TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI prima parte – di Luigi Copertino

TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI

prima parte

In fondo c’è del vero nel fatto che la storia sovente si ripete, anche se, bisogna subito aggiungere, non allo stesso modo.

Lo scenario che si va profilando oggi è quello dello scontro tra il sovranismo ed il globalismo. Se ieri le categorie del Politico potevano essere, con ampi margini di incertezza, quelle di destra e sinistra, a partire dalla mondializzazione lo spartiacque è diventato, appunto, quello tra i sostenitori delle identità sovrane ed i fautori dell’omologazione planetaria di popoli e culture in un mix uniforme dominato da tecnica e finanza.

Come spesso, poi, accade tra i due poli la contrapposizione può essere solo apparente. Succede, ad esempio, laddove ad emergere non sono rivendicazioni di sovranità di tipo nazionale ma le identità locali che, inconsapevoli, finiscono per svolgere un ruolo oggettivamente favorevole al sovra-nazionalismo. Infatti, non a caso, più che di globalizzazione molti parlano di “glocalismo” come di una governance mondiale fondata su due polarità: in alto un potere globale tecno-finanziario, che si arroga la decisione un tempo riservata al Politico, ed in basso un pulviscolo di poteri locali di tipo puramente amministrativo chiamati a gestire le poche risorse disponibili.

Questo scenario dimostra quanto hanno ragione coloro che indicano l’età moderna degli Stati nazionali come età di mero passaggio da un universalismo tradizionale, cristiano, quale si era realizzato nel medioevo, rispettoso delle differenze naturali perché l’unità era cercata sul piano soprannaturale ed incarnata nella storia dalle due Auctoritates della Chiesa e dell’Impero, ad un nuovo tipo di “universalismo”, contraffazione del precedente, in via di realizzazione post-moderna, fondato sulla negazione delle specificità identitarie e sulla imposizione dell’unità politico-economica sul piano naturale, immanente, in nome di astratti “diritti dell’uomo” maschera ideologica e filantropica con la quale le forze contro-spirituali e finanziarie, che muovono la globalizzazione, nobilitano sé stesse agli occhi dei popoli.

La globalizzazione è stata presentata ai popoli come il “sol dell’avvenire”, come un futuro aureo di felicità, ricchezza generalizzata, pace mondiale attraverso i commerci illimitati (“è meglio che ad attraversare le frontiere siano le merci e non gli eserciti” è uno dei luoghi comuni dei globalisti). L’ideologia globalista presenta gli stessi caratteri millenaristi, “gioachimiti”, delle ideologie moderne che l’hanno preceduta, compreso il marxismo. In fondo essa altro non è che una sorta di revisione e riedizione dell’ideologia profonda della modernità, che si va adempiendo in modo compiuto nell’età postmoderna la quale, certo liquida, non è l’opposto della solidità moderna ma il suo esito. Come quello del cubetto di ghiaccio che si scioglie.

Giulio Tremonti ha ragione a parlare della globalizzazione – che lui chiama “mercatismo” – come di una nuova ideologia hegeliana che fonde insieme l’internazionalismo della sinistra con il potere globale del capitale finanziario. Infatti l’essenza profonda della modernità, dell’Occidente-Modernità, giunta sulla scena storica tra XV e XVI secolo, è la übris dell’illimitato, dell’espansione senza limiti del potere umano sul mondo. Negato il Creatore, l’uomo si arroga il potere di fare il mondo ad immagine e somiglianza di sé stesso per realizzare sulla terra la perfetta ed armonica coincidenza tra libertà e necessità, tra volontà individuale e volontà mondiale. L’uomo non ha mai dimenticato l’Eden, del quale continua ad avere nostalgia, ma rifiuta di ammettere di averlo perduto a causa della sua prometeica superbia e persiste nel tentare di riconquistarlo senza accettare l’Amore donativo che lo aveva voluto, in origine, nella condizione edenica del primo Adamo.

Eritis sicut Dei” (Gen. 3,5) è l’essenza profonda dell’ideologia moderna della quale la globalizzazione è il compimento postmoderno e, probabilmente, prima della inevitabile catastrofe “babelica”, definitivo.

