La sinistra ha perso il popolo. La destra ha perso.

di Roberto PECCHIOLI

 

Un recente interessante saggio di Luca Ricolfi ha come titolo Sinistra e popolo; la tesi di fondo è l’abbandono, da parte della sinistra politica e culturale, dei ceti e degli interessi che in altre stagioni si chiamavano popolari. Il professore torinese è di formazione filosofica ma insegna Analisi dei dati. L’intreccio di due conoscenze tanto diverse rende il suo approccio sociologico particolarmente suggestivo. Esponente della sinistra liberal riformista, il suo libro più conosciuto “Perché siamo antipatici?” aveva già sollevato il velo, da “insider”, sulla supponenza, il compiacimento narcisistico, il senso di superiorità etico-culturale della sinistra occidentale dopo, e nonostante, la fine del comunismo reale novecentesco.

Con l’ultimo saggio va più a fondo, riflettendo sull’abisso che si è scavato tra la “sinistra” ed il popolo. Usiamo le virgolette per sottolineare l’ormai scarsa capacità di certe parole a rappresentare concretamente dei concetti. Destra e sinistra, lo riconosce anche Ricolfi, sono inadatti a descrivere il mondo del XXI secolo, neppure esiste un uso condiviso della coppia oppositiva. Ciononostante, conservano una capacità evocativa che ha improntato un secolo, l’intero Novecento, ed un significato segnaletico non ancora tramontato.

Rinviamo una riflessione organica sull’argomento, a partire da un’articolata liquidazione dei due termini, da rimuovere come inservibili dalla cassetta degli attrezzi di un XXI secolo giunto al suo quarto lustro. Accettiamo tuttavia per comodità il linguaggio corrente, stante l’urgenza di dire qualcosa sull’altro polo in questione, ovvero la Destra. La sinistra, anzi le sinistre, hanno perso il contatto con il loro popolo, o meglio hanno profondamente mutato ceti, interessi ed ambienti sociali di riferimento. La destra, lo sosteniamo con convinzione, semplicemente ha perso.

Un’intervista di Ernesto Galli della Loggia ad un quotidiano legato a quell’area politica, nonché una severa critica di Marcello Veneziani contenuta in una recensione del libro di Ricolfi, offrono lo spunto per svolgere considerazioni a sostegno della sconfitta storica della cosiddetta destra.

G.B. Vico definì eterogenesi dei fini l’esito imprevisto, spesso opposto alle aspettative, di idee ed accadimenti. La nostra convinzione è che la sconfitta della destra (politica e culturale) risalga almeno alla fine degli anni Settanta del secolo passato, allorché, terminati gli effetti del dopoguerra, esaurita la spinta delle politiche economiche keynesiane, iniziato il declino dello stato sociale sull’altare delle crisi energetiche, Ronald Reagan e Margaret Thatcher inauguravano, con entusiasmo unanime delle destre planetarie, la stagione delle grandi privatizzazioni.

Entrambi i leader furono preceduti da un gran fracasso di parole d’ordine della destra civica e morale. Promettevano di porre al centro delle loro politiche i principi che si definiscono conservatori. Patriottismo, rispetto per la religione, centralità della famiglia, ordine morale come cornice di un ritrovato ordine sociale ed economico. Realizzarono unicamente, attraverso un grande trasferimento economico verso i potentati privati (industriali e finanziari) una nuova dorata stagione dell’economia di mercato, anzi, procedettero a tappe forzate verso una società di mercato. Posero cioè le premesse per la definitiva affermazione della dimensione economica su tutto il resto della vita degli uomini.

