La morte di Edoardo Baccin, il graffitaro finito sotto un treno, rischia di diventare un monumento all’idiozia

di Loris B. Emanuel

Raffreddate tutti i bollenti spiriti: qui non si sta per confessare un’inesistente gioia per una morte; come d’altra parte non ci si sta per strappare le vesti dal dolore. Ci si limiterà solo ad alcune riflessioni “a margine” rispetto alla piccola ma urticante canea mediatica e alla retorica che si sono sollevate attorno alla morte di Edoardo Baccin, graffitaro morto ad Arona.

Anzitutto sollevo un’obbiezione culturale e linguistica: uno che scarabocchia muri e vagoni ferroviari non è un writer, che tradotto significa letteralmente – scusate la banalità, ma pare occorra – scrittore. Il termine inglese conferisce a chi lo pronunci e a chi ne sia “insignito” uno status maggiore, sappiamo, e chissenefrega se il graffitismo nella cultura hip hop si chiami writing; ma sarebbe opportuno, primo, che, se proprio la compulsione a usare inglesismi è incontrollabile, fosse almeno ben direzionata e, secondo, che, come nel nostro caso, non si tentasse maldestramente di coprire un’attività illegale e, per soprammercato, di cattivo, pessimo gusto, e renderla ipso facto un’arte. Detto questo, c’è il merito della questione, ossia che è morto un giovane nell’esercizio di un’attività fuorilegge e in condizioni di pericolo e che i giornalisti hanno venduto la notizia come se un povero ragazzo innocente che stava solo esercitando la sua arte fosse stato ucciso da qualche crudele fatalità, magari ravvisabile in Dio o nello Stato.

Il gruppo di graffitari di cui faceva parte il giovane era composto da quattro ragazzi “conosciuti dalle forze dell’ordine del posto per i loro frequenti blitz nelle aree ferroviarie”. Ora, di grazia, perché questi noti esponenti dell’arte contemporanea non sono stati deportati al Guggenheim invece di lasciarli scorrazzare liberi e gaudenti sui binari dei treni? Perché piangere dei morti se questi morti sono annunciati e, scusate la franchezza, ad annunciarne la morte sono proprio loro stessi? Alla disgrazia umana si aggiunge quella giornalistica.

C’è infatti un’evidente complicità di certa stampa, per metà infetta da buonismo peloso e per l’altra metà da un’ideologia sovversiva e distruttrice, che accoglie tutto quanto sappia di rivolta, di ribellione e lo addita come esempio. Se poi questa ribellione ha pure l’ardire di presentarsi come arte e per di più arte fatta da giovani, allora non è possibile assumere alcun’altra posizione che non sia quella della volenterosa condiscendenza. Basti qualche esempio. Repubblica.it titola con forza «Travolto e ucciso da un treno». Il doppio participio è del tutto superfluo, ché una persona travolta da un treno non può che morire e solo in rari casi sopravvive, immaginiamo bene come, e serve solo come arte retorica, scadente invero, per suscitare la pietà del lettore. L’utilizzo poi del verbo “uccidere” è davvero sballato e crudele: immaginate il conducente del treno come possa sentirsi dopo questo bel titolo, che mira anche a suscitare un inutile senso di colpa e un odio sociale verso il ferroviere, il quale peraltro ha anche frenato il convoglio. Nel sottotitolo giovanilista si evidenzia l’età del morto, 20 anni, per impietosire ancor di più e giustificarne l’avventatezza. Il giovanilismo non ha confini: ai giovani è tutto permesso, anche se, come in questo caso, hanno superato la maggiore età.

In un video sull’accaduto di repubblica.tv il giornalista chiede a un amico della vittima: «Secondo te non è mai stato percepito il rischio cui si poteva andare incontro?». Pronta la risposta: «No, perché non era mai successo prima di oggi». Il binario è morto e «là non c’è proprio nessuno quindi uno può andare là e fare quello che vuole». Eh no, proprio non ci siamo. Anzitutto che non fosse mai accaduto prima di quel momento non giustifica né spiega (se non qualche reale problema cognitivo): se non si capisce che in una stazione ferroviaria in funzione passano i treni e taluni anche a velocità sostenuta e che l’impatto di un treno su di un corpo umano può provocare la morte e se si capisce tutto questo solo quando accade, allora siamo messi molto male. In secondo luogo cosa significa la frase «fare quello che vuole»? Chi lo ha detto, se non questi giovani alla deriva, che si può fare ciò che si vuole, tanto, in sostanza, nessuno ti vede? Perché è questo che stanno dicendo, con la sostanziale compiacenza non solo dei mezzi di comunicazione ma anche di quell’antica o ormai estinta struttura pedagogico-sociale che un tempo aveva nome famiglia. Quella che piange dopo la fuga dei buoi, incapace oggi com’è di chiudere la stalla persino dopo che son fuggiti.

La complicità però è anche delle cosiddette istituzioni. Mercoledì 12 agosto, giorno del compleanno di Edoardo, il Comune di Somma Lombardo, città del giovane, gli dedicherà – udite, udite – un murale: «In memoria di Edo».Qual è il messaggio che una municipalità – non parliamo di comunità, ché non si sa mai se davvero la cittadinanza in questi casi sia d’accordo con gli umori cartacei di giornalisti e politici in cerca di voti – lancia ai suoi giovani e ai giovani del Paese, con la volenterosa partecipazione della stampa di regime, dedicando un monumento a un imbrattamuri (opinione personale: il writing per me è questo) che ha messo a rischio la propria vita infine perdendola? Faccio l’antipatico: il termine monumento – che si addice non solo alle statue, occhio – deriva dal verbo latino moneo, ossia «ammonisco», «metto in guardia», «consigliare», «suggerire», «incitare», «ispirare» e simili. Ma se un monumento è eretto in memoria di un pessimo esempio, qual è l’ammonimento sotteso, a che cosa si incita, a morire? E, fuor di filologia, cosa intende dimostrare l’amministrazione comunale di Somma Lombardo, cosa vuol significare invitando di fatto la popolazione a ricordare “Edo”: che bisogna essere più furbi per non suscitare un profondissimo dolore ai nostri cari e a non dar cattivo esempio oppure che, come direbbe Menandro, «muor giovane colui ch’è caro agli dèi»? Tenderei a escludere entrambe le ipotesi e a formularne altre. Per esempio che sull’onda di emozioni scombiccherate – oggi tutto è emozione, tutto funziona e vende se suscita emozioni, la riflessione essendo diventata moneta fuori corso – si va a perpetuare pubblicamente la memoria di qualcuno che, al netto della pietà, non può esser certo additato come esempio per la comunità e per i suoi coetanei. Un murale per Edo non farà altro che stimolare l’emulazione, coprire le responsabilità e le irresponsabilità, scaricare su di esso, come un capro espiatorio, le colpe di quegli adulti che, invece di sorvegliare ed educare preventivamente, hanno innescato una fecondissima spirale di lassismo e di permissivismo tale che porterà i sempre più sprovveduti giovani e giovanissimi – con complicità adulte, ché poi gli amministratori sono genitori, e viceversa – a ferirsi e a morire con sempre maggior frequenza. E il male scaccerà un altro male. La prossima morte per idiozia scancellerà quella precedente e via di questo passo. Prima o poi ci si abituerà, tra un murale e un graffito. E invece occorrerebbe inopinatamente censurare ogni sconsiderato gesto che possa essere nuocere alla già instabile psiche dell’essere umano.

Da Il Discrimine, 10 agosto 2015