La übris dell’illimitato che anima, da sempre, il capitale, in particolare quello finanziario, è il motore profondo della globalizzazione. La quale, infatti, si è realizzata mediante la liberalizzazione dei movimenti di capitale, l’assoluta rinuncia a qualsiasi regolamentazione e limitazione del potere del capitale che si è trasformato, liberandosi da limiti territoriali, nazionali, statuali, sociali, etici, in capitale trans-nazionale libero di muoversi come meglio ad esso aggrada, libero di delocalizzare come e dove vuole le imprese, e con esse i posti di lavoro, in nome di presunte intoccabili e naturali leggi economiche di mercato.

Quando mai, nella storia, la “Volontà di Potenza” – l’autodeificazione promessa dalla seduzione luciferina  del potere assoluto sul mondo (“Eritis sicut Dei”) – ha raggiunto livelli tanto alti?

Friedrich Nietzsche ha sbagliato tutto ritenendo che l’“ultima umanità”, quella borghese, sarebbe stata oltrepassata da una “umanità padrona di sé” ossia dotata di volontà di potenza al massimo grado e capace di auto-costruirsi il suo “dio” al di là del bene e del male. Ernst Jünger preconizzava una tale umanità oltre-borghese nell’“Arbeiter”, nell’Operaio, che grazie al dominio della tecnica avrebbe concretizzato l’“uomo nuovo” sognato dalle ideologie moderne.

Oggi, a fronte della globalizzazione, possiamo ben dire che se il nazionalsocialismo fu l’esito, plebeo, del niccianesimo jungheriano, è stato invece il capitale ad adempiere la missione “oltre-umanista”, auspicata dal filosofo di Sils Maria, realizzando il perfetto ed orwelliano totalitarismo globale. E’ stata la borghesia capitalista a realizzare l’internazionalismo, non il proletario comunista, sicché un redivivo Marx dovrebbe correggersi e scrivere “capitalisti di tutto il mondo unitevi”.

Nella sua recente opera “Il capitale del XXI secolo” (2013), l’economista Thomas Piketty ha dimostrato che l’evoluzione della diseguaglianza dei redditi nei Paesi sviluppati segue una curva a forma di U e che la globalizzazione ha riportato i livelli di diseguaglianza sociale, parzialmente ed equitativamente attenuati nel corso del XX secolo dalla mano pubblica, a quelli del tempo della Belle Époque, fine ottocento. Piketty ha tolto fondamento alla cosiddetta “curva di Kuznets”, formulata nel 1950 da Simon Kuznets per il quale lo sviluppo economico sarebbe automaticamente accompagnato dal diminuire della disparità di reddito tra i ceti sociali. E’, quest’ultima, la teoria conservatrice e neoliberista dello “sgocciolamento”: lasciate agire come vuole il capitale, lasciate che i ricchi si arricchiscano sempre di più, abbassate le tasse sui ceti abbienti, favorite in ogni modo speculazioni e concentrazioni di ricchezza, e vedrete che tutto questo fervore si ripercuoterà favorevolmente anche sui più poveri e le classi meno abbienti innalzandone, per automatica trazione, i livelli di vita.

Piketty, invece, ha evidenziato che il capitalismo è mosso da potenti forze intrinseche di divergenza basate inevitabilmente sulla diseguaglianza, secondo la formula “r > g” dove “r” sta per “rendimento del capitale” e “g” per “tasso di crescita economica”. Insomma, detto in altri termini, il rendimento del capitale cresce sempre più della crescita generale della società fino a cristallizzare una abissale  diseguaglianza tra ceti sociali. Piketty ha quindi magistralmente descritto quale è l’inevitabile esito della globalizzazione, del tutto contrario alle sue promesse, dopo che la funzione limitatrice della Comunità Politica – aggiungiamo da parte nostra: la funzione “anti-übris” dello Stato nazionale che era riuscito a vincolare territorialmente il capitale – è venuta meno grazie alla liberalizzazione planetaria del potere finanziario, trans-nazionale, volatile, del capitale.