Furono i campioni baciati dal successo del liberalismo ortodosso. Sfugge a molti, specialmente a destra, che un venerato maestro del liberalismo, Friedrich Von Hajek scrisse un libro nel 1960 il cui titolo era chiarissimo: Perché non sono conservatore. Il liberalismo, infatti, è dottrina politica, economica e sociale molto lontana dall’orizzonte della destra politica. Ciò che importa ai liberali è il diritto di proprietà privata e soprattutto di impresa. Detestano lo Stato, che secondo loro dovrebbe limitarsi a funzioni di polizia, ovvero a difendere gli interessi degli imprenditori, ceto dominante, ed a riscuotere modeste tasse per mandare avanti una baracca che peggio funziona meglio è. Sono indifferenti alle religioni, tutt’al più le accettano come fatto privato o come alleate momentanee se c’è da mantenere il loro ordine. Difendono le identità nazionali solo fino a quando costituiscono un mercato abbastanza grande da soddisfare i loro appetiti, ed in quanto ai valori familiari, intralciano la trasformazione dell’uomo in consumatore.

Negli Stati Uniti, l’unico vero esperimento politico di destra fu la candidatura presidenziale perdente di Barry Goldwater nel 1964. Il mondo della “right nation”, giusta e nazione proprio perché di destra, tuttavia, non si basava soltanto sulla libertà economica, la polemica antiburocratica ed antifiscale. Credeva in un mondo nel quale la proprietà privata fosse ampiamente diffusa, per diffondere l’etica della responsabilità, il gusto dell’iniziativa personale ed il desiderio di miglioramento, era fortemente legata ad una visione etico morale cristiana, vedeva la famiglia come pilastro della società, rispettava ed innalzava il codice dell’onore, del dovere compiuto nei confronti dei propri cari, della comunità, dello Stato, della Patria.

Al dunque, ha vinto Von Hajek e, concretamente, i grandi apparati industriali e finanziari privati, che poterono iniziare lo spettacolare processo di concentrazione e dominio di cui siamo testimoni e che, ahimè, non è affatto terminato. La seconda grande sconfitta è avvenuta dopo il 1989, crollo del muro di Berlino. Vinta dal mondo detto libero la guerra non guerreggiata con il comunismo, si sono verificati due fatti di enorme portata. Da un lato, i vincenti – liberali, ripetiamolo sino alla nausea – hanno abbandonato le sovrastrutture per concentrarsi sull’unica struttura di loro interesse, deporre tutto il potere economico e finanziario ai piedi dei grandi potentati privati. Gettata la maschera, non avevano più bisogno di fingere di credere ai principi della destra “morale”: Dio, Patria e Famiglia, la triade che aveva consentito di tenere milioni di persone, la maggioranza di popoli interi, lontani dalle sirene del collettivismo comunista.

I fenomeni descritti si sono propagati come una pandemia dappertutto: pensiamo alla fuoruscita della destra francese dalla nobile tradizione nazionale gollista (Chirac, Sarkozy), all’ordoliberismo cui si è convertita la CDU tedesca, erede dell’economia sociale di mercato e della mitbestimmung (compartecipazione), alla deriva sottilmente antinazionale ed anticattolica dei popolari spagnoli. Per tacere, ovviamente, del volgare cammino dei neocons americani, ex trotzkisti convertiti alla politica di puro potere imperiale degli USA, vincitore della contesa geopolitica di fine Novecento e dei primi anni del millennio nuovo.

Chi scrive ricorda bene, da militante politico dell’unico partito italiano che, impropriamente, ostentasse l’appartenenza alla destra, il MSI, i moniti inascoltati di Pino Rauti, campione dell’ala più eretica e problematica del Movimento. Rauti esortava a festeggiare la fine del comunismo come un grande evento di liberazione da un incubo, ma invitava a serrare le fila per fare fronte al nuovo ordine mondiale fatto di globalizzazione, disprezzo dei popoli, consumismo, individualismo, trionfo del denaro. Un materialismo era uscito dalla storia, un altro, più insidioso, occupava tutta la scena. Alla destra, non solo italiana, non importava nulla: il nemico comunista era in rotta, senza sparare un solo colpo, e tanto bastava.

