Siamo al problema del come conciliare la libertà e l’eguaglianza. Su Angelo Costa Cfr. R. Spiazzi, a cura “Enciclopedia del pensiero sociale cristiano”, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992, pp. 430 – 431.
  7. Lo stesso Massimiliano Kolbe era stato autore sulla rivista della Militia dell’Immacolata di articoli, come quello intitolato “Poveretti!” (dove i “poveretti” altro non erano che gli ebrei ancora ciechi di fronte al Mistero Divino-Umano di Cristo), di tenore teologicamente – attenzione: mai razzialmente! – antigiudaico.
  8. La possibilità per un imprenditore di comportarsi in modo da porre l’amore al prossimo quale base della propria attività, o perlomeno di non porre il profitto personale come principale movente delle proprie iniziative, ha trovato testimonianza in Argentina, secondo quel che all’autore di queste note hanno raccontato alcuni padri missionari appunto argentini. Sembra che nel Paese di Evita Peròn e di Papa Francesco, la Chiesa abbia iniziato l’iter canonico per la beatificazione di un imprenditore, di nome Jorge, il quale, durante la grave crisi economica che colpì quella Nazione nel 2001 – simile nelle cause (la rinunzia alla sovranità monetaria appaltata a istituzioni esterne) e negli effetti a quella che affligge in questi anni l’Europa –, preferì salvare la propria azienda e con essa il posto di lavoro di migliaia di padri di famiglia, altrimenti destinati alla più nera disoccupazione, laddove tutto faceva razionalmente propendere per l’immediata delocalizzazione. Pare che questo imprenditore, angosciato non dalla sua sorte ma da quella dei suoi operai, passò, per un lungo periodo, notti intere vegliando in preghiera e chiedendo al Signore la grazia di una ispirazione la quale gli indicasse una via di uscita che non fosse quella di delocalizzare, nel suo interesse, come tutti gli consigliavano. Il Signore rispose alle preghiere di questo imprenditore degnandosi di parlargli – nel senso nel quale i mistici intendono la Voce di Dio – direttamente nel cuore ed aprendo la sua intelligenza verso la soluzione migliore per salvare l’azienda e con essa il lavoro dei dipendenti. Ma, qui, è evidente siamo di fronte ad un caso certamente eccezionale, per quanto, anche senza rivelarsi misticamente, Nostro Signore aiuta sempre chiunque a Lui si rivolge umilmente in preghiera: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt. 6,33).