Mentre, dunque, le sbarre della gabbia globale perdono l’aurea verniciatura superficiale con la quale i popoli sono stati attirati ad entrarvi, e si rivelano sbarre di freddo e glaciale, duro, ferro, i popoli medesimi iniziano a reagire, nel tentativo, forse ormai vano, di uscire dalla gabbia che si è, finalmente, svelata per quel che è ossia una prigione universale e non l’Eden riconquistato.

I movimenti populisti o sovranisti – incubo per alcuni, speranza per altri – sono il segno di questa reazione popolare, il segno della presa di coscienza delle nazioni circa l’inganno globale che ha irretito il mondo intero.

L’odierno riemergente nazionalismo non ha nulla del carattere imperialista e bellicista del vecchio nazionalismo tardo ottocentesco e primo novecentesco, che infatti, fino al suo incontro-fusione con il socialismo a-marxista e con il sindacalismo rivoluzionario – incontro che lo spostò verso sinistra favorendo la nascita dell’ideologia fascista “al di là della destra e della sinistra” –, fu l’ideologia del capitale nell’età del colonialismo e della concorrenza tra le nazioni europee per la conquista delle materie prime.

Ciò, storicamente, non significa affatto che la responsabilità dei due grandi conflitti mondiali del secolo scorso deve addebitarsi agli Stati nazionali, come la retorica globalista vuole. Infatti non furono gli Stati nazionali – che a partire dalla Pace di Vestfalia (1648) si erano organizzati nel sistema gius-internazionalista dello “jus publicum europaeum”, dimostratosi capace di garantire il permanere di una sostanziale pace europea, la quale conobbe solo poche e limitare guerre, regolate in modo da ridurre al massimo perdite umane e danni economici – a provocare i conflitti nazionalistici del XIX secolo e le guerre mondiali del XX secolo, ma lo scardinamento, iniziato con la Rivoluzione Francese, in nome del nuovo “diritto internazionale umanitario”, preludio alla governance mondiale oggi perseguita dal globalismo, di quel sistema inter-statuale di diritto internazionale nato, come detto, nel 1648 a Vestfalia.

Il sovranismo attuale, dunque, non è la riedizione del nazionalismo ideologico otto-novecentesco ma è un tentativo di difesa dal Leviathan Globale della mondializzazione finanziaria, mercantile ed economica. Un tentativo di difesa, sotto certi profili, molto istintuale perché privo di solide basi culturali, possedute invece dal vecchio nazionalismo. Si tratta di una reazione, quindi di un fenomeno squisitamente “reazionario”, ma di una reazione ad una rivoluzione che è, appunto, la globalizzazione, perfetto e coerente esito della übris prometeica gradualmente impostasi a partire dalla prima delle rivoluzioni moderne ossia quella “umanista” del XV secolo.

Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei” (Ap. 13,18) (1).

La reazione sovranista alla globalizzazione non è, pertanto, espressione della Tradizione ed è essa stessa del tutto ricompresa, quale polarità eguale e contraria, nell’ideologia moderna rappresentandone ad un tempo una istanza retriva, a fronte dell’istanza progressiva del globalismo, e l’esito dissolutorio finale, il preannuncio della Babele terminale nella quale la globalizzazione naufragherà.

Più che anticorpi alla malattia globalista, i movimenti populisti sono gli agenti della dissoluzione, della decomposizione, del cadavere della globalizzazione. Sì, perché l’umanità globalizzata, anche se non se ne è ancora accorta, è già morta – antropologicamente e soprattutto spiritualmente – da un pezzo.

Ecco perché il sovranismo, pur suscitando senza dubbio simpatie e solidarietà come opposizione alla nefasta globalizzazione finanziaria, non può essere, da un punto di vista cristiano e tradizionale, la soluzione, la risposta legittima al Potere Umanitario Globale.

La storia, a volte, si ripete anche se, come dicevamo in incipit, non sempre in modo eguale.