Il secondo fatto fu la rapidissima conversione – peraltro già preparata nei laboratori culturali e nei pensatoi accademici degli anni 70 – delle sinistre occidentali al verbo del mercato. Dall’internazionalismo proletario al cosmopolitismo mondialista il passo fu breve; ancora più semplice fu schierare le truppe degli orfani del comunismo sul versante della liberazione dei costumi, dell’ateismo pratico, della mistica dei “diritti”. In Italia, ebbe ragione Augusto Del Noce, il filosofo cattolico che profetizzò la trasformazione del PCI in partito radicale di massa, ma il processo fu simile e rapidissimo in tutto il mondo. La destra, ancora alle prese con l’ubriacatura dei festeggiamenti anticomunisti, taceva. Taceva e perdeva l’anima, venduta ai liberali in nome del nuovo idolo Mercato.

Da allora, le destre di tutto il mondo sono diventate le più fedeli esecutrici del programma economico – finanziario dei padroni globali (privati), esattamente come le sinistre si sono convertite in gran laboratorio di decostruzione dei costumi, delle tradizioni e dei valori europei. A loro il compito di rimodellare l’Uomo Nuovo, alle destre quello di guardiani degli interessi permanenti delle élite imprenditoriali e dei signori del denaro. Portati al macero Dio, Patria e Famiglia, si sono impegnati con tutte le forze a distruggere un’altra triade di principi incompatibili con il Mercato e la Globalizzazione: identità, sovranità, socialità.

Ernesto Galli della Loggia è l’intellettuale cui va il merito di aver teorizzato la “morte della Patria” italiana a seguito delle vicende della guerra civile, della sconfitta militare spacciata per vittoria politica, della spaccatura mai ricomposta, anzi imposta come mito fondante della Repubblica, con l’egemonia di forze nemiche della nazione, quelle di ispirazione cattolico democratica non meno di quelle marxiste.  Per questo va ascoltato con grande attenzione quando afferma che la destra italiana non è soltanto priva di un progetto politico, ma non ha neppure un programma di governo. E’ una triste verità, che sta alla base della perentoria enunciazione del presente elaborato: la destra ha perso e non esiste un “popolo della destra” con un comune sentire sorretto da un’idea di società. Peggio ancora, tutto sommato un sostrato unitario c’ è, ma solo in negativo, ed è l’ostilità al vasto mondo che ancora si definisce sinistra. Galli della Loggia prende atto che gli unici due punti programmatici su cui sembra esistere identità di vedute, nella mucillagine che chiamiamo destra, sono l’ostilità verso gli immigrati e il fastidio per l’eccessivo carico fiscale.

Persino su questi due unici punti, tuttavia, non tutti la pensano allo stesso modo: il professore pecca di ottimismo. Il berlusconismo terminale e le sue propaggini, infatti, non hanno mai dimostrato un vero interesse a politiche di contenimento dell’immigrazione, che conviene assai alla piccola e media impresa che fa profitti non con la qualità ma con il risparmio salariale. Del pari, mai il suo orizzonte culturale ha oltrepassato i confini dell’economia liberista ortodossa (Martino, Marzano, Brunetta). Eccetto i tentativi editoriali di Marcello Dell’Utri, personaggio controverso da tempo in carcere, Forza Italia si è attestata sull’imbarazzante subcultura pop della televisione commerciale.

Sul tema fiscale, a parte qualche giornata improvvidamente battezzata “no tax day” (la destra liberale ha in comune con gli omologhi di sinistra l’uggia snobistica contro le lingue nazionali, entrambi si esprimono in anglo economichese) se qualcuno cavalca la dubbia chimera dell’aliquota unica, altri sono più preoccupati del debito, mentre settori importanti della destra sociale pensano all’intervento pubblico. Insomma, confusione e ricette incompatibili tra loro. Lo stesso mitizzato popolo delle partite IVA, che costituirebbe il nerbo del blocco sociale avverso alla sinistra, sembra più un costrutto di bassa sociologia che una realtà. Piccola, piccolissima e media impresa possono benissimo convivere con una sinistra riformista che tenga a bada gli istinti animali della foresta fiscale e burocratica della sua ala radicale. In concreto, nulla sappiamo delle intenzioni – se ce ne sono – rispetto all’atteggiamento da tenere verso le grandi piattaforme informatiche (Uber, Airbnb ecc.), delle fondazioni, soprattutto delle gigantesche imprese canaglia del digitale (Facebook, Google, ecc.) che riescono a sfuggire quasi del tutto al fisco con una girandola di scatole cinesi e paradisi fiscali.

