Olio tunisino, agricoltura italiana. Per noi, un futuro da Disneyland.

Roberto Pecchioli

Per il prossimo biennio alla Tunisia è stato assegnato , con un voto del parlamento europeo, un contingente di olio d’oliva di importazione in esenzione daziaria in Italia di 35.000 tonnellate, che vanno ad aggiungersi alle 56.700 già previste da un accordo bilaterale del 1995. La notizia ha scatenato polemiche e riproposto il dibattito sullo stato ed il destino dell’agricoltura italiana.

La grande proletaria agricola evocata da Giovanni Pascoli nel 1911, al tempo della guerra di Libia, è diventata una grande potenza industriale, ma sta perdendo da almeno vent’anni tale posizione, e, nel tempo, ha visto crollare l’importanza , in termini di occupazione e reddito, dell’agricoltura. Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati registrati segnali di inversione , tanto è vero che nel 2015, dopo lunghi decenni di decadenza, è aumentato il numerodi occupati ( 35.000 in più nel 2015), e, per la prima volta, è aumentato il numero di imprese gestito da giovani e da donne.

La vicenda dell’olio tunisino, dunque, va oltre la dimensione strettamente aritmetica della quota di produzione, e si innesta, tra l’altro, nella questione, drammatica, della malattia degli ulivi pugliesi, l’epidemia di xylella, e si intreccia quindi con una drastica, davvero preoccupante, diminuzione della produzione nazionale, di cui proprio la Puglia è incontrastata capofila.

In sé, le cifre non sono preoccupanti: 35.000 corrispondono ad una percentuale tra l’uno ed il due per cento, e, soprattutto, trattandosi di Olio d’Oliva ( non vergine ,né extravergine), è una mezza verità la questione del dazio zero. In genere, infatti, gli importatori nazionali utilizzano l’olio tunisino, come quello di altri Paesi, come Grecia, Marocco e da ultimo anche Albania, per miscelazioni e lavorazioni industriali volte a produrre Olio vergine ed extravergine destinato all’esportazione in paesi “ricchi”. Ciò comporta l’utilizzo dello strumento doganale della temporanea importazione, che non comporta il pagamento di dazi.

Un’altra imprecisione, presumiamo non di buona fede, riguarda il costo dell’olio tunisino, che la stampa indica in un solo euro al litro, mentre la verità è che difficilmente si può acquistare a meno di due. Interessante, semmai, è ricordare che il primo ministro tunisino in carica, HabibEssid, è un grande esportatore oleario.Honnisoit qui mal y pense…

La vera questione, alla fine, è capire se esiste , nel nostro Paese, una politica agricola e se gli interessi del settore sono tutelati dalla politica. La risposta è no. Il voto degli europarlamentari italiani , molti dei quali hanno accettato l’aumento della quota dell’olio, ne è una prova, ma le altre, ben più gravi, sono l’indifferenza ed anzi la condiscendenza italiana nella questione della xylella, che per gli operatori pugliesi è questione di vita o di morte delle imprese, e, più in generale, l’evidente preminenza, in sede comunitaria, degli interessi agricoli dell’Europa settentrionale e della Francia. Conosciamo tutti la lunga, torbida vicenda delle quote latte, con gli allevatori pagati per chiudere le stalle, e la distruzione progressiva di intere filiere produttive e lo smantellamento della sovranità alimentare della nazione.

Ma potremmo ricordare vicende legate alle produzioni saccarifere, allo scandalo di agrumi e pomodori distrutti a tonnellate per i diktat europoidi ed anche, va detto, per sostenere i prezzi, crollati per manovre finanziarie e concorrenza globale. Il grande carrozzone fu, per decenni, la PAC, politica agricola comune, che forniva sostegni molto significativi alle esportazioni agricole, ma in particolare a quelle del settore delle carni bovine e suine e del latte, dominati da Germania, Francia ed Olanda. Attraverso la PAC , i vari governi italiani cedere quote, produzioni, denaro, in nome di una solidarietà europea a senso unico, finendo per portare a casa soprattutto fondi volti a sostenere la chiusura delle aziende, con frodi miliardarie, abusi vergognosi che solo in pochi casi sono venute alla luce, per la complicità della politica.

Arricchitisi finti allevatori ed altrettanto presunti coltivatori diretti, ridotta all’osso l’agricoltura nazionale , superata e ormai quasi del tutto in archivio la PAC, una seria politica agricola dovrebbe avere l’obiettivo di tenere in piedi ed ammodernare un settore che da un lato provveda ad una sana alimentazione della nostra popolazione, dall’altro garantisca reddito, qualità produttiva, ricambio generazionale al settore primario.