Lo scenario dei nostri tempi ripropone, in qualche modo, quello già conosciuto negli anni ’30 del secolo scorso. Non solo per la crisi economica iniziata nel 2008 molto simile a quella del 1929, ma perché lo spartiacque politico che si è delineato, quello tra sovranismo e globalismo, ripercorre le medesime strade dello scontro che in quegli anni oppose i fascismi, aspiranti ad un “Nuovo Ordine Europeo” fondato su un concerto di nazioni (ma in realtà, se avessero vinto, quel concerto non sarebbe stato affatto armonico ma caratterizzato dall’egemonia razzista, “ariano-tedesca”, dellaGermania hitleriana sugli altri popoli europei), all’alleanza “internazionalista” fra liberalismo e comunismo, rispettivamente rappresentati dalla potenza anglo-americana e da quella sovietica.

Trattandosi di scenari simili, anche se non identici, il cattolico può trovare la risposta agli interrogativi che gli si pongono – parteggiare per il sovranismo, che in fondo difende anche l’identità cristiana dei popoli europei soprattutto contro il “pericolo islamista”, oppure per il globalismo, che auspica un universalismo così simile all’antica Res Publica Christiana? – nel magistero di quel periodo.

Il Papa che, forse, più di tutti gli altri ha compreso e denunciato la luciferinità del potere globale del capitale finanziario è stato Pio XI, al secolo Achille Ratti. Di Pio XI si ricorda spesso – anche lo scrivente lo fa e volentieri – l’ammonimento a guardarsi dal “… funesto ed esecrabile … internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro”, contenuto nel paragrafo n. 109 dell’enciclica “Quadragesimo Anno”.

In realtà l’ammonimento di Pio XI citato integralmente assume una portata molto più ampia consentendo al fedele di evitare scilla senza cadere nelle fauci di cariddi, di evitare l’errore in tutte e due le forme nelle quali si è polarizzato.

«Nell’ordine poi delle relazioni internazionali – dice testualmente ed integralmente il n. 109 della Quadragesimo Anno –, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico; dall’altra non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene».

Dunque: “da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente”, un duplice errore, ci dice Papa Ratti accomunando il nazionalismo imperialista e l’internazionalismo finanziario ossia, adattando il giudizio in termini attuali, sovranismo e globalismo.

La fonte sottesa dal Papa è l’essenza profonda della modernità, ora adempiutasi nel postmoderno, alla quale abbiamo sopra fatto riferimento ovvero la übris della volontà di potenza che spinge l’umanità a tentare di realizzare nella storia la Città di Dio in termini immanenti, politici, tecnologici, economici.

Si badi che Pio XI, uomo di grande cultura teologica e filosofica – era stato anche prefetto della Biblioteca Ambrosiana nonché di quella Vaticana – sperò in una virata del fascismo in senso “cattolico-nazionale”, come è evidenziato anche dal sostegno nella Quadragesimo Anno all’esperimento corporativista accompagnato, però, da dure critiche verso l’assetto hegeliano e statolatrico che il regime, seguendo le sue radici culturali, gli aveva dato contro gli ideali di libertà associativa del corporativismo cattolico (2).

Quindi si trattava di un Papa realista che sapeva tenere conto del contesto storico e politico del suo tempo.

Ma egli, nella Luce di Cristo, sapeva anche distinguere perfettamente cosa è bene e cosa è male, in particolare sapeva individuare i limiti oltrepassati i quali quel che sul piano naturale, immanente, è di per sé buono può diventare male se assolutizzato idolatricamente, dato che solo Dio è l’Assoluto. La creazione, quindi anche ciò che dell’uomo è natura e non trascendenza, pur ontologicamente buona resta sempre e solo relativa.

Nel 1937 dopo aver condannato il comunismo con l’enciclica “Divini Redemptoris”, Pio XI colpì il nazismo con una enciclica appositamente scritta in tedesco per essere letta dai pulpiti di tutte le chiese del Reich “millenario”, la “Mit Brenender Sorge”, gli autori materiali della quale furono il cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII calunniato ancor oggi come “Papa di Hitler” da chi non gli perdona la sua fermezza anticomunista, ed il cardinale von Faulhaber, arcivescovo di Monaco (la città natale del partito nazista) nonché futuro consacratore al sacerdozio del giovane Joseph Ratzinger.

