REFERENDUM LOMBARDO VENETO: DUE SI’ (E QUALCHE PALETTO).

di Roberto  Pecchioli

Il prossimo 22 ottobre si terrà il referendum consultivo sull’autonomia fiscale della Lombardia e del Veneto, le due prospere regioni italiane che apportano il maggiore contributo al PIL nazionale e che, insieme con l’Emilia Romagna, più contribuiscono alle entrate tributarie e fiscali. Per una coincidenza non voluta né dai sostenitori del referendum né dai suoi detrattori, la consultazione si terrà nel pieno dell’agitazione relativa al referendum – quello sì illegale ed incostituzionale – che pretende di determinare la secessione dalla Spagna della Catalogna, seconda regione per popolazione e prima per il prodotto interno lordo tra le diciassette che compongono il complesso mosaico del regno iberico. Evitiamo quindi paragoni o similitudini francamente improponibili, e cerchiamo di fornire un quadro di opinione ragionato e, se possibile, equilibrato.

Prima considerazione, tranquillizzante: non è in gioco l’unità nazionale, nessuno a Milano, Varese o Vittorio Veneto brucia bandiere tricolori o si propone di spaccare l’Italia o quel che ne resta. Si tratta, essenzialmente, di una questione di trasferimenti di milioni. Il pensiero corre al principio opposto dagli americani all’Inghilterra al tempo della richiesta di indipendenza: no taxation without representation, nessuna tassazione senza rappresentanza. Non vi è dubbio che i lombardi ed i veneti godano di ampia rappresentanza, così come è pacifico che gli italiani tutti siano afflitti da un carico fiscale insostenibile. Tanto per essere chiari, mentre le persone fisiche sono vessate da aliquote elevatissime, balzelli di ogni genere gravano su ciascuno di noi, le piccole e medie imprese sono spremute sino al midollo, sappiamo che la sola Google ha evaso almeno 2,5 miliardi di euro di imposte. A difesa del gigante digitale è insorta Confindustria, illustre cenacolo di gentiluomini noti per la correttezza tributaria e per non chiedere mai nulla al governo…

Il punto è che delle centinaia di miliardi di tasse ed imposte pagate dal contribuente lombardo o calabrese, una parte enorme è destinata allo spreco, alla corruzione, al mantenimento di caste politiche, amministrative e burocratiche, alla distribuzione di privilegi, sinecure ed al clientelismo più sfacciato. Dispiaccia o meno ai connazionali del Centrosud, agli ipocriti di sinistra ed alla signora Meloni, portavoce del partito diretto dal cognato e dal proconsole romano Rampelli, l’epicentro delle spese e delle mance non è Brescia e neppure Rovigo, ma l’Italia meridionale e mamma Roma. Da una parte si produce reddito e si paga, dall’altra troppo spesso si divide il bottino lasciando le briciole ai polentoni. Questo è, purtroppo, un fatto.

Un’ amara esperienza vissuta da chi scrive: anni fa, due sorelle furono colpite da serie malattie. La più grave, residente al Nord e priva di appoggi politici o burocratici, dovette ricorrere al tribunale per vedersi riconosciuta l’indennità di accompagnamento, della quale godeva già da anni la sorella minore residente in una provincia campana, i cui malanni erano assai meno gravi. Nella stessa zona, la benemerita CGIA di Mestre scoprì che in un centro a forte presenza criminale, solo il 10 per cento dei cittadini pagava il canone televisivo. Disgraziatamente milioni di cittadini meridionali sono costretti a spostarsi verso nord per ottenere cure mediche all’altezza e salvare la propria vita. In Sicilia, il cui statuto speciale grida vendetta per debiti e malgoverno, sino a pochi anni fa i dipendenti regionali andavano in pensione con il massimo di anzianità dopo 25 anni – ripetiamo 25 anni di servizio. Beati loro, ovviamente, ma almeno il conto lo paghi il contribuente locale, non l’artigiano di Cuneo o la pensionata di Pescara. Tutti gli italiani sanno, ed i pubblici dipendenti settentrionali più degli altri, che gli uffici romani e meridionali sono affollati di personale, esattamente quanto è carente l’organico del Nord. Un altro caso?

Uno studio dell’OCSE, Organizzazione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo certifica che la differenza di qualità e di livello tra la scuola della provincia di Bolzano e quella della Campania corrisponde ad almeno un anno di vantaggio a favore degli studenti altoatesini. Le università sfornano prevalentemente laureati di livello modesto: tale attentato al futuro della nazione avviene dovunque, ma specialmente a sud di Roma. Questi non sono luoghi comuni e tanto meno disprezzo per i connazionali, ma realtà dolorose cui porre rimedio senza indugio.