Qui, come sempre, casca l’asino, e la vicenda olearia è solo un tassello di problemi ben più generali. La maledetta globalizzazione fa sì che mangiamo frutta proveniente dal Sudamerica, che la bresaola sia lavorata con carni provenienti dal Brasile – anche qui con grandi facilitazioni daziarie – , che i pomodori cinesi ci invadano, come certe verdure e frutta egiziane soggette all’oscuro sistema fiscale dei cosiddetti prezzi d’entrata, con frodi connesse. Navi cisterna scaricano vini cileni , che nei casi migliori servono da “taglio” per le produzioni settentrionali, e nei peggiori alimentano il fiorente mercato del falso Made in Italy, lo stesso settore oleario conosce un aumento esponenziale delle frodi , quadruplicate secondo i dati del NAS dei Carabinieri. L’aumento dell’olio tunisino produrrà inevitabilmente ulteriori effetti fraudolenti, anche perché sono tanti gli operatori allo stremo.

All’orizzonte, poi, si staglia l’ombra pesantissima degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), e, quindi, degli interessi giganteschi di multinazionali come Monsanto (glifosato, semi e diserbanti) , Dreyfus eSyngenta, che presto, attraverso le vergognose clausole del TTIP ( Trattato di Partenariato Transatlantico), potranno imporre prodotti e volontà di dominio con la durezza dei loro metodi, e, disgraziatamente, con la forza imperativa di un accordo intercontinentale.

Un argomento a favore delle concessioni al vicino di Tunisi è che occorre, anche per contrastare l’immigrazione, aiutare i popoli a casa loro. Giusta osservazione, ma, nel caso, del tutto improvvida, giacché la crisi olearia italiana, unita alla malattia degli alberi pugliesi, per la quale unica soluzione prospettata dai geni europei è quella dell’abbattimento sistematico, accompagnato da modesti risarcimenti, avrebbe dovuto consigliare semmai attenzione proprio nei confronti dei produttori nazionali.

Chiunque viva in zone dove si coltiva l’ulivo, sa che abbattere alberi è operazione drammatica, poiché la sostituzione richiede decine di anni. I contadini, da millenni, piantano olivi per le generazioni successive, ciò che l’economia vigente, votata al profitto immediato ed al breve periodo, non sa neppure concepire.

Gettiamo giù gli alberi, smontiamo le stalle, buttiamo il latte, tanto che il formaggio potrà essere prodotto con latte in polvere, dobbiamo scaraventare nei rifiuti grandi quantità di ottima frutta , accettare l’invasione di prodotti provenienti dai sette mari, dopo viaggi di settimane o mesi : è la globalizzazione, bellezza !David Ricardo aveva già indicato la via, due secoli fa, invitando le nazioni a produrre soltanto ciò in cui avevano un vantaggio comparativo. Non lo ascoltarono granché i suoi connazionali britannici , e per gran tempo, poiché impedirono agli indiani di tessere il loro cotone , per tenere alti i profitti dei telai di Manchester.

Nel presente mondialista, ci assale un dubbio che sta diventando certezza, ovvero che, dopo avere demolito la manifattura italiana, che ha perduto , negli ultimi vent’anni, un quarto delle produzioni, anche l’agricoltura , che sta recuperando posizioni in nome della tipicità e della qualità, concetti invisi al grande capitale e più ancora agli gnomi della finanza, debba sparire dal Bel Paese.

Il destino nazionale sarà allora quello di una semplice piattaforma turistica , per mostrare al mondo – finché ci saranno- i gioielli del passato, architettura, pittura, il paesaggio costruito da generazioni che hanno amato il territorio e l’hanno plasmato nel rispetto della natura che ci ha regalato tanto. Un futuro da camerieri, da animatori di resort, lustrascarpe di nuovi ricchi, una Venezia in grande. Morta perché non ci si abita più, decaduta , frustata dalle maree, ferita da orde di turisti in mutande , infradito e macchine fotografiche.

L’Italia di un domani assai vicino, con contorno di “parchi tematici”, le Disneyland per la plebaglia incolta che stanno diseducando alla chiusura mentale, bagnini, maestri di sci , guide turistiche di miniere dismesse e panorami ex industriali, figuranti in costume folcloristico. I vecchi, in Bulgaria od alle Canarie, per reggere con la pensione sino alla fine del mese , e non disturbare. I giovani di valore, già se ne vanno a frotte : centomila l’anno scorso, dai pizzaioli ai fornai sino ai ricercatori universitari ed agli esperti economici.

Tutto già deciso, tutto chiaro, dalle olive all’industria che non può reggere , tra delocalizzazione e moneta folle chiamata euro. Vendiamoci anche il Colosseo, che il presidente della nazione più incolta del mondo, Obama , ha definito, dopo la visita , “più grande di uno stadio di baseball”. Imbarazzante.

Rassegniamoci, lui è il gran ciambellano dei nostri padroni, e prepariamo la livrea da portieri d’albergo e, per il Colosseo, quella da centurioni romani. I più in gamba suoneranno mandolini, prodotti in serie in qualche stabilimento del Terzo Mondo da operai strappati all’agricoltura che li sussisteva da millenni.

Altro che olio tunisino…..

ROBERTO PECCHIOLI