In quella enciclica Papa Ratti da un lato riconosce alla patria, alla nazione, il suo legittimo fondamento di diritto naturale, sicché Amore di Dio ed amore per la patria non si oppongono affatto, dall’altro lato condanna l’assolutizzazione panteista della nazione, peggio, poi, della razza, che fa di essa una religione neopagana, come appunto aveva fatto il nazional-socialismo.

Al fine di un salutare esercizio di sana memoria, riportiamo per intero il paragrafo n. 2 dell’enciclica in questione, intitolato, non a caso, “genuina fede in Dio” e che, se si rivolge in particolare, come si comprenderà dalle parole del Pontefice, direttamente ai cattolici tedeschi del suo tempo, contestualmente si rivolge indirettamente ed in via generale a tutti i cattolici di tutti i Paesi e di tutte le epoche, anche dunque ai cattolici del nostro tempo.

«E anzitutto, Venerabili Fratelli, – scrive dunque Pio XI – abbiate cura che la fede in Dio, primo e insostituibile fondamento di ogni religione, rimanga pura e integra nelle regioni tedesche. Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio. Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti. Né è tale chi, seguendo una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo, pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale, rinnegando la sapienza divina e la sua provvidenza, la quale “ con forza e dolcezza domina da un’estremità all’altra del mondo” e tutto dirige a buon fine. Un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti. Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. Rivolgete, Venerabili Fratelli, l’attenzione all’abuso crescente, che si manifesta in parole e per iscritto, di adoperare il tre volte santo nome di Dio quale etichetta vuota di senso per un prodotto più o meno arbitrario di ricerca o aspirazione umana, e adoperatevi che tale aberrazione incontri tra i vostri fedeli la vigile ripulsa che merita. Il nostro Dio è il Dio personale, trascendente, onnipotente, infinitamente perfetto, uno nella trinità delle persone e trino nell’unità della essenza divina, creatore dell’universo, signore, re e ultimo fine della storia del mondo, il quale non ammette né può ammettere altre divinità accanto a sé. Questo Dio ha dato i suoi comandamenti in maniera sovrana: comandamenti indipendenti da tempo e spazio, da regione e razza. Come il sole di Dio splende indistintamente su tutto il genere umano, così la sua legge non conosce privilegi né eccezioni. Governanti e governati, coronati e non coronati, grandi e piccoli, ricchi e poveri dipendono ugualmente dalla sua parola. Dalla totalità dei suoi diritti di Creatore promana essenzialmente la sua esigenza ad un’ubbidienza assoluta da parte degli individui e di qualsiasi società. E tale esigenza all’ubbidienza si estende a tutte le sfere della vita, nelle quali le questioni morali richiedono l’accordo con la legge divina e con ciò stesso l’armonizzazione dei mutevoli ordinamenti umani col complesso degli immutabili ordinamenti divini. Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua. I Vescovi della Chiesa di Cristo “preposti a quelle cose che riguardano Dio” devono vigilare perché non si affermino tra i fedeli tali perniciosi errori, ai quali sogliono tener dietro pratiche ancora più perniciose. Appartiene al loro sacro ministero di fare tutto il possibile, affinché i comandamenti di Dio siano considerati e praticati quali obbligazioni inconcusse di una vita morale e ordinata, sia privata sia pubblica; i diritti della maestà divina, il nome e la parola di Dio non vengano profanati; le bestemmie contro Dio in parole, scritti e immagini, numerose talvolta come l’arena del mare, vengano ridotte al silenzio, e di fronte allo spirito caparbio e insidioso di coloro, che negano, oltraggiano e odiano Dio, non si illanguidisca mai la preghiera espiatrice dei fedeli, la quale sale ad ogni ora come incenso all’Altissimo, trattenendone la mano punitrice. Noi ringraziamo, Venerabili Fratelli, voi, i vostri sacerdoti e tutti i fedeli che nella difesa dei diritti della divina Maestà contro un provocante neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti, avete adempiuto e adempite il vostro dovere di cristiani. Questo  ringraziamento è particolarmente intimo e unito ad una riconoscente ammirazione per coloro i quali, nel compimento di questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare per la causa di Dio sacrifici e dolori».