Il progetto è il grande assente, l’elaborazione culturale è lontana anni luce, il programma latita. Sull’immigrazione, la destra di governo produsse una buona legge (la Bossi Fini), largamente inapplicata per carenza, dicono, di decreti attuativi, e per l’eccesso di discrezionalità che il diritto nazionale concede alla giurisdizione. Dunque, nulla di fatto anche su quel versante. Manca, ed è il fatto più grave, un’idea condivisa di contrasto alla denatalità, così come una seria volontà di affrontare un problema drammatico, intrecciato all’immigrazione ed all’individualismo galoppante, che finirà per distruggere il nostro modello di società e la stessa base biologica della civiltà in cui siamo nati.

Vi è, al contrario, un appiattimento ignominioso sui luoghi comuni altrui da parte di settori importanti della destra “popolo che non c’è”. Lo stesso Berlusconi, i cui exploit più recenti sono fotografie presso i Mc Donald (tributo alla globalizzazione alimentare) e mentre dà il biberon agli agnellini (omaggio al luogocomunismo vegetariano che avrà fatto infuriare gli allevatori nazionali) ripete che una coalizione di centrodestra dovrà essere “a trazione liberale”. Infine, come dargli torto, se la politica si è ridotta a pura lotta di potere, per cui ogni mezzo è buono per avere un voto più dell’avversario, anzi del “competitor”?

Dicevamo delle triadi di principi abbandonati: Dio, Patria, Famiglia, come i più recenti identità, sovranità, socialità. La destra italiana ne ha enunciato orgogliosamente altri tre, e meglio sarebbe stato tacere: Internet, Inglese, Impresa. Tre strumenti, due dei quali ci invitano ad abbandonare del tutto la cultura di origine, esprimendoci in un idioma straniero il cui unico vantaggio è di essere (per ora) la lingua franca dell’economia e della finanza, e scambiando l’informatica per un fine. L’impresa è un mezzo – non l’unico- per creare ricchezza, ma essere imprenditori di se stessi, ormai è chiaro a chiunque, significa accettare ed interiorizzare una vita da precari. Se questa è la destra, alla larga, e, comunque, non si comprende per quale motivo dovrebbe essere preferita alla sinistra.

Il vero dramma, la sconfitta più devastante è avere, come dicevamo, interiorizzato le idee altrui. L’esempio più potente è il dominio del politicamente corretto. La sinistra ha dettato la linea, ha cambiato i significati (non di rado anche i significanti), gli altri si sono adeguati senza neppure tentare di ribaltare la situazione. Per questo affermiamo con convinzione che la destra ha perso.

L’agenda la dettano gli avversari, non c’è vera opposizione. Evidentemente agisce un devastante combinato disposto tra l’egemonia del pensiero strumentale, di matrice economica, indifferente a tutto fuorché all’allocazione delle risorse ed alla privatizzazione del mondo, e l’assoluta perdita di fiducia nei propri valori. Come parte della Chiesa non parla più di Dio perché nell’intimo non crede più, la destra ha abbandonato le sue parole d’ordine perché non è più d’accordo con se stessa. Ormai, si è convinta delle ragioni altrui: basti pensare ai penosi comportamenti di governi definiti di destra subentrati ad amministrazioni di segno diverso. Nessuno ha neppure tentato di modificare le legislazioni contrarie alla famiglia naturale ed alle nascite. Non è solo questione di lobby omosessualiste o del tradimento di ampi settori religiosi. Molto semplicemente, la spada di sinistra traccia il solco e l’aratro di destra lo difende, o almeno lo mantiene com’è. Nessuno osa affrontare le legislazioni abortiste, che scambiano una triste necessità da contenere con il diritto individuale di una sola parte, la madre che non desidera essere tale; poi gli istituti statistici diffondono dati drammatici sulla natalità, fingendo preoccupazione.