La domanda è se forti autonomie locali siano la risposta migliore al divario territoriale. La risposta è difficile: da un lato vige il sacrosanto principio di sussidiarietà, che assegna le competenze al livello più vicino alla cittadinanza, tranne i casi in cui non ne sia ragionevolmente possibile l’esercizio, fondato sull’assunzione di responsabilità, la rendicontazione e l’autogoverno. Dall’altra, è chiaro che le comunità con mezzi inferiori non possono assolvere a certi compiti anche se ne hanno la capacità, talché occorre provvederle di risorse aggiuntive, talvolta spostare ad un livello più elevato le competenze e comunque esercitare un certo grado di solidarietà o di soccorso economico in capo alla nazione intera.

Ovvia la risposta del Nord: soldi ne hanno avuti a palate, li hanno sprecati o rubati o utilizzati per comprare consenso, adesso si arrangino. Abbiamo già dato, ripetutamente. Molto spesso l’aiuto è stato non chiesto, ma preteso e seguito dallo scherno e dalla beffa, mentre il sistema burocratico opponeva ed oppone il consueto muro di indifferenza, sciatteria, inefficienza che manda il sangue agli occhi.  A Nord di Roma, ciò che non si accetta è l’insopportabile condotta di chi “chiagne e fotte” a spese altrui. Agli interessati patrioti dell’ultima ora, la cui bandiera non è il tricolore ma il conto corrente, ai tanti farisei da Domodossola a Capo Passero ricordiamo una frase di Gesù Cristo: “non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”. (Matteo 7,21).

Per le ragioni esposte, nonché per l’elementare principio che è giusto godere il frutto del proprio lavoro senza lasciarsi rapinare da chicchessia, in particolare di coloro che parlano di Patria o solidarietà ma pensano al portafogli, voteremmo senz’altro a favore dei referendum proposti in Lombardia e Veneto. Più risorse resteranno in loco, meglio funzioneranno i servizi.

Tuttavia, esistono perplessità di varia natura che sentiamo di dover esprimere con franchezza. Intanto, per la forma irritante con cui vengono esposte alcune rivendicazioni autonomiste lombarde e venete. Traspare in alcuni – penso a Vittorio Feltri ed a certi padanisti da suburra-  un becero egoismo bottegaio da parvenu, l’invito arrogante “vadano a lavorare” che milioni di connazionali non meritano. Del resto, sarebbero ben felici di avere le stesse opportunità dei vicentini e dei milanesi. Al di là delle forme e di un minimo di galateo che pure tra connazionali ha la sua importanza, emergono altre preoccupazioni, politiche, istituzionali, morali, e, perché no, schiettamente patriottiche alle quali dare voce.

La più immediata riguarda l’aritmetica: se più soldi si fermano a Milano e Venezia, meno ce ne saranno altrove. Si recupererà con ulteriori tasse, si farà stringere la cinghia ulteriormente, o, finalmente, si metterà mano alla razionalizzazione della spesa, alla responsabilizzazione diretta di persone ed enti, all’oculatezza del “buon padre di famiglia”? Dalla risposta al quesito dipende tutto il resto. Infatti, l’autonomia fiscale invocata non funziona, diventa anzi ingiusta sino al privilegio se non è generalizzata. Lo Stato di diritto si regge sull’imperio della legge, la quale, per essere accettata, deve essere uguale per tutti. E’ l’isonomia teorizzata dall’antica Grecia, la sola uguaglianza che ci sentiamo di riconoscere.

La politica, faticosamente, durante la legislatura che terminò nel 2006 riuscì ad elaborare un progetto costituzionale di riforma in senso moderatamente federale. Fu approvata dal Parlamento ma non dagli italiani, in un referendum segnato da tre fenomeni: la scarsa volontà del centrodestra – che pure l’aveva realizzata- di difendere la riforma; il grande impegno della sinistra di seppellire il risultato più rilevante dell’azione politica avversaria; la compatta opposizione dei cittadini delle regioni centro meridionali. Il risultato fu chiarissimo: oltre il 61 per cento bocciò l’impianto federativo proposto, vincente solo in Lombardia e Veneto, perdente persino laddove esso è operante con i migliori esiti, ovvero nelle due province autonome di Trento e Bolzano, impropriamente definite regione Trentino Alto Adige. Il risultato è un sistema amministrativo spurio, retto da un Titolo V della Costituzione rimaneggiato, confuso, incerto e, italianamente, aperto ad opposte interpretazioni.

L’articolo 114 pone pressoché sullo stesso piano lo Stato ed i comuni, mentre il 117, pericolosamente, assegna potestà legislativa anche alle regioni. Segue un lungo elenco di competenze esclusive dello Stato ed uno, ancora più complesso, di ambiti definiti “concorrenti”. Questo è assurdo. Un ordinamento che funziona indica in maniera netta ciò che è dello Stato e ciò che è devoluto agli altri enti territoriali, che, ad avviso nostro, sono emanazione della repubblica e del popolo italiano, e non soggetti costituenti di pari diritto. Errori tanto gravi, dovuti a spinte opposte unite alla consueta doppiezza nazionale, creano problemi in situazioni normali, ma possono determinare veri e propri conflitti in condizioni più difficili o quando qualcuno cerca di forzare il sistema. Non è oggi il caso italiano o lombardo veneto, ma domani chissà. L’esempio spagnolo insegna. Una Costituzione che non chiarisce lascia aperte troppe vie, per cui occorre che siano ridefinite le competenze regionali, anzi che sia posto in discussione l’impianto territoriale istituzionale scaturito or sono 70 anni dall’assemblea costituente.

Il sistema delle regioni a statuto speciale si è rivelato un fallimento storico in Sicilia, non ha tratto la Sardegna dall’isolamento e da uno sviluppo rallentato. In Friuli Venezia Giulia, dove la specialità era giustificata dalle dolorose amputazioni territoriali del 1947, la realtà è del tutto mutata e, per fortuna, nonostante cicatrici profonde, la frontiera orientale non è più infuocata come prima della caduta del comunismo e dell’esplosione jugoslava (altro esempio che consiglia prudenza di fronte alle spinte localiste). Quanto alla Valle d’Aosta, la regione autonoma si è rivelata un pozzo senza fondo su cui campa allegramente a spese altrui una popolazione sparuta il cui fatto differenziale sarebbe – e non è – la lingua francese, imposta dalle istituzioni ed ignorata nella realtà quotidiana. La provincia autonoma di Trento è amministrata con saggezza e merita rispetto, ma, ad un secolo dall’unione con il resto d’Italia, è incomprensibile quale sia la residua ragione storica o l’eccezione culturale a sostegno dello statuto speciale. Diverso è il caso dell’Alto Adige, in cui vive una maggioranza di lingua tedesca. Tuttavia, anche tra i monti tirolesi, una volta riconosciuti e rispettati i diritti linguistici e culturali della popolazione di ascendenza austriaca, non ha senso offrire generosamente il denaro di tutti gli italiani, come per scusarci che nel 1918 le vallate atesine, geograficamente italiane, siano state strappate all’Austria Ungheria sconfitta.

Le autonomie sono una buona cosa ed il federalismo ha serie ragioni, pur se non ci convinsero le macroregioni proposte da un uomo della statura culturale di Gianfranco Miglio e non ci entusiasma Carlo Cattaneo che guardava alla Svizzera, ma conosceva poco la penisola italiana. Tutto può essere , ma a patto che le competenze ed i limiti siano definiti in modo indiscutibile, che lo Stato mantenga un nucleo centrale di potere forte, come una repubblica presidenziale o un cancellierato alla tedesca (una nazione federale) e che le attribuzioni esclusive ed indiscusse dello Stato comprendano, oltre alla giustizia, la difesa e la rappresentanza internazionale degli interessi nazionali, la pubblica istruzione, la sanità, l’ordine pubblico, la polizia e le risorse energetiche, il credito.

In una cornice di questa natura, nessuna preclusione. Fuori di essa, si cade nelle rivendicazioni locali e settoriali, nell’invenzione quotidiana di nuove competenze da strappare con il ricatto, nella perdita della solidarietà tra connazionali e tra concittadini, sino all’egoismo più retrivo, al separatismo, al secessionismo, all’odio tra italiani, al rifiuto stesso dell’appartenenza alla medesima nazione, alla perdita – se ne resta un poco- del ruolo e del senso dello Stato.  L’aggravante è quella della negazione di fatto della conclamata uguaglianza di fronte alla legge di cittadini cui l’appartenenza ad un territorio o ad una vera o supposta minoranza culturale, storica, territoriale o linguistica conferisce speciali diritti alle spalle e contro tutti gli altri. Conosciamo la rincorsa di diversi comuni veneti per diventare friulani o trentini. Non sono certamente mossi dall’amore per l’aquila simbolo di entrambe le regioni, ma dalla speranza di maneggiare più denaro nell’ambito di statuti che, con altrettanto diritto, potrebbero essere richiesti da ognuna delle comunità territoriali che formano parte integrante della Repubblica e, diciamo noi, della nazione italiana.

Per questo, il nostro sì all’autonomia fiscale lombarda e veneta è convinto, ma condizionato e soprattutto vincolato all’intransigente difesa dell’unità nazionale e del ruolo dello Stato come suo garante e come estremo baluardo del nostro popolo dinanzi alla potenza schiacciante delle oligarchie economiche, finanziarie e tecnologiche globaliste, nemiche degli Stati nazionali e della coesione delle comunità che li compongono.

 

 

 

ROBERTO PECCHIOLI