Dal magistero, dunque, se si fa il piccolo sforzo di consultarlo, possiamo, come cattolici, desumere tutte le necessarie indicazioni per le nostre scelte, anche politiche, nel contesto nel quale siamo stati chiamati a vivere. Possiamo desumere le necessarie indicazioni dal magistero magari tenendolo sempre presente  come il limite invalicabile quando le concrete circostanze storiche dovessero porci nella condizione di dover scegliere tra due mali cercando, per quanto ci è possibile, di individuare quello minore ma mai dimenticando che sempre di male si tratta e che la nostra pur coartata scelta circostanziale deve essere ad ogni momento revocabile ad nutum non appena quel minore male, invece di lasciare il campo al bene, dovesse diventare male maggiore al posto di quello che in precedenza era tale.

Detto in altri termini (e lo scrivente lo dice innanzitutto a se stesso): come cattolici, nelle concrete circostanze storiche attuali, posti di fronte alla scelta politica tra sovranismo e globalismo ci è lecito pragmaticamente scegliere, in opposizione al falso universalismo anticristico della globalizzazione tecnico-finanziaria, il sovranismo ma sempre tenendo presente che, di per sé, di male si tratta quando esso poi pretende di farsi religione neopagana della nazione, anche di quelle piccole, etniche o storiche che non hanno riconoscimento statuale, o peggio dell’etnia e della razza, assolutizzando ciò che è immanente e relativo per innalzarlo fino al piano della Trascendenza, nell’intento, impossibile, folle, blasfemo, rovinoso ed anche ridicolo, di “detronizzare” l’Altissimo in nome dell’auto-adorazione dell’uomo.

Luigi Copertino

(CONTINUA)

 

NOTE

  1. Nella numerologia biblica il 7 è il numero della Perfezione Divina sicché il triplice sei, 666, simboleggia il reiterato tentativo dell’umanità, prometeicamente sedotta, di eguagliare Dio, di divinizzarsi da sé. La Bibbia è un tutt’uno nel quale ciascun libro richiama gli altri e nel quale ogni passo si comprende alla luce degli altri, e viceversa. L’ultimo libro, quello della Rivelazione Finale, richiama il primo, quello della Rivelazione Originaria, perché l’Agnello di Dio, del quale l’intera Bibbia parla, è “alfa e omega, inizio e fine”. Sicché nel “numero della bestia” che è “nome d’uomo” riecheggia l’ “Eritis sicut Dei” di Genesi 3,5.
  2. La speranza di Papa Ratti, che era la stessa di molti settori del cattolicesimo del tempo e che “contagiò” anche personaggi più tardi destinati a rivestire ruoli di primo piano nella politica italiana, come Amintore Fanfani ed Alcide De Gasperi, se non era del tutto peregrina non aveva, soprattutto nelle circostanze storiche contrassegnate dal fatale avvicinamento di Mussolini ad Hitler, molte possibilità di concretizzarsi dato che il fascismo era e restava innanzitutto una “religione politica”, di ascendenze giacobine, che in quanto tale, nel tentativo, analogo a quello marxista, di costruire l’“uomo nuovo” perfettamente conscio della presunta coincidenza dell’identità individuale con quella collettiva della nazione, possedeva una connaturata tendenza a contendere il cuore degli uomini alla fede tradizionale per sostituirla. Se è vero che il fascismo era nato sul solo terreno della nazione – e come si è visto Pio XI non negava alla nazione un fondamento naturale degno di essere rispettato – l’assolutizzazione dell’appartenenza nazionale poteva sfociare nel culto pagano della razza, come lo stesso Pontefice ebbe dolorosamente a constatare mano a mano che, nonostante le sue pressioni, esercitate mediante il gesuita padre Pietro Tacchi Venturi, per trattenerlo dalla china filonazista, Mussolini si fece tragicamente irretire dall’hitlerismo, dimostrando che il suo giovanile niccianesimo socialista non era mai del tutto venuto meno.