Che cosa pensi la destra sulla sovranità nazionale, se abbia un’idea in mente sulla difesa delle frontiere dall’onda delle migrazioni provocate da politiche mondialiste di rapina e da potentati internazionali non è dato sapere. Conosciamo idee e buone intenzioni di alcuni, ma se l’azionista di riferimento è il liberalismo, non c’è speranza. A sinistra si privilegia il movimento degli uomini, a destra quello di merci e capitali, ma la dialettica è: due ruote, un unico motore. Qualcuno chiede la fuoriuscita dall’euro, ma non ci dice chi controllerebbe l’emissione monetaria. Se affidata ad una banca privata come Bankitalia sarebbe comunque estranea agli interessi nazionali ed in mano straniera, data la composizione degli istituti partecipanti. Eppure il recupero della sovranità monetaria dovrebbe essere un pilastro di un programma di destra, come la supremazia del diritto nazionale su quello comunitario, il controllo pubblico delle fonti energetiche, delle reti di comunicazione, delle imprese strategiche per il futuro della nazione, l’indipendenza territoriale e militare.

Una politica sociale forte, rivolta a combattere la povertà dovrebbe essere posta al di sopra dei vincoli di bilancio che, insieme, destra e sinistra hanno posto in Costituzione, modificando l’articolo 81. Andrebbe pronunciata qualche parola netta sull’autonomia morale, anzi sul campo libero preteso dalla tecnologia, cioè dai suoi padroni, nel campo della bioetica, della cibernetica, della robotizzazione, delle tecniche di controllo sociale (impianto di microchip nel corpo umano, compravendita di dati personali, intrusioni di ogni tipo nella vita privata). Dalla sinistra sappiamo che cosa attenderci. Ma se la destra tace, significa che acconsente. Come acconsente di fatto alla diffusione delle assurde teorie antinaturali del “gender”, alle continue capitolazioni sul tema dei nuovi diritti che sono capricci o autentiche mutazioni antropologiche.

Il punto è quello già sfiorato: per condurre battaglie, occorre credere in qualcosa. La sinistra propone una quantità di disvalori che hanno invertito il mondo. La destra è contraria? O è solo un tantino più prudente, più lenta nell’accettare lo stesso sistema di principi, purché non intacchino il recinto sacro dell’Impresa, del Mercato misura di tutte le cose? Se così è, ha perduto senza speranza, perché tra la copia e l’originale è sempre preferibile la seconda, ma soprattutto in quanto ha accettato come definitiva una sconfitta iniziata nel 1789, allorché una rivoluzione borghese iniziò la distruzione di Dio, della Patria e della famiglia in nome dell’individuo e dell’interesse economico.

Nel baseball si può perdere per manifesta inferiorità. La condizione della destra di oggi è più umiliante: ha perduto per rinuncia. Non si è presentata al fischio dell’arbitro, per poi pervenire, dieci, venti, trent’anni dopo, alle medesime conclusioni della sinistra. Delle due l’una: o l’avversario ha ragione, ed allora non va combattuto, o non è un avversario, quindi la destra è finta, l’altra faccia della stessa moneta contraffatta.

Entrambe hanno perso il popolo, ma la destra, in più, ci ha rimesso l’anima. Veneziani non si stanca di invocare circolazione di idee, dibattito, pensiero e cultura. La nostra conclusione è più sconfortata: non ci sarà mai nulla di tutto questo se non si ha il coraggio di uscire dal recinto, dal cerchio magico. Per riprendere i valori permanenti, costruirne di nuovi, serve il coraggio di condurre battaglie di principio: si può perdere, ma si lascia traccia e si possono conseguire risultati. Diversamente, destra del denaro e sinistra dei costumi continueranno ad incontrarsi al centro. Il luogo sporco degli interessi, degli intrallazzi, degli affari, della svendita dei popoli privati di Dio, derubati dell’identità, allontanati dall’idea di patria, dimentichi della famiglia. Naufraghi, rari nantes in gurgite vasto, in attesa di affogare nell’abisso amaro di una storia